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Viaggio in Argentina #1

di Antonio Moresco

Che cosa sta succedendo in Italia? Ogni giorno notizie più incredibili e vergognose del giorno precedente. Tutta la macchina dello stato in mano ai peggiori squali e demagoghi che hanno comperato le cosiddette istituzioni a prezzi di saldo. Nessun manifesto listato a lutto sui muri delle nostre città e dei nostri paesi, con l’elenco delle sempre nuove prepotenze perpetrate da questo governo votato da maggioranze-minoranze narcotizzate, ottuse, egoiste. Ogni volta sembra che si sia toccato il fondo della vergogna e invece c’è sempre qualcosa di peggio. La misura sarà mai colma? Quando mai sarà colma? Cosa deve ancora succedere perché sia colma?

L’ascensore è arrivato a pianterreno. La porta si è aperta. L’uomo che c’era dentro si è girato di scatto. Da un movimento furtivo della sua mano dentro la bocca, ho capito che si era appena tolta e rimessa la dentiera di fronte allo specchio.

Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica Leopardi dice, parlando degli italiani: “… un popolo tutto fatto di spuma, presso al quale è vanto la leggerezza come presso gli altri la gravità, né ritrova lode una pagina che non sia stillata per lambicco dal cervello dello scrittore, biasimato e disprezzato ogni volta che non sia spiritoso”.

Il presepio del buongustaio
Durante le feste, sul banco di un grande negozio di gastronomia, disposto sopra un tagliere di legno, ho visto un presepio formato da molte grasse lumache che si dirigevano in processione verso una minuscola grotta dove c’era la statuina di Gesù Bambino e della Madonna, del bue e dell’asinello. Al posto delle cornine delle lumache, due fiammiferi con le capocchie di fosforo conficcate nei loro corpi diafani, modellati forse con qualche materia organica commestibile oppure di cera e sormontati dalle spirali dei grandi gusci svuotati.

C’è un grande acquario illuminato, dietro le vetrine di un negozio, in una strada qui vicino. Ci passo davanti di notte. Mi fermo a guardare i meravigliosi corpi colorati e sottili come carta velina dei pesci che ci sono dentro, strappati dagli oceani, dalle barriere coralline. Si girano a filo col vetro dell’acquario per potermi guardare con uno degli occhi mentre sto fermo per un po’ di fronte al negozio, a contemplarli, e si vedono, all’interno dei loro sottilissimi corpi, le lische, le cartilagini, le nervature delle loro pinne smisurate e leggere come piume.

L’alligatore
L’albergo era organizzato così: in ogni stanza c’era un animale diverso. A me era toccata quella con l’alligatore. Stavo immobile nel letto che c’era sul pavimento della stanza completamente allagata, impietrito, nonostante avessi un lungo coltello in mano, che mi era stato consegnato assieme alle chiavi della stanza alla reception. Dicevo qualcosa (perché nei sogni si può parlare anche dentro l’acqua) mentre gemevo nel tentativo di svegliarmi da quell’orrore, e la sagoma dell’enorme bestia controluce era già ruotata su se stessa nuotando nell’acqua per venirmi addosso dall’alto e darmi il primo devastante morso nella zona molle dei visceri.

Ho sbrinato il frigo. Nella cella del surgelatore si sono staccate larghe scaglie di ghiaccio. Le ho prese e le sono andate a buttare nel cesso. Prima di tirare l’acqua ci ho pisciato sopra e ho visto che cominciavano a bucarsi qua e là, a sciogliersi sotto il getto trapanante dell’orina calda, per l’aumento della mia temperatura corporea in questi giorni di febbre.

