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Ne vale la pena? #3

di Marsilioblack

Caro Tiziano Scarpa,
in un tuo pezzo di qualche giorno fa su Nazione indiana raccontavi della frustrante esperienza di cercare A perdifiato, l’ultimo romanzo di Mauro Covacich, uscito di recente per Mondadori, in una “media libreria italiana”, senza trovarlo.

E così concludevi:
Noi viviamo in un paese che non tiene in alcun conto le opere d’arte linguistiche.
Noi viviamo in un paese che preferisce di gran lunga il penultimo e l’ultimo degli autorucoli americani e in generale anglofoni ai migliori scrittori che si esprimono nella nostra lingua.
Noi viviamo in un paese che ritiene che non sia nemmeno il caso di prendere in considerazione il romanzo di un autore italiano se questo non è già famoso, o non è americano, o non è un comico televisivo, o non scrive noir.

Riguardo al caso specifico del libro di Covacich, ti ha risposto lui stesso con considerazioni che io trovo assolutamente condivisibili, individuando il paradosso per cui non sempre è vantaggioso, in termini di distribuzione, promozione e visibilità dell’opera, pubblicare per una grande casa editrice. Ma il tuo discorso ha una valenza più ampia, ed è su questo che voglio risponderti. Mi ha infatti stupito ritrovare nel tuo pezzo – perdonami – gli stessi luoghi comuni autocommiseratori che animano le recriminazioni di molti aspiranti scrittori rifiutati.

Tralasciamo i comici televisivi (i loro libri sono boiate? Sì, però vendono, e allora non si capisce perché non dovrebbero essere pubblicati) e gli autori già famosi (ma come lo sono diventati, se per te hanno successo solo comici, americani e noiristi?). Restano, come massimi responsabili della scarsa fortuna editoriale degli Autori italiani con la a maiuscola, i romanzieri in lingua inglese e quelli di narrativa di genere.

Cominciamo dal noir. Innanzitutto, all’interno del genere noir (o giallo, o poliziesco), si possono trovare capolavori come quelli di James Ellroy, Derek Raymond, Jean-Patrick Manchette, Giorgio Scerbanenco, così come un sacco di cagate commerciali, per cui parlare di noir così genericamente non ha molto senso. Poi, ci sono piccole case editrici specializzate in noir di qualità, come per esempio Meridiano Zero, che hanno con distributori, librai e media problemi enormi. Quindi non è vero che basta scrivere (o pubblicare) un noir per vedersi spianata la strada del successo commerciale.

Ma quello che secondo me è il vero motivo per cui la letteratura di genere, popolare, “bassa” (come spesso viene considerata con disprezzo), tende a incontrare maggiormente il favore dei lettori (e di conseguenza di editori, distributori e librai) rispetto a tanta letteratura “alta”, autoriale, lo ha colto benissimo Paco Ignacio Taibo II in questo intervento a un convegno. Ecco, invece di lagnarsi incolpando tutto e tutti tranne che se stesso, uno scrittore dovrebbe cominciare col chiedersi dove ha sbagliato lui, in cosa è stato incapace di creare o mantenere un rapporto con il lettore. La letteratura di genere nel complesso ha conservato la capacità, di cui parla Taibo, di incontrare il lettore, di sorprenderlo ed emozionarlo. E forse, invece di protestare perché gli scrittori noir rubano spazio ai “veri” scrittori, questi ultimi farebbero bene a imparare qualcosa da loro. Come ha fatto per esempio Niccolò Ammaniti, l’unico tra gli ex “giovani cannibali” ad aver davvero assimilato la lezione della narrativa di genere, o pulp, e che infatti ha successo (pure nei paesi anglosassoni, tra l’altro) pur senza essere un comico o un americano. Una lezione di cui per lo più gli scrittori anglosassoni fanno tesoro, anche quelli non di genere (Nick Hornby, Jonathan Coe ecc.), e che può riassumersi nell’attenzione e nel rispetto per il lettore. Lo spiega bene anche Kurt Vonnegut (un autore che certo non può essere considerato volgarmente commerciale) quando scrive che un romanziere deve “avere compassione per i lettori”, perché “anche loro hanno un lavoro duro da fare, e hanno bisogno di tutto l’aiuto che possono ricevere da parte nostra”; bisogna allora scrivere per il lettore e non a prescindere o contro di lui: “Le nostre scelte stilistiche in quanto scrittori non sono né numerose né affascinanti, dal momento che i nostri lettori tendono a essere artisti così imperfetti. Il nostro pubblico vuole che siamo… sempre pronti a semplificare e chiarire, mentre noi preferiremmo librarci alti sopra le moltitudini, cantando come usignoli”.

Non sto dicendo che sia il caso tuo o di Covacich (né che editori, distributori e librai siano vergini di ogni colpa, tutt’altro), ma se molti dei cosiddetti Autori italiani non ricevono attenzione, è semplicemente perché, mentre scrivono, non manifestano la minima compassione verso i lettori, bensì indifferenza e talvolta un malcelato disprezzo. Uno è libero di “librarsi alto sopra le moltitudini”, lanciarsi nelle più sofisticate e ardite sperimentazioni stilistiche, e fare del proprio ombelico il centro dell’universo, ma poi non si può lamentare se il pubblico si rivolge altrove (magari ai vituperati noir). Aforisticamente: scrivi per pochi, e sarai letto da pochi.

Marsilioblack.tk

P.S.: oltre che nei commenti al presente post, una discussione su quanto sopra si è sviluppata su Falso idillio, The Petunias e Contaminazioni.

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