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Perché i bloggers usano nomignoli di copertura?

di Carla Benedetti

Sommario di questo intervento:
Riprendo “Bloggers, siete peggio di Liala! ” di Tiziano Scarpa
L’autocensura non è solo nei contenuti, ma nella rinuncia al peso dell’identità .
Il blog pullula di Io docili, leggeri, interscambiabili.

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Mi ha colpito leggere qui su Nazione Indiana la botta e risposta tra Tiziano Scarpa e Marsilioblack . Uno scrive: “Caro Tiziano Scarpa”. L’altro risponde: “Caro Marsilioblack” . Che strana cosa!

Da una parte un individuo con un’anagrafe, un’età, un volto, una testa rasata, autore di quei tali libri (che, se voglio, posso anche andarmi a leggere, per verificare la coerenza di ciò che dice). Dall’altra un’entità in costume, come un super-eroe mascherato . Oppure: da una parte un umano in carne e ossa, dall’altra un cartone animato – come nel film Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eppure stanno l’uno di fronte all’altro, a discutere delle stesse cose, come se le loro parole potessero incidere nel mondo allo stesso modo. Come se il mondo potesse reagire a ciò che dicono allo stesso modo.

Invece tra queste due enunciazioni c’è un dislivello, un diverso grado di realtà, un abisso.

Mi spiego meglio. Non è che Tiziano Scarpa sia uno “autore autorizzato” perché ha pubblicato libri e Marsilioblack no (o non si sa). Il fatto è che tutto ciò che Scarpa dice può essere usato contro di lui, mentre quello che dice Marsilioblack, fossero anche le più colossali sciocchezze, nessuno potrà ritorcergliele contro, quando, mettiamo, pubblicasse un articolo o un libro col suo vero nome. Non è una differenza di status, o di notorietà, o di legittimazione. E’ una differenza di responsabilità .

Perché allora la maggioranza dei bloggers usa identità fittizie? Che cosa ci sta a fare questo filtro proprio in un luogo come il blog che per sua natura permette a ognuno di parlare senza i filtri soliti: quelli dell’editore, del produttore, del caporedattore, del distributore, dell’organizzatore di festival, di convegni o di mostre?

Il blog è un mezzo meraviglioso (anch’io ne sto approfittando in questo momento pubblicando su Nazione Indiana), che consente di scavalcare i mediatori, di evitare le censure piccole e grandi di chi detiene i piccoli e grandi poteri della comunicazione. Abbiamo in mano la parola diretta!

Ma non c’è parola diretta senza assunzione di rischio e di responsabilità da parte di chi scrive. Quante cose potrebbero essere dette qui, che potrebbero avere un impatto, un effetto, far andare le cose in un altro modo. Ma ecco che questa parola viene subito resa indiretta , e con ciò affievolita, da questa procedura dell’identità mascherata. Perché?

Questa è la mia domanda ai bloggers. Che voglio aggiungere a quelle lanciate da Tiziano Scarpa.

Tiziano chiedeva: “Perché non mi raccontate qualcosa che vi costi vergogna, e dolore? Perché vi fermate sempre sulla soglia….?” Perché “enormi spazi di espressione libera sprecati a raccontare fuffa?“. Io gli chiedo quest’altra cosa. Perché filtrate le vostre identità ?

Tiziano ha ragione a dire che i diari in rete sono spesso “autocensura giornaliera in pubblico ”. Ma secondo me non è solo una questione di contenuti. Uno può anche raccontare cose che gli costino vergogna e dolore, e tuttavia continuare a autocensurarsi . Ma vediamo di ragionare su questo, partendo proprio dall’identità mascherata.

Non è che io tenga alla firma. Non è questo il punto. Il punto è che il nome è un vincolo col mondo e con la collettività . E non c’è niente di più leggero di una parola che si è staccata persino da questo vincolo.

Una delle forme di potere più terribili del mondo contemporaneo è quella che agisce nella direzione dell’alleggerimento degli individui , della sottrazione di peso, della sottrazione di mondo e di collettività . I nuovi poteri chiedono Io docili, interscambiabili, leggeri. Così nella rete, come fuori.

Anche nella rete il potere agisce recidendo legami: legami con l’esperienza, legami con la collettività. “Entrate, connettetevi! Ma lasciatevi dietro ogni peso!. Comunicate in prima persona, raccontate quello che volete, ma siate senza vincoli con il mondo, e con l’esperienza!” E nel blog questo tipo di azione del potere ha una via incredibilmente facile. Pochi gli stanno facendo resistenza. Perché?

L’Io dei bloggers è quasi sempre così: aereo, leggero, quindi docile. Parla di sé, certo, parla con il proprio Io sempre in primo piano, ma non fa “il lavoro sporco dell’Io” – diceva Tiziano. Fa il lavoro dell’Io docile – aggiungo io.

L’autocensura in rete, secondo me, non riguarda tanto i contenuti, ma anche e prima di tutto la posizione che prende l’Io nella scrittura . Riguarda certe procedure di cui fa parte anche il mascheramento dell’identità. L’Io che parla in rete troppo spesso si piega a una procedura che ha già incorporata l’azione di un potere.

Il disancoramento della parola dal peso dell’individuo è anche un disancoramento dal mondo e dalla collettività. Perché solo quando ci si assume la piena responsabilità di ciò che si dice, e i rischi che ciò comporta, si è nel mondo, si agisce nel mondo, e si instaurano legami e comunicazioni piene. Altrimenti si vaga sulla superficie di un’orizzontalità vuota e senza peso , quella che appunto la rete induce, esercitando così un potere sulla parola che in essa circola.

E’ questo alleggerimento di peso che rende così tristemente solipsistico il discorso dei bloggers.

Tiziano ricordava la grossa campagna pubblicitaria che ci fu tra il 99 e il 2000: quando regalavano dappertutto i cd-rom con i programmi autoinstallanti per la connessione in rete. Te li davano per strada, sui giornali, nelle stazioni, nei centri commerciali. L’imperativo era: “collegatevi!”. Era il momento d’espansione dell’economia virtuale. Poi quell’economia si è sgonfiata. Il virtuale di massa, però, resta. Sì, non dimentichiamolo! E’ da lì che è venuto fuori questo “sterminato pullulare di io, di diari, di persone spesso anonime, che parlano dei fatti propri, che sputano sentenze su qualsiasi cosa, che dialogano a tu per tu con il Papa, con Bush, con Kafka…”

Che cos’è mai questo “a tu per tu”? E’ una comunicazione impoverita, senza peso.

La rete e gli strumenti che in essa possiamo usare, compreso il blog, non ci sono stati concessi gratis. La rete non è il paradiso. Anch’essa è attraversata da relazioni di potere. A chi vi entra, essa impone la sua “procedura”;: “Alleggeritevi! Lasciatevi dietro ogni legame forte col mondo. Alleggeritevi persino della vostra identità!”.
Perciò nel blog si trova così poco trauma .

Ancora una volta, non è solo un problema di contenuti. E’ un probema di peso dell’individuo. In rete, come fuori, l’individuo viene forzato all’orizzantalità, alla leggerezza senza traumi, alla cancellazione dell’esperienza. Il potere si manifesta così nel blog. Io docili, entità senza corpo, interscambiabili, in un gioco di caleidoscopi.

L’Io del blogger a volte mi ricorda l’uomo della folla del racconto omonimo di Poe. Quello che gira senza meta per la metropoli nell’impossibilità di stare solo un momento, e che di notte, quando i flussi delle persone si diradano, si dirige verso le uscite dei teatri, o verso dove spera di trovare altra folla. Poe diceva di lui: “Invano continui a seguirlo, poiché nulla di più riuscirai a sapere di lui e delle sue azioni”. E se anche ne incroci lo sguardo, non si lascerà decifrare. Anzi se lo guardi negli occhi ne ricevi solo sgomento. Poe diceva anche che l’uomo della folla era “il genio tipico del delitto profondo”. Egli ha infatti annegato la propria individualità forte (quella che ha radici nel corpo, nella propria storia, e nei legami con gli altri) nell’oscurità della comunicazione leggera e senza fondo.

Così questi Io che pullulano nella rete, in cerca di contatti, di commenti.

Un pullulare di Io docili non è una collettività.

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24 Commenti

  1. Ho letto attentamente, mi pento, ritiro: niente commento “epico”. Non me la sento. Non ne vedo la necessità. Non è richiesto.
    Un commento “rapido” all’autore quarantenne che ha pubblicato sette libri, quello sì, citandolo (intendo l’autore quarantenne che ha scritto SETTE libri), non vorrei interferire nel suo sistema filtrato: meno male che non vengono solo pubblicati gli autori autorizzati! che stanchezza sentire le storie dei figli raccomandati! che brutta cosa sentir dire “per fortuna nessuno si riunisce in una libreria per ascoltarmi”! che sollievo accorgersi che “chiunque può pubblicare e farsi notare, se ha la stoffa”! che orrenda la parabola dell’ombelico (autore, quarantenne, di sette libri, con l’ombelico sporco)! che sleale la presa in giro della Parola Diretta! che fissazione quella di tentare di costringere persone libere a parlare dei “traumi”!
    E, per venire ai post di replica: che noia chi vorrebbe decidere sulle identità e chi è o “non è nel mondo”! che avvilente il paragone del blogger con l’uomo della folla che diviene “genio tipico del delitto profondo” che non può che appartenere ad un addomesticato regno privo di collettività!
    E, infine, mi si permetta, che palle (e mi scuso) l’outing, la cosmogonia, i solipismi, l’ “Io docile” e le procedure (e il pensiero debole?). Anzi, e mi riscuso, che strapalle!
    Comunque grazie per avere esposto le vostre idee. Davvero. Infine, per favore, lasciate in pace chi scrive dei propri fatterelli insulsi (sicuri che lo siano? sicuri che la realtà sia fatta di maestrini filtrati?).

  2. Mi perdoni, ma mi sembra un ragionamento un po’ semplificato. Chi scrive per mestiere ha ottime ragioni per firmarsi col proprio nome: è il suo logo, e di quello vive. Chi col proprio blog ci gioca, ha tutto il diritto di inventarsi nomi e persino identità, se questo lo aiuta a trovare un nuovo modo di esprimersi. Non è questione di responsabilità, credo. Si può essere assolutamente corretti e sinceri firmandosi con un nick, e invece abusare del proprio nome d’Autore in maniera discutibile. Non sono d’accordo neanche sull’assenza di filtri; ci sono eccome, e sono molto più banali di quelli lei citati: sono le persone a cui *non vogliamo* far leggere le nostre cose (che siano racconti, diari, elucubrazioni o opinioni) perché il fatto stesso di sapere che loro le leggeranno ce le farebbe scrivere in un altro modo, cioè il solito, piatto e quotidiano. Se poi è così ansioso di sapere un nome e un cognome, basta chiedere: in quasi tutti i blog è indicato un indirizzo e-mail; personalmente non ho mai negato la mia identità a chi me l’ha chiesta.

  3. io leggero a chi? Io leggero sara’ il suo! (ma Stendhal, tanto per citare uno che di egotismo se ne intendeva, aveva un io leggero? e non e’ forse vero che gli scrittori comunque sfuggono, che il gioco della scrittura e’ un gioco di maschere, di specchi che non restituiscono mai l’immagine reale di chi sta “dall’altra parte” del testo? ma perche’ ci costringete a scrivere queste banalita’? ma che cosa vi hanno fatto di male i bloggers per avercela tanto con loro?)

  4. lei signora, ce l’ha un nome. anzi, un Nome. ciò che lei dice o non dice fa differenza, ciò che afferma e contrasta ha un rilievo nel suo mondo. ma io, rifletta: che differenza fa se mi chiamo Andrea Marini, Sandro Baroni o Adele Paschi? Qualcuno nota la differenza? io sono nessuno, signora, e il mio nome lo tolgo perché non ci si faccia illusioni. ma questo nessuno oggi parla e risponde. questo è solo il mezzo per farlo. lei ha capito male. non lo tema e non lo travisi. scelgo nessuno consapevolmente, ma lei vede un piccolo io debole e supplicante. si tolga gli occhiali e guardi meglio. Lei può farlo. e già che c’è, parli anche Lei, ché non vedo trauma nelle Sue parole, ma solo un piccolo io abituato ad affermare. stia al mio livello. sono io, nessuno, che la sfido.

  5. Gentile signora Carla, interessante questo dare contro agli pseudonimi, grande invenzione dei blog! Soprattutto divertente, visto che sotto pseudonimo si scrive da secoli. Ma soprattutto, avevamo bisogno di qualcuno che cominciasse a pontificare e a spiegarci come deve essere vissuta la vita, e scritto un blog. Io mi firmo mastorna, in omaggio a una persona che ha saputo farmi sognare, e mi chiamo michele motta. Ho un indirizzo email da cui rispondo, scrivo quello che voglio, come voglio, e non mi interessano gli accessi al sito. Non filtro la mia identità, sempre presente, ma scrivo con uno pseudonimo, perché mi piace. Il blog è per me una valvola di sfogo, e me ne frego allegramente del “solipsismo” che i miei post potrebbero esprimere. Seguo internet da 7 anni, non ho mai preso un cd-rom che mi “obbligasse” a collegarmi, e non apprezzo chi internet lo critica, senza però conoscerlo davvero. Leggo le lettere della Aspesi, e preferisco infinitamente molti “bloggers” che parlano di se stessi, dicendo, nel bene o nel male, bene o male, quello che passa loro per la testa. Il suo post, signora Carla, come quello del signor Tiziano, cadono nella categoria del “ti insegno come stare al mondo”, “ora ti spiego come si scrive”. Senza accorgervi della grande forzatura che state facendo: un blog non è, né vuol essere, un libro scritto per un pubblico pagante. Chi scrive lo fa, il più delle volte, per se stesso. E se qualcuno legge, tanto meglio. Io non mi autocensuro nel blog, anzi, sfogo le censure cui sono costretto tutti i giorni dovendo vivere in società. Intorno al blog si sta creando una vera e propria comunità, forte, interessata, aggiornata e indipendente. Se lei frequentasse con maggior presenza il mondo dei blog, si accorgerebbe che l’uso di pseudonimi non implica l’alleggerimento dell’individuo, l’interscambiabilità tra due. Ogni blog ha una sua personalità. Chi più forte, chi meno, chi “confusa”. Il suo intervento, dal mio punto di vista, non fa che dimostrare quanto non sia tanto una firma a dare peso a uno scritto, ma la capacità di andare al di là della superficie e della generalizzazione. E lei, con questo, ha dimostrato un’estrema leggerezza.

  6. C’erano abissi di sofferenza così profondi da costringere noi, “Io leggeri”, a nasconderci, a fingere, a smentire la nostra identità, per non esserne risucchiati e assorbiti. Questo nel mondo reale. Forse, in un mondo ideale, saremo pronti a porgere carta d’identità e tesserino ASL. Elena mi ama

  7. Cara Carla, mi sembra piu’ che evidente perchè molti di noi ( la maggiorparte) non si firma con nome e cognome.
    Per ragioni di privacy. Noi non siamo autori di racconti, scrittori; mettere il nostro cognome sul blog significherebbe essere rintracciabili.
    E lei sa meglio di me che chiunque puo’ leggere e non esistono filtri.
    Io personalmente sul mio blog sto scrivendo ne’ piu’ ne’ meno che la mia vita, il mio dolore per la pedita di mia madre , i miei affetti per le persone che amo.
    Ma questo non lo si fa per notorietà o per soldi.
    Chi scrive un blog non guadagna, quindi il numero degli accessi o dei commenti al tuo post sono solo una soddisfazine personale.
    Ma parlo di soddisfazione in senso “umano” e non numerico.
    Mi spiego: uno scrittore ha un rendiconto sia economico che di notorietà se è piu’ “venduto”.
    Un blogger ha un rendiconto morale. Io interesso,altri mi condividono, altri parlano con me.
    Creda, lo dice una persona che di problemi anche economici, ne ha passati proprio tanti, non c’è soddisfazione piu’ grande di essere condivisa.
    Mi permetto un abbraccio!

  8. Gentile Carla Debenedetti,

    pur non avendo letto nulla di suo, so che lei e’ una stimata critica letteraria, dunque un po’ mi stupisce che lei entri cosi’ a gamba tesa, con leggerezza e superficialita’, in una questione di cui con tutta evidenza sa poco o nulla.
    Se prima di scrivere il suo pezzo si fosse presa la briga di visitare e leggere il mio blog, avrebbe scoperto che si tratta del sito della collana di narrativa noir “Black”, edita da Marsilio, riconducibile a chi quella collana cura. Il mio operato in campo editoriale e’ dunque sotto gli occhi di tutti, e il mio nome tutt’altro che segreto (e’ stampato in ogni copia dei libri che pubblico, e lo si puo’ trovare facilmente anche in rete, per esempio qui: http://www.alice.it/news/primo/de_michelis_jacopo.htm).
    Ma a parte questo, che il ricorso a nickname o alias in rete sia da sempre tradizione diffusa e accettata lei non e’ ovviamente tenuta a saperlo o approvarlo, ma venire a criticarlo e’ un po’ come andare dagli scozzesi e dirgli che la smettano di indossare quei ridicoli gonnellini (lascio immaginare a lei quale risposta otterrebbe). Inoltre, non devo insegnarle io come l’uso di pseudonimi non sia estraneo nemmeno al mondo della letteratura (e a quello del giornalismo, peraltro).
    Trovo comunque molto significativa dell’atteggiamento di certa “società letteraria” tutta questa attenzione al “chi” del discorso piuttosto che al “cosa”, quasi a invocare una sorta di principio di autorità, per cui un ragionamento ha un valore diverso a seconda di chi lo pronuncia, perche’ c’e’ chi e’ autorizzato e legittimato a farlo, e chi no.
    Altri meglio di me potranno poi valutare la sostanza delle sue osservazioni circa l’identità in rete, io mi limito a osservare come quello che lei ha fatto nel suo pezzo equivale a recensire un romanzo dopo averne intravisto la copertina nella vetrina di una libreria.

    Jacopo De Michelis
    Marsilio Black
    http://www.marsilioblack.tk

  9. Cara signora, lasciamo stare il fatto che migliaia di scrittori, musicisti, pittori, artisti in genere si sono “nascosti” (virgolette volute) dietro pseudonimi, senza che ciò togliesse od aggiungesse alcunchè al valore della loro opera.
    Lasciamo stare il fatto che è abbastanza sconcertante il fissarsi sul “chi” piuttosto che sul “cosa” – ma cosa conta? chi sono io o cosa scrivo?
    Ma che una critica letteraria non si renda conto che gli pseudonimi, i nick, i nomi dei blog sono in sè delle storie, beh, questo è veramente straordinario. Se vuole una prova, venga da queste parti: http://squonk.splinder.it/1052996951#233276. Cordialmente.

  10. Gentile signora Benedetti,
    mi riallaccio ai commenti precedenti ed al suo post per un ulteriore annotazione.
    L’adozione di uno pseudonimo, o nickname, o alias, o come lo chiama lei nomignolo, oltre che essere, come ricorda giustamente Sir Squonk (e le consiglierei caldamente di leggere con attenzione il link riportato “Coma hai detto che ti chiami?” e relative risposte nei commenti) una storia in sè, molte volte esprimono l’identità di chi scrive meglio del nome anagrafico. Perchè lei non ha scelto di chiamarsi Carla, gentile Signora, è stata una scelta dei suoi genitori, così come non ha potuto scegliere di nascere in una famiglia con un patronimico diverso da Benedetti. Certo, c’è sempre la possibilità (motivandola) di chiedere un cambio di cognome all’anagrafe, ma è poco usata e vista con sospetto.
    Dietro un alias invece c’è una precisa scelta, perlomeno dell’identità che si desidera assumere. Le consiglierei amichevolmente, vista la sua probabile poca dimestichezza con le nuove forme di comunicazione, di leggere con attenzione il saggio “Essere Digitali” di Nicholas Negroponte, in Italia edito da Sperling & Kupfer nel ’96 e più volte ristampato.
    Distinti saluti.

  11. “Che cosa c’e’ in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, con un altro nome profumerebbe lo stesso;”
    sono le parole di uno scrittore, chiamiamolo.. che ne so.. Gringo! così lo facciamo diventare anche lui un super-eroe mascherato!

  12. le riporto un mio ulteriore commento lasciato nel blog di marsilioblackLei parla di responsabilità politica e di non effettualità delle azioni compiuto sotto “nome d’arte”. Ma che c’entra l’impatto di ciò che si dice col nome? se si tratta di letteratura, onestamente non penso che il fatto che moravia si chiamasse pincherle cambiasse di molto la cosa. Allora il problema è la riconoscibilità pubblica, non il nome anagrafico? Cioè la foto, il dire “quello è lui”. La visibilità. Onestamente, tralasciando le questioni evidenti che afferiscono alla differente natura dei media (la rete non è un medium visivo, la stampa i rotocalchi si), a parte le interviste (che tuttavia spesso i blogger rilasciano, io stesso sono stato intervistato un paio di volte) e il gossip, non penso che se un autore costruisse la sua carriera sull’invisibilità pubblica questo cambierebbe di molto le cose. Gli autori fanno con ciò che dicono nei libri, non con la loro persona pubblica che sovente, immagino, sia piuttosto deludente (ma azzardo, sono inesperto in materia). Se poi consideriamo invece altri campi, ad esempio il giornalismo, la cosa è ancora più evidente: la brevissima storia dei blog americani è già ricca di casi in cui media ufficiali hanno dovuto cambiare versioni perché smascherati da blogger sconosciuti o anzi conosciutissimi dietro “nome d’arte” e al passaparola, che è poi il meccanismo di diffusione della notizia sui blog. Perfetto esempio di “potere” esercitato dal basso, mi pare. A me l’unico caso in cui, a parte gli incontri, le cene, le conferenze, le uscite in amicizia (in cui ebbene sì anche noi “ci facciamo vedere”, ed è spesso divertente), a un blogger potrebbe sembrare essenziale far sapere la sua identità “ufficiale” nel caso non lo abbia fatto “naturalmente” fin dall’inizio, è quello in cui voglia cominciare a far soldi, diventando un Autore Autorizzato. Sbaglio? Quali altri casi ci sono? Wu Ming è un autore collettivo che si firma “Nessun Nome” e fa romanzi politici (che possono anche non piacere). I “veri autori” di Wu Ming li si può incontrare dal vivo alle presentazioni dei libri, esattamente come accade a molti blogger durante le conferenze pubbliche organizzate sul blogging, che non vengono svolte in scantinati segreti (una recente è stata alla Casa della Cultura di Milano, con tanto di giornalisti al seguito). Veramente, dove sta il problema?

  13. “Ancora una volta, non è solo un problema di contenuti. E’ un probema di peso dell’individuo”.
    Vero. Il problema è l’obesità dell’Io della signora Benedetti (che naturalmente non ha nulla a che vedere col suo Io corporeo, che per quanto mi riguarda e m’importa può benissimo essere anoressico, o in perfetto peso forma). Firmato: un Io blogghesco assai poco docile, decisamente letterario e associato a un nome e cognome scritti belli in grande e in alto. Finché mi va di tenerceli.

  14. Carla,
    la letteratura, quella firmata con nome e cognome, abita solo marginalmente nei blog, mentre i blog stanno andando, come ‘noi’ che in internet ci lavoriamo da anni abbiamo sempre sperato, a costituire il tessuto stesso della rete, riportandola ad un interagire di personalità e di individualità che i fasti commerciali avevano fatto dimenticare.
    Su internet ci si firma spesso, anzi quasi sempre, con nickname (ché si dice nickname e non pseudonimo, attenzione) per una serie di ragioni che sussistono -e continuano a sussistere- da molto prima che tu ti ci affacciassi. I blog nascono su internet (e dove avrebbero potuto nascere, altrimenti ?), ergo i blog sono firmati con un nickname. Non pare difficile. Il fatto che io mi firmi dario anziché quiqueg, cambia qualcosa ? “Scaligero” è “meno” Giuseppe Genna di Giuseppe Genna ?
    E, per Dio, evviva l’orizzontalità, almeno qui.

  15. Io non credo che la questione sollevata in questo intervento riguardi strettamente i nomi dei “bloggers”. Non sono fra questi, ma ho cominciato a leggere alcuni “blog” (diversi, a dire il vero) in questi giorni. Per pura curiosità, e proprio partendo da nazioneindiana. Dio, io non sono una scrittrice. Ma usando una buona dose di immaginazione credo che, effettivamente, scrivere a queste condizioni -quelle dei blog- sia un lavoro molto più facile rispetto a quello che fa chi riversa in un qualsiasi spazio (di carta, virtuale) non solo delle parole ma anche, e soprattutto, la sua identità. E non importa se si tratta di un illustre sconosciuto o di un autore noto. Non è possibile arrampicarsi sugli specchi di fronte alle argomentazioni di Carla Benedetti. Che, lo dico candidamente, non conoscevo prima di leggere nazioneindiana. Non condivido quello che scrive per partito preso, o perchè il suo nome è noto -a me, ripeto, da poco- ma proprio perchè leggendo vari blog mi sembra che questo fenomeno affiori in maniera evidente. Forse non in tutti -certo non ho letto tutti quelli in circolazione per poter generalizzare. Ma mi sembra che possano essere un poco una trappola, perchè capita curiosamente di spogliarsi proprio dell’essenziale. Mi spiego come posso. Io mi firmo Emma. E lascio a casa tutti i rapporti con il mondo reale. Non è una cosa da poco. E’ un bel peso, quello che mi scrollo di dosso. E’ il peso di tutte le mie relazioni. Con altre persone, con la mia vita quotidiana e la mia storia personale, e, come viene fatto notare, soprattutto con i miei traumi e la parte meno presentabile di me stessa. Certo, queste cose le posso anche raccontare, ma non posso negare che nella maggior parte dei casi le edulcorerò, in qualche modo, mai del tutto inconsapevole (se sappiamo essere onesti). Forse così mi sento più leggera, più libera nella scrittura. Ma è solo un’illusione. Scriverei le stesse cose se mi portassi dietro la mia identità, tutto quel macigno di nodi e legacci? Mi sentirei a mio agio, o qualcosa di non ben definito mi porterrebbe a scrivere diversamente? Che si tratti di un problema di coerenza? La massima libertà non la si raggiunge quando si butta fuori un pezzo di quel macigno guardando negli occhi l’interlocutore? Queste domande le pongo prima di tutto a me stessa, poi le rigiro a chi leggerà. Perchè, a queste condizioni (quelle del blog), nessuno potrà mai valutare quanta corrispondenza ci sia tra chi scrive e quello che scrive. Non basterrebbe neanche firmarsi con nome e cognome. Il problema è proprio quello del lasciare a casa una buona fetta di sé. Credo di capire che questo sia il nocciolo. E forse la discussione, nata dall’articolo di Tiziano Scarpa, si è spostata da questo nocciolo ad una questione strettamente incentrata sui dati anagrafici. Emma o Eva, fa differenza? E il cognome? Forse no, ma tutto quello che si porta addosso -nel suo piccolo- fa una differenza fondamentale. E, inutile dirlo, anch’io lo sto lasciando a casa. I dubbi sono miei, prima di tutto.

  16. Solo un post scriptum. A parte che ogni tanto mi scivolano erre in soprannumero (“porterrebbe”, “basterrebbe” -non è per pignoleria che mi correggo, ma in rete mi spaventa la quantità di errori ortografici e non vorrei dare un contributo). La questione della privacy non è una cosa da poco. La rete già non è tenera con gli indirizzi e-mail e lo spamming non è piacevole. Per cui non penso che si possa ignorare questo lato della vicenda, che porta anche me a non rischiare, tutto sommato. Però, a volte il timore di esporsi non si esaurisce qui. La sensazione che ho avuto leggendo alcuni blog (non tutti, bisogna dire, ma molti) è quella di avere davanti non solo qualcosa di monco, ma l’imbastitura di identità che hanno vita solo in questi spazi e non altrove. Insomma, scusate, forse sembrerò presuntuosa, ma mi sembra davvero tutto molto poco autentico, per dirla in parole povere.

  17. Se stanotte fossi stata più fresca e lucida, forse avrei scelto questo intervento anzichè quello di Tiziano Scarpa per postare l’ultimo commento. E col nick che uso quasi sempre nella Rete. Perchè, come dicono quasi tutti gli interlocutori che mi precedono quassù con tanti argomenti che condivido, la faccenda del Nome come assunzione di responsabilità non è questione di anagrafe. Se l’Io di molti bloggers è leggero, se sono “leggere”, flessibili, interscambiabili, indistinguibili, le masse anonime (ma un nick è un “name”, in tutto e per tutto, altro che anonimato!) la faccenda dipende, come dicevo laggiù, nell’altro post, dalla Parola.
    Non sono d’accordo con coloro che, qui, dicono che quel che importa non è il “chi” scrive ma il “cosa”. E’ il “chi”, invece, quello che conta e credo che sia Scarpa che la Benedetti cerchino, soprattutto, anche se in un modo un po’ tanto da professorini, di difendere proprio il soggetto, la sua unicità, la sua differenza, la sua identità profonda e, in un certo senso, la sua “solitudine” che è, in fondo, “trauma” e “responsabilità”. Solo che con il “chi” non c’entrano molto nè gli outing doloranti di certi blogs (la parola è brutta e respinge, ammettiamolo, perchè ricorda troppo il blob)nè i Nomi registrati negli stati di famiglia. I primi sono lacrimevoli “fatti vostri” televisivi, i secondi hanno a che fare con il Potere costituito.
    Il “chi”, invece, dipende dal “come” si scrive, da quanto sono usate, abusate, usurate le parole (gli stili?) e da quanto, invece, sono proprie, scavate dentro alla propria carne. Lo scavo è roba forte e difficile, per questo la facilità della Rete non lo favorisce (come non lo favorisce null’altro, nella realtà sociale, da sempre) mentre, al contrario, lo può mistificare più trionfalmente di altri media tradizionali (non più della TV, però).
    Detto questo, una volta che si tenti di scavare, non per questo, attraverso la scrittura, si ottengono Verità e Autenticità, bensì solo Finzione che, tuttavia, è ben altra cosa dalla Falsità. E, in questo senso, un nome finto è tanto più proprio, scavato e personale di certi Nomi spacciatori di falsità luccicanti sotto etichette di “autentica realtà”.
    Un rimando: chi vuole vada a leggersi l’ultimo numero della rubrica “dove sono andate le cose” che Cristian Raimo tiene sul sito della “minimum fax”: a me la risposta di Andrea Cortellessa ha proprio convinto.

  18. i blog sono narrazione, agganciare la narrazione a un nome e quindi a una persona vuol dire metterci i vincoli di realtà che la narrazione non sempre tollera. Non mi racconto nel blog racconto una storia con un personaggio Io che è diverso da me e che si prende libertà che io non mi prendo.

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