Ho visto che la mia presenza su Fernandel ha creato qualche divisione tra i lettori. A qualcuno sta bene, a qualcun altro no. “Fernandel è una rivista giovanile, minimalista…” ha scritto qualcuno “Cosa ci fa quello lì in mezzo a noi?” E’ sempre la stessa storia. Dappertutto le stesse logiche, le stesse caselle. Anche quando – fino all’età di 45 anni – venivo buttato fuori dalle case editrici da editor, consulenti e altre variegate figure dell’establishment i discorsi erano esattamente gli stessi: che ero fuori posto, che non c’entravo, che non rientravo… E ho sentito le stesse frasi persino da qualcuno degli editori che mi ha pubblicato! Possibile che lo spirito del tempo sia passato così, anche tra lettori più giovani e aperti, come nel burro? Certo, mi rendo conto che da molti anni nelle scuole tirano su i bambini con l’insiemistica, e poi i bambini diventano grandi… Le pere con le pere, le mele con le mele… Ma perché in un cesto non dovrebbero poterci stare sia le pere che le mele, e magari anche l’uva, e le noci, i melograni, due mollette per il bucato, una graffettatrice…?
Grazie a tutti, comunque. A me questa sembra ricchezza. D’altronde è anche per questo che ho accettato l’invito a scrivere su Fernandel. Ma adesso vado avanti, perché mi sono successe molte cose e ho molte riflessioni e emozioni dentro la testa e la pancia che proverò a tirar fuori. Alcune le ho scarabocchiate giorno per giorno su una piccola agenda, mentre ero in viaggio attraverso l’Argentina, oppure di sera prima di buttarmi sul letto per alzarmi poche ore dopo. Le riporterò così come sono, aggiungendoci qualcosa adesso di tanto in tanto, quando me ne faranno venire in mente irresistibilmente altre.

Si vede che ci sono momenti in cui si deve improvvisamente viaggiare. Per anni, per decine d’anni, sono stato pressoché immobile. Solo piccolissimi spostamenti attraverso lo spazio, oltre il circolo dei miei passi nelle strade della mia città nelle ore notturne. Qualche piccola puntata in macchina, in treno. Poi, di colpo, il Portogallo, poi quel repentino viaggio a Mosca. Adesso sono su un aereo e sto volando verso Buenos Aires. E’ successo che un anno fa un’amica, Laura Pariani, che ha un forte legame con l’Argentina e ci torna spesso, mi ha parlato di quel paese e della situazione tremenda che sta vivendo. E mi ha detto anche, una volta, che là la vita è per noi molto meno cara che qui e che alcuni suoi amici argentini le hanno parlato di terreni in zone lontane e isolate, di non ricordo più quanti ettari, lungo la foce del Rio della Plata, in Uruguay, per esempio, venduti a cifre che sono per noi l’equivalente di 200 euro (400.000 vecchie lire).
“Compramene subito uno!” le ho detto.
“Ma sono in zone molto isolate, intorno non c’è niente per decine e anche centinaia di chilometri!” mi ha spiegato lei “Si possono raggiungere solo a cavallo, a dorso di mulo…”
“A maggior ragione!” le ho detto “Compralo! Compralo! E se la prossima volta che vai là non costassero più 400.000 lire ma, mettiamo, toh… voglio esagerare, addirittura 500.000, compra lo stesso, e crepi l’avarizia!”
Si è messa a ridere.
“E quando ne avrò davvero le palle piene di tutta quest’altra miseria che c’è qui, e dell’ottundimento generale e della protervia e della meschinità e del volare basso del nostro personale politico, economico e dei nostri piccoli letterati asserviti e di tutta la miserabile rete di sinergie che c’è intorno, me ne andrò là, raggiungerò il mio pezzo di terra a cavalcioni di una povera bestia vivente, ci costruirò sopra una baracca con le mie mani, sotto il sole, vedrò se riuscirò a procurarmi un po’ d’acqua per poterci vivere, mangiare, fantasticare, dimenticare… Via tutti quegli stupidi elenchi di librini pubblicati nelle bandelle, nelle quarte di copertina! Se proprio proprio vorranno metterci qualcosa che ci scrivano solo “’Possiede terreni in Uruguay!’”
Abbiamo riso un po’, tutti e due.
“Tu non sai come stanno le cose là. Dovresti prima vedere, renderti conto di persona di come sono quei posti!” mi ha detto “Perché non vieni anche tu in Argentina, la prossima volta?”
“Perché no!” le ho risposto.

Così adesso sono in volo per l’Argentina. Laura è già là da una quindicina di giorni. Si è aggiunto al viaggio anche Giovanni Giovannetti, che ne approfitterà per fotografare alcuni scrittori di quel paese. Adesso sta dormendo della grossa sul sedile vicino al mio. Io non riesco a dormire quando sono in viaggio.

Nel bastimento volante ancora buio e addormentato, da un finestrino mezzo aperto, d’improvviso il cielo scarlatto dell’alba equatoriale.

(1–continua)

Pubblicato in “Fernandel”, aprile-giugno 2003.

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