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Pontiggia e la collettività che manca

Risposta a Helena Janeczeck
di Carla Benedetti

Cara Helena,
è importante il senso di collettività. Ma faccio fatica a identificarlo con la “società letteraria”, neanche con quella appena passata (quella dei Pontiggia, per intenderci).

Ho aderito a Nazione Indiana anche perché non è una collettività di letterati (due di noi lavorano in teatro, uno nel cinema, e si spera che altri se ne aggiungano, anche di altri campi). E perché uno dei nostri desideri più forti è di creare nell’intero campo della cultura (compresa la politica e il giornalismo), quel tessuto connettivo di scambio, senza il quale ogni lavoro individuale deperisce. Uno dei nomi che avevamo pensato era addirittura quello di “Vasi comunicanti” – che ora è rimasto come titolo di una sezione.

Questa vasocomunicazione oggi manca in Italia. Al suo posto c’è una comunicazione orizzontale che ha per modello la pubblicità, con le sue regole di promozione e autopromozione, con le sue modalità di posizionamento nel discorso. Cioè un vuoto spaventoso.

Ma da chi o da che cosa è stato creato?

Per quanto la nostra epoca si sia definita post-idologica, esistono ideologie che si tagliano con il coltello, tanto sono spesse: quelle per esempio che hanno proclamato per anni l’impossibilità della creazione (Dal mito della morte dell’autore, a quello della fine del nuovo. Pontiggia ne era alieno? Non so).

Esistono descrizioni epocali che hanno dato tutto per liquidato.

Esistono credenze che si sono diffuse negli ultimi decenni, anche all’insegna di ciò che è stato chiamato il postmoderno, e che si prospettano come delle forme mentis di chiusura, cioè un dare per chiusi tutti i giochi che si possono fare, dall’arte alla politica.

Esistono verdetti che sono stati ratificati come vere e proprie leggi: per esempio quello secondo cui ogni forma radicale di espressione sia artistica che di pensiero, o anche ogni forma di azione antagonista, sarebbe destinata a essere inglobata dal potere, o neutralizzata dallo spettacolo, o fagocitata dalla macchina pubblicitaria, o mercificata. Questo è stato un vero refrain del secolo scorso, e ancora oggi lo si sente ripetere, in diversi campi.

Esiste poi da decenni una paralisi del pensiero critico (non solo della critica letteraria o della critica cinematografica o della critica teoatrale) che è stata a sua volta provocata da certe descrizioni del potere: descrizioni in cui il potere, di volta in volta chiamato “industria culturale”, “società dello spettacolo”, “iconocrazia”, “macchina globalizzante” ecc., appare così perfetto da sembrare invincibile, o così pervasivo da non lasciare niente fuori di sé. Neanche una crepa.

Tutte queste ideologie e false descrizioni epocali, introiettate talvolta dagli stessi artisti, hanno finito per agire come dei veri e propri lacci, impedendo di pensare alternative, o forme di resistenza, o anche semplicemente di considerarle possibili.

Ma soprattutto queste sono state amplificate, e predicate come realtà di fatto, dalla macchina dei mediatori, che da decenni si riproduce autoreferenzialmente, promuovendo in primo luogo se stessa, cioè il proprio potere di far passare quel nulla che, proprio in quanto nulla, riesce a filtrare da quelle maglie senza lacerarle.

Vogliamo mettere a fuoco anche queste cose? Io credo che la collettività di cui tu parli, e che anche a me sta a cuore, sia stata e continui ad essere repressa attivamente da ideologie funzionali ai nuovi poteri.

Ma poiché è repressa, ricostruirla non è impossibile. Certe volte basta davvero unire i vasi perché il livello dei liquidi si innalzi in ognuno. La vasocomunicazione, cioè l’opposto della comunicazione orizzontale, può dare un’energia incredibile: entrare in contatto con altri portandoti dietro l’intero tuo peso individuale, senza semplificare, senza semplificarti, senza ridurti a figurina stilizzata. Unire energie, tensioni, allagare tutti i vasi ora vuoti!

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12 Commenti

  1. “Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro /
    perchè il “male” ed il “potere” hanno un aspetto così tetro? / Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità, /
    farmi umile e accettare che sia questa la realtà ? ”

    [via Francesco Guccini]

  2. Abbiamo ancora scritto un’altra cosa (qui sotto). Perdonate l’invadenza, ma queste discussioni ci stimolano molto.
    Saluti, da Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

    CHE COSA E’ POSSIBILE OGGI?

    L’impressione che si ha leggendo il dialogo fra Helena Janeczek e Carla Benedetti è che esso esprima tutto il disagio attuale del fare letteratura, cioè del vivere in un campo di relazioni in cui il segno linguistico ha il compito di raccontare la realtà in termini letterari. Perché di questo si tratta, alla fine; si tratta, cioè, per chi opera in questo campo, scrittore o critico che sia, di confrontarsi col mondo nel quale vigono determinati rapporti di potere che consentono o non consentono determinate cose. Ora, nella nostra società, dove tutto è permesso, ma dove, di fatto, nulla lo è realmente, l’unica cosa che non è permessa realmente è la costituzione di una comunità alternativa, cioè di una comunità che regoli i suoi rapporti in modo diverso rispetto al modo in cui li regola la società. Che possa esistere una società in cui all’utile è preferibile il piacevole, alla precisione, il caos, alla leggerezza, la pesantezza dell’esistenza, ai buoni sentimenti i cattivi sentimenti, ai corpi scolpiti nelle palestre i corpi plasmati dall’ambiente, tutto questo il potere non lo potrebbe tollerare (e non lo tollera), neppure se fosse rappresentato in effigie. Insomma, neppure se si realizzasse il sogno della Janeczeck di creare una comunità di scrittori “a modo nostro”, fatta di persone “che sappiano assumersi un ruolo e una responsabilità nei confronti di una società letteraria che è ormai irriconoscibile…”. Pontiggia sarebbe, dunque, mutatis mutandis, un modello da imitare, almeno limitatamente al suo rapporto con la società nella quale ricopriva un ruolo specifico. Sicché Benedetti ha facile gioco a contrapporre a questa visione in fondo idillica delle cose, una visione del mondo più critica, in cui le strategie del potere si insinuano in modo subdolo all’interno della letteratura e ne stravolgono i meccanismi. È di questo che bisogna parlare, a suo avviso, degli effetti del potere che non è “invincibile”, ma ama spacciarsi per tale.
    D’accordo, noi su questo siamo d’accordo. Ma, una volta dato per certo che solo attraverso l’analisi critica è possibile raggiungere altri lidi, noi ci chiediamo verso dove siamo diretti, quale progetto può tenere insieme la radicalità critica con la creatività letteraria? Se è vero, come scriveva la Benedetti chiudendo un suo saggio di qualche anno fa (Pasolini contro Calvino) che “se tutto è morto tutto è di nuovo possibile”, che cosa oggi è possibile?
    La risposta noi l’abbiamo rinvenuta in un testo di quasi due secoli fa, nello Zibaldone di Giacomo Leopardi, che a nostro avviso ha coniugato la radicalità critica con la creazione letteraria, scrivendo giorno dopo giorno un’opera che non era destinata al mercato editoriale (che ne sarebbe inorridito), ma a fungere da esempio di come si possa creare una breccia nei rapporti di potere – criticandone le false illusioni – anche standone fuori, nella biblioteca di un paese di provincia. Oggi il web ci offre l’occasione per mettere a frutto in maniera nuova la lezione di Leopardi, in una raccolta di testi che nessun mediatore culturale potrà promuovere o bocciare, perché essa si farà da sé superando il solo esame del meraviglioso e dell’impensato; perché noi siamo convinti che la letteratura non sia affatto finita né siano finite le storie insolite da raccontare, e che la rivista-zibaldone può assolvere questo compito, di raccogliere ad infinitum le innumerevoli narrazioni oltre che il lavoro critico necessario a farci distinguere la spazzatura dalle cose che meritano di essere lette.
    Forse questa è solo una delle azioni di “allagamento di vasi” che oggi sono possibili, ma noi non ne vediamo tante altre nel panorama grigio che ci circonda. E visto che di possibili parliamo, è possibile che Benedetti, mettendo da parte per poco la sua acribia critica, o meglio, mettendola a frutto, ci parli della pars construens del suo pensiero? Che cosa vieta che questa volta si riparta da qui?
    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio

  3. Ancora sul “possibile”.
    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

    RETTIFICA?
    Nella foga del dibattito, abbiamo utilizzato una citazione di Carla Benedetti, da ‘Pasolini contro Calvino’, decontestualizzandola. Cose che capitano, malintesi che forse fanno parte del gioco del dialogo improvviso e illuminante. La frase è: “Se tutto è morto tutto è di nuovo possibile”, che Benedetti utilizza per criticare il postmoderno. Nel nostro discorso, invece, è chiaro che la nozione di “possibile” non nasce dalla constatazione della morte della letteratura, ma dalla consapevolezza che la letteratura sia ben viva. D’altronde, il riferimento allo ‘Zibaldone’ leopardiano serve appunto a chiarire questa idea di “possibile-infinito”, nel senso di punto sempre sfuggente dell’orizzonte in cui si incrociano ininterrottamente i momenti di progettualità e ideazione e quelli di opera e prodotto finito: cosa c’è di più “radicale” di una tale aspirazione alla coincidenza perfetta tra scrivere e non scrivere, tra potenza e atto? Ci scusiamo comunque con Carla Benedetti e con i nostri lettori, e facciamo ammenda, ben coscienti che decontestualizzare è come tradire.
    Saluti.
    Edv – Gv

  4. OLTRE LA DENUNCIA

    Mi sembra che l’articolo di De Vivo e Virgilio tocchi un punto importante che già cercavo di afferrare nelle mia precedente lettera, rimasta senza risposta. Il punto è questo: Benedetti dice delle cose sacrosante, vere proprio perché sotto gli occhi di tutti, ma rimane a sua volta vittima della stessa logica che critica. Il suo discorso è sempre un discorso negativo, di denuncia e mai – almeno da quel che si evince dai suoi ultimi scritti e dagli articoli qui pubblicati – di proposta o, per usare le parole di De Vivo e Virgilio, di apertura di possibili. Non è un’apertura di possibile, infatti, sostenere che ci deve essere una nuova stagione creativa: l’espressione, se non accompagnata da un gesto che mostri i segni dell’avvento di questa stagione, è così generica da non dire assolutamente nulla. E soprattutto non è un’apertura di possibile ripetere da almeno cinque o sei anni a questa parte – e quasi in ogni scritto – che l’ideologia dominante tardomoderna afferma che non esite creazione possibile, che la letteratura è morta, che niente di nuovo può più accadere, ecc. Il rischio è che il nuovo refrain diventi quello dell’annuncio della morte della morte e non diventi invece quello di una nuova nascita. Benedetti ha annunciato la nascita di un nuovo grande scrittore: Moresco. Lo ha fatto più volte e coraggiosamente. Ma il nuovo, le infinite potenzialità creatrici del nostro tempo, si condensano solo nella figura di Moresco? Può un critico letterario darci solo una grande indicazione e nient’altro. Forse lei ha parlato di molti altri scrittori, critici e pensatori che meritano di essere letti e forse è dunque per mia ignoranza (poiché non si può aver letto tutto) che dico ingiustamente queste cose, ma se così fosse credo che farebbe cosa utile ai lettori di questo blog se potesse indicare quali siano e perché lo siano le forze vitali, gli scrittori che aprono possibili ai nostri giorni. Sarebbe cosa utile se lei, come suggeriscono, De Vivo e Virgilio, ci mostrasse la nuova collettività oltre l’ideologia tardomoderna. Loro, De Vivo e Virgilio (che, sia detto per inciso, non conosco in alcun modo), in parte lo fanno. Raccolgono scritti di giovani e meno giovani; cercano di aprire nuove strade per chi non le ha; cercano di togliere il livello di mediazione per mostrare l’evento stesso della letteratura. Quando criticavo il funzionamento di questo blog, mi riferivo proprio alla mancanza in nazione indiana di questa apertura. Il blog è chiuso, è autoreferenziale: ribadisco, vi scrivono solo i fondatori e i loro amici. Mi sembra un blog che non è curioso di ciò che sta fuori, ma è curioso solo di innescare reazioni tra i suoi partecipanti (cioè, i suoi fondatori che hanno le chiavi d’accesso). [Non è forse un caso che lei risponda a Helena Janeczek e non a De Vivo e Virgilio. Eppure, la esponsabilità a cui lei si richiama, non imporrebbe in primo luogo e secondo la sua etimologia di rispondere sempre a chiunque si rivolge a lei?] Il dubbio è che davvero si tratti di un salotto letterario dell’era virtuale, con tutte le regole del salotto: le presentazioni, i “debutti” in società, il senso di appartenenza e tutto il resto.
    Mentre scrivevo queste parole, mi sono dovuto fermare per chiedermi se non erano troppo dure e ingiuste. In parte forse lo sono (e me ne scuso), ma in parte no. La prova, ai miei occhi, è che siamo qui a scrivere, ancora una volta, di metaproblemi letterari e non di letteratura. Questo, a mio avviso, è il grande problema di una critica negativa e che si ferma alla denuncia.

  5. Caro Marco Rizzi,
    le ho risposto personalmente con una lunga lettera al suo indirizzo di posta elettronica qualche giorno fa.
    E ho anche risposto a Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio, il cui commento è stato inserito nella Home page di Nazione Indiana.

    Quindi perché sostiene che non ho risposto né a lei né a loro? Perché dice queste falsità?

    Lei poi critica Nazione Indiana perché vi scrivono “solo i fondatori e i loro amici” ed è perciò autoreferenzialmente chiusoa. Le consiglio di fare un giro in rete. Lo sa che la maggioranza dei blog sono individuali, fatti da una persona sola? Ognuno è un Io con la propria corte di visitatori. Ognuno mette in vetrina sé, davanti alla corte di visitatori che lasciano un commento.
    Sì in Nazione Indiana scrivono 12 persone, più tutti quelli che ognuno di questi 12 ritiene importante pubblicare in base all’interesse del pezzo. Ne ha visti molti di blog così? E ci aspettiamo anche di crescere. La nostra politica è di allargare il numero dei collaboratori. Ma mica a caso!

    Quanto alle obiezioni che fa a me, le ho già risposto personalmente. Non vorrà che io faccia un riassunto delle mie pubblicazioni ai lettori di Nazione Indiana. Sì, nei miei libri ci sono riflessioni, idee, proposte. Sì, ho parlato di molti scrittori e pensatori che meritano di essere letti, ed è per ignoranza che mi attribuisce libri polemici pieni di denunce, e mi rubrica superficialmente come autrice di pamphlet.

  6. Cara Benedetti,

    mi scuso se ho scritto un’inesattezza (non una falsità, che presuppone malafede), ma era da qualche giorno che non consultavo la casella di posta a cui lei ha spedito il suo lungo e particolareggiato messaggio.
    Non è nei miei costumi protrarre a lungo polemiche tra sordi. Dunque sarò breve. Mi sembra chiaro che lei pensa che nelle mie parole ci sia solo il tentativo di screditare il suo lavoro. Si sbaglia, e di grosso. Io ammiro il suo lavoro e i testi di cui lei mi parla nella sua lettera privata (testi che ho letto con passione). Ma continuo a pensare che il suo sia un lavoro sostanzialmente “negativo”. (Con la sola eccezione di Moresco che, come avrà notato, citavo anche senza aver letto la sua risposta.)
    La sua lettera di risposta è per me estremamente deludente, poiché non risponde a questioni “pubbliche”, che come tali avrebbero meritato una risposta pubblica, ma butta tutto sulla questione personale e, in quanto tale, privata (non a caso lei mi risponde “privatamente”).
    Io non mi aspettavo e non mi aspetto che lei “faccia un riassunto delle [sue] pubblicazioni ai lettori di Nazione Indiana” (anche questa è una faccenda “privata”). Mi aspettavo e mi aspetto che lei svolga un ruolo di critica letteraria su nazione indiana e dica ai suoi lettori chi sono – oltre Moresco – gli scrittori, i critici, i pensatori che praticano una nuova creazione e in che cosa consiste questa loro pratica creativa. (Nella lettera privata che lei mi ha spedito non parla che di Moresco. E la memoria che io ho dei suoi libri non mi aiuta a trovare altri nomi, se non un generico richiamo a un testo di Scarpa. Ovviamente mi riferisco ad autori viventi.) Alle altre sue obiezioni e risposte, tutte incentrate sulla sua persona e non sul problema che io sollevo, non ho nulla da aggiungere.

  7. Io e Rizzi

    Ho capito che io e Rizzi la pensiamo allo stesso modo, solo lui scrive tutto più articolato e forbito, ma insomma tutti e due teniamo gli ultimi libri di Carla Benedetti nei posti salienti della libreria, inoltre conserviamo con cura il Pulp dove c’è la sua foto con la camicia di raso, e la ammiriamo immensamente, solo che ci aspettiamo da lei una parte creativa e anche vitaminizzante. Perché a volte diventa un po’ cupa, si incazza troppo, sul caso Moresco dà la colpa a Galiazzo che non c’entra una mazza, anzi lui poveraccio sono dieci anni che legge manoscritti di esordienti per fargli la scheda e mandarla alla redazione di Maltese, tutto gratis, invece si trova coinvolto in un processo pure lui. Insomma, io adesso evoco per Lei lo spirito del più grande teorico dell’arte del ‘900 e vero grande maestro prima di Picasso: possa lo spirito libero di Jan Dubuffet guidare i gusti di Carla, dargli spiritosaggine e acume, oltre al coraggio che già abbondantemente possiede. Bye (Rizzi sei d’accordo?)

  8. APAX
    C’è qualcosa di misterioso in questo continuo invito, da più parti, a discutere intorno alla questione della “comunità inesistente”. Spesso l’invito arriva e suscita entusiasmi in tutti, ma all’improvviso vi si fa il vuoto intorno e cade, si smorza, si spegne. Come mai?
    Quando “NazInd” ha pubblicato il nostro pezzo, siamo rimasti contenti. Ma, sinceramente, non era l’esposizione in HOME PAGE (vetrina) che ci aspettavamo. Ci aspettavamo una vera comunità, anche se nascente, che intervenisse e dibattesse a partire dai temi introdotti da Benedetti. Oltre Guarnieri e Rizzi, invece, qui dentro nessuno più ha aperto bocca. Nemmeno tra i fondatori di “NazInd” c’è stato chi ha ripreso questi temi, nonostante “NazInd” abbia tra i suoi obiettivi espliciti quello di mettere in “vasocomunicazione” le energie. È ovvio che nessuno è obbligato a rispondere a tutti, ci mancherebbe: ma non è forse, questo della comunità, il tema dei temi di chi allestisce questo “blog che non è un blog”? Come mai, allora, questo silenzio? Vuoi vedere che tutto questo discorrere di comunità è l’ennesimo imbroglio teorico che con la prassi non ha nulla a che vedere? Perché la prassi, ancora una volta, è quella che mira soltanto all’esibizione in vetrina delle proprie scritture?
    È vero, dal nostro punto di vista qualcosina si è mosso: ad esempio a noi Scarpa e Benedetti hanno scritto in privato, per dirci, brevis verbis, che il nostro pezzo era piaciuto… A noi stanno bene i complimenti, per i quali abbiamo ringraziato e ringraziamo. Ma… e poi? Noi ci aspettavamo che un invito a discutere intorno alla “comunità immaginata e inesistente” trovasse una… comunità di discussione, non solo sul nostro intervento, si capisce, ma soprattutto su quello di Benedetti, e anche su quelli di Rizzi e di Scarpa, e su altri di Benedetti illuminantissimi, e su altri ancora di questo “blog che non è un blog”: ve ne sono di molto acuti e belli (come quello di Maderna sul cinema, il primo ci pare), spesso caduti nel vuoto… Basta forse, per poter dire di aver fatto qualcosa che è una “comunità”, e per mettersi quindi la coscienza (teorica) a posto, affastellare articoli e lanciare idee e far scrivere registi e musicisti tutti insieme (ma senza far nascere tra loro un vero dialogo)? Ma una comunità non passa innanzitutto attraverso qualcosa che deve essere condiviso? E, tra gente che scrive e svolge lavori intellettuali, cosa si comincia a condividere, se non le parole e le idee?
    L’impressione che spesso siamo (tutti) delle monadi incomunicanti (altro che vasi!) è fortissima. Come mai, poi, proprio qui? Come mai la comunità – invocata – non reagisce? Cosa c’è che non va? Noi qualche ipotesi ce l’avremmo per cominciare a smatassare questo griummolo, ma ci fermiamo qui, anche perché il legittimo sospetto di parlare nel vuoto, a questo punto, ci invita a sgranellare il rosario del silenzio.
    Edv – Gv

  9. Sì, in fondo sono d’accordo. È proprio questo il punto. Il punto è che la collettività capace di rilanciare il gesto creativo deve, a mio avviso, fare essenzialmente due cose. 1) Essere in grado non solo di annunciare il gesto, denunciando ciò che lo impedisce (mediatori, asfissia mediatica, ecc.), ma di farlo, di mostrarlo in atto. In questo senso, si muove, ad esempio, il testo di Achille Varzi (anche se io non lo trovo particolarmente interessante) o gli splendidi resoconti di viaggio di Moresco. 2) Se vuole essere una comunità è bene che accetti e stimoli il confronto, il reale scambio di pensiero. Una vetrina di 12 io, non è meglio di quella di un solo io (anzi, ne somma solo i difetti). E questo scambio, questo confronto deve essere sempre uno scambio pubblico, se vuole davvero influire sulla sfera pubblica, su quella sfera che crea contagio comunitario (e non solo sulla sfera del piccolo io e dei suoi fantasmi narcisistici).
    È ovvio che anche la scelta della monade, senza porte né finestre, è una scelta rispettabile. Ma allora parlare di comunità diventa un po’ paradossale. Con questo non voglio dire che una comunità paradossale sia priva di senso (è una comunità forse vicina a quella che, con affetto e onestà, descrive Helena Janeczeck). Anzi, forse è una delle tante possibili, ma non mi sembra che sia quella a cui molti di noi aspirano in questo momento. Perché i vasi diventino davvero comunicanti, affinché le idee circolino davvero, occorre che le idee siano esposte, siano condivise e dibattute. E questo non significa che ognuno dica la sua e poi ognuno vada avanti per la propria strada. Creare una comunità costa fatica, perché costa il tempo dell’ascolto e dell’ascolto di ciò che ci turba e ci disturba. E all’ascolto deve seguire la risposta, pubblica, che aiuta a creare una coscienza comune, un sapere diffuso. Il resto, la polemica, l’insulto, l’esibizione, la difesa a riccio sono ben al di qua della comunità elettiva del buon vecchio mondo letterario e troppo al di qui della comunità creativa che tutti aspettiamo.

  10. Caro Marco Rizzi,

    credo che lei sia vittima di un modo di pensare errato e involontariamente arrogante. Perciò le rispondo di nuovo, sperando di indurla a riflettere.

    Prenda un pensatore del passato. Prenda mettiamo un Deleuze: non so se a lei interessa, ma certo si tratta di un pensatore considerato da molti importante. Deleuze ha scritto anche di letteratura, di arte, e ha scritto anche su artisti contemporanei. Per esempio ha scritto un libro su Carmelo Bene.

    Se Deleuze oggi fosse vivo e collaborasse a una rivista on-line, lei gli chiederebbe le cose che pretende da me?

    Non voglio paragonarmi a Deleuze per la qualità del mio lavoro, e nemmeno per metodo di pensiero. Ma non vedo perché lei non dovrebbe avere per il mio lavoro lo stesso tipo di rispetto. Mi è capitato di attraversare la letteratura ma all’interno di un tragitto più vasto, che forse lei ignora. Ho delle idee sul mondo contemporaneo, alcune le ho già espresse, altre le sto sviluppando. La sua pretesa di dirmi cosa dovrei fare e scrivere è ridicola. Ed è anche arrogante.

    Lei avrà letto, così mi pare di capire, uno dei miei libri su cui, senza mia volontà, e anzi subendola come una “parodizzazione”, si è fatta molta polemica. E allora mi rubrica come autrice di libri polemici! Non solo, ma addirittura mi viene a dire cosa dovrei scrivere e di cosa dovrei parlare! Lei evidentemente sa meglio di me, cosa dovrei fare? Lei ha deciso per me qual è il mio compito come intellettuale?

    Forse non si rende conto di quanta arroganza c’è in questo. E allora pensi che queste cose le chiedono i regimi: devi parlare di questo, occuparti di quest’altro! Devi mostrare le cose positive, il realismo socialista, i valori del proletariato, la superiorità della razza ariana…

    Ognuno ha il suo progetto e il suo modo di esprimerlo, e lei che parla in mome dei valori che secondo lei io avrei calpestato (solo perché le ho riposto privatamente invece che pubblicamente) non si rende conto che non sa neanche rispettare le vie e i tempi del lavoro altrui. Non sa tollerare che qualcuno abbia un progetto diverso da quello che lei si aspetta.

    Io non sono il critico letterario che lei ha in mente. Non mi riconosco in quella figura di intellettuale che lei ha scelto per me, e che consisterebbe nel fare una cernita della scrittura letteraria contemporanea per dire ciò che è buono e ciò che non lo è. Non solo non mi riconosco in questo, ma lo considero una parodizzazione della figura del critico letterario (come del resto ho scritto nel “Tradimento dei critici”, che forse lei non ha letto, o ha letto velocemente, altrimenti non mi chiederebbe di fare proprio ciò che critico come la caricatura della critica letteraria).

    Sa quante volte un giornalista mi ha telefonato per farmi dire i nomi, o i titoli, per poi farne uno di quegli articoli scemi dei pareri incrociati, o delle pagelline coi voti, o dei consigli per gli acquisti per l’estate? “Ci dica quali sono secondo lei gli scrittori più interessanti oggi. Quali libri consiglia di portare in vacanza”. Mi sono sempre rifiutata. Dare i nomi non è un atto critico. E’ la parodia della critica. Se voglio parlare bene di un’opera mi ci confronto seriamente, ci scrivo un saggio. Credo che la critica sia attraversare in profondità il lavoro altrui. Questo è il mio stile di lavoro. Perché dovrei derogare a ciò per le bizze (scusi se glielo dico, ma a me paiono tali) di un lettore di Nazione Indiana?

    Lei mi incita a mostrare cose in positivo. Ma in questo, mi scusi ancora, oltre che arroganza, c’è anche molta semplificazione. Anche da un punto di vista filosofico, io sono convinta che non c’è costruzione senza distruzione dei pensieri falsi, dei cliché, e degli errori. La maggiornaza dei filosofi ha proceduto costruendo sulla distruzione delle ideologie e delle “idee ricevute”. Persino Proust cominciò la “Recherche” a partire da un “Contre Sainte-Beuve”.

    E poi in ciò che dice c’è anche ignornaza. Io non credo di fare solo discorsi in negativo. Lei pretende di conoscere tutto il mio lavoro senza averlo letto.

    Infine, cos’è questa pretesa di volere vedere il dibattito dispiegarsi in una settimana, al meglio, con tutti le voci presenti, che si arricchiscono a vicenda (per di più nell’ultima settimana di luglio, quando molti collaboratori di Nazione Indiana sono in ferie)? Ma non si accorge che anche questa sua pretesa è una caricatura? Lei vuole che noi facciamo crescere in un battibaleno quella collettività che non c’è (e a cui stiamo nel nostro piccolo lavorando), con tempi televisivi!

    Cos’è questa impazienza? Non siamo mica una trasmissione con il pubblico che interviene in diretta telefonica! E’ ridicolo tutto ciò. Vuole lo spettacolo e subito? Può cercarlo da altre parti. Qui abbiamo tempi più lunghi. Magari non combineremo niente, ma almeno ci lasci provare, con i tempi e le modalità che decidiamo noi.

    Non abbiamo i vincoli dell’auditel. Non è questo che ci interessa.

    La pregherei perciò di dare lei il buon esempio. La smetta di scrivere lagnanze per disservizio. Non siamo mica un servizio pubblico di erogazione del gas! Scriva lei qualcosa di positivo, di propositivo, qualcosa di dialogante, cioè parli, anche in maniera molto critica, ma di cose, di idee, di problemi, di opere, invece di mettere solo lagnanze da utente insoddisfatto.

    Non so gli altri collaboratori di Nazione Indiana, ma io rifiuto totalmente questo ruolo in cui lei, forse senza neanche rendersene conto, vorrebbe confinarmi: quello di un erogatore di servizi che tratta con i lettori come se fossero utenti da soddisfare o da compiacere.

    Non so davvero se se ne rende conto, ma i suoi commenti su Nazione Indiana sono l’esatto contrario di quella collettività e di quel dialogo che lei a parole esalta.

    Buone vacanze

    Carla Benedetti

  11. Cari Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio,

    ho letto con attenzione i vostri commenti, fatto tesoro, aperto file mentali da riempire per il futuro….
    Ma vi rendete conto che quando avete mandato il vostro primo commento era già luglio inoltrato, e ora è ormai agosto, periodo di ferie anche per i collaboratori di Nazione Indiana? Cos’è questa pretesa di volere vedere il dibattito dispiegarsi al meglio, con tutti le voci presenti, che si arricchiscono a vicenda, in una settimana, per di più nell’ultima settimana di luglio?

    Ho già detto queste cose a Marco Rizzo, in un commento che ho inserito in Nazione Indiana, e che qui vi riporto in parte:

    “Vuole che facciamo crescere in un battibaleno quella collettività che non c’è (e a cui stiamo nel nostro piccolo lavorando), con tempi televisivi?
    Cos’è questa impazienza? Non siamo mica una trasmissione con il pubblico che interviene in diretta telefonica! E’ ridicolo tutto ciò. Vuole lo spettacolo e subito? Può cercarlo da altre parti. Qui abbiamo tempi più lunghi. Magari non combineremo niente, ma almeno ci lasci provare, con i tempi e le modalità che ci siamo scelti”.

    E poi soprattutto mi pare che chi scrive commenti nel sito lo faccia quasi sempre mettendosi in un ruolo passivo, quello dello spettatore che sta
    seduto in poltrona a guardare i programmi…Invece di contribuire con idee, proposte, riflessioni, si lagna di ciò che nel sito manca, di ciò che a sua detta si dovrebbe fare e non si fa.

    Non so che cosa succede sul vostro blog, ma su Nazione Indiana non ho mai trovato, tranne in rari casi (tra cui il vostro), dei commenti che
    contribuissero davvero a un qualsiasi dibattito. Per lo più sberleffi rancorosi, ricerca del pretesto per aggredire i collaboratori, e poi
    un’incredibile quantità di lagnanze per disservizio, quasi fossimo, non una rivista o uno spazio di discussione, ma appunto un servizio pubblico di erogazione del gas!
    Nessuno che parli mai di cose, di idee, di problemi, di opere. Nessuno che faccia delle obiezioni severe ma vere, nel merito di cose, argomenti, idee.

    C’è qualcosa di distorto in questa comunicazione che il blog apre, non so dire cosa , ci devo pensare meglio. C’è tanto narcisismo infelice,
    dispiegato in maniera cattiva, nessun rispetto per la differenza, per l’impegno altrui, ma solo ricerca continua del pretesto per aggredire, per
    prendere in castagna l’altro, per denigrarlo…..
    Cosa ne pensate voi, in base alla vostra sperienza di “Zibaldoni e altre meraviglie”?

    Un cordiale saluto
    Carla Benedetti

  12. OLTREPASSARE SE STESSI

    Cara Carla Benedetti,
    noi, come vedrà anche da questa doppia missiva, non abbiamo alcuna fretta televisiva, quindi non… si affretti a bacchettarci. Abbiamo urgenza, che è un’altra cosa. Abbiamo l’urgenza dell’entusiasmo creativo, che non ci fa ammettere ferie, divagazioni o discussioni da salotto. Le nostre sollecitazioni in Nazione Indiana nascono da una tale urgenza, da niente altro. Noi non sappiamo se lei si rende conto del punto in cui ci troviamo (ma ci sembra che proprio l’altro giorno, in chiusura di un suo pezzo, si chiedesse qualcosa del genere, riferendosi all’”enormità della situazione attuale”), ossia se riesce a scorgere l’abisso che ogni giorno si allarga sempre di più nel mondo dell’(in)comunicazione nel quale siamo immersi. Abbiamo contatti con tutti, siamo liberi di parlare di tutto, possiamo arrivare dappertutto – eppure siamo infelici e frustrati, lei per prima, che giustamente si lamenta dei suoi “utenti-lettori” (che però, non se ne scordi, sono “suoi” quanto nessun’altra cosa, spesso hanno addirittura letto i suoi libri e i suoi studi, sono a volte coltissimi: ma se si sentono “utenti” è forse anche perché sono trattati da utenti). E non parliamo ancora della comunità letteraria o intellettuale, della quale lei ha così bene trattato, e di cui d’altro canto è facilissimo fare esperienza quotidiana scorrendo le pagine dei giornali (anche di quelli sui quali lei scrive) e delle false riviste; frequentando festival e reading dove si pavoneggiano o pascolano come allo zoo scrittori di ogni risma; provando anche solo a parlare con i cosiddetti “intellettuali” della faccenda della solitudine assoluta delle nostre vite nel mondo della (in)comunicazione globale.
    Bene. Tutto questo per noi costituiva e costituisce un quadro di urgenza. Urgenza che abbiamo provato a tradurre e incanalare nell’unico alveo che conosciamo: quello della letteratura, dell’arte e della cultura. In che modo? Facendo quella rivista che lei ha cominciato a conoscere (www.zibaldoni.it), in cui il modello dello “zibaldone” è un’occasione (non un capriccio postmoderno, come forse potrebbe apparire ai suoi attentissimi occhi) per mettere in condizione i nostri pensieri e la nostra azione di dispiegarsi nella più assoluta calma, distensione e riflessione possibili, scevri da condizionamenti di ogni sorta e, soprattutto, capaci di mettersi in libero contatto con gli altri. Senza alcuna fretta o narcisismo: la nostra è una rivista con una cadenza trimestrale, se legge bene, non un BLOG che fagocita tutto nello spazio di pochi attimi, ma non digerisce niente. Sappiamo che “leggere bene” purtroppo oggi è un lusso, ma noi è soprattutto questo che cerchiamo e chiediamo a coloro che contattiamo e invitiamo a costruire con noi un luogo aperto e arioso di discussione: “leggere bene”, cioè perdere tempo e mettere la giusta fatica nel comprendere gli altri e nel prenderli sul serio, attardarsi nel dialogo (quanto tempo perde Socrate nelle sue interlocuzioni!), indugiare sulle cose fatte bene in vista di una comunità ancora di là da venire ma comunque ben visibile a partire da qui, da questi presupposti. Forse siamo tradizionali nell’impostazione: filtriamo il materiale che ci arriva, ci prendiamo la responsabilità delle scelte, contattiamo personalmente gli scrittori e gli artisti che ci interessano, rispondiamo a tutti quelli che ci scrivono o ci propongono materiali. Il fatto è che mettersi in cerca di un luogo comune di discussione richiede immani perdite di tempo (“perdite” secondo la logica mercantile, ma per noi “acquisti” notevoli), organizzazione minuziosa, attenzione disinteressata per gli altri.
    Secondo noi, una comunità intellettuale può nascere solo dall’amicizia (intesa, platonicamente, come Eros che favorisce l’intonazione comune, non come melassa), dal desiderio di contribuire attraverso un’opera comune all’edificazione di qualcosa che infine oltrepassi noi stessi e faccia bene al mondo. Non a caso abbiamo scelto di fondare una rivista – alla quale, nonostante tutta l’anzianità di strumento e la tradizionalità, “si torna sempre”, come diceva Roland Barthes. La rivista è il luogo ideale per il dibattito delle idee (e non a caso pochi amano oggi le riviste, primi fra tutti gli editori, ma anche gli scrittorucoli pervenuti), in cui il contributo personale serve a un discorso comune in vista del superamento di se stessi. La rivista non è un BLOG, non può mai esserlo, con tutta la buona volontà. Nel BLOG, qualsiasi forma esso abbia, si resta pesantemente ancorati all’ego, all’esibizione da vetrina, non si oltrepassa mai se stessi (e la sua analisi, a proposito di queste forme di scrittura, è esattissima). L’impedimento principale è la struttura stessa del BLOG: autoreferenziale, chiusa, narcisistica. La rivista è esattamente il contrario: in essa l’amicizia, come nei dialoghi platonici, è il presupposto necessario per la ricerca della verità, è l’unica condizione che può fondare e dare senso alla ricerca di un luogo e di un discorso comuni. L’amicizia intesa in questo modo, non come strumento-melassa nelle mani dei mediatori culturali di tutti i tempi, a maggior ragione di quelli odierni – l’amicizia, dicevamo, è la negazione più forte dell’egoismo e del narcisismo. Ed essa soltanto consente di giungere fino alle soglie della verità.
    Noi crediamo altresì che il lavoro di Nazione Indiana, la sua ricerca, va in una direzione analoga alla nostra, e perciò siamo qui a “perder tempo” in queste discussioni, anche se l’utilizzo di un modello come quello del BLOG richiede forse ulteriori elaborazioni e sforzi di ascolto. Però un “blog che non è un blog”, o una “rivista che non è una rivista” è una bella intuizione, che va incoraggiata e sostenuta. Certo, a vedere i primi risultati, e anche a sentire i commenti degli stessi autori (tra i quali lei stessa), non c’è da stare allegri o da farsi troppe illusioni. Ma in fondo cosa si pretende? È questo il bello del gioco, di qualsiasi gioco: grande perdita di tempo a scrivere le regole, e poi perdita di tempo ancora più grande a giocare. Però se il gioco vale la candela, non c’è niente di cui preoccuparsi e tocca solo andare avanti, insieme alle voci anche le più difficili e dissonanti, senza disprezzare nessuno, mettendo tutto noi stessi in quello che facciamo.
    E con questo, cara Benedetti, chiudiamo (per ora). Nel salutarla con immutata stima, vorremmo rivolgerci adesso per qualche minuto ai lettori di Nazione Indiana, per precisare alcune nostre idee e, magari, per aprire altri fronti di discussione.

    Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
    http://www.zibaldoni.it

    Cari lettori e scrittori di Nazione Indiana,
    noi non crediamo che gli interventi accorati, aspri di Benedetti siano un alibi per eludere le domande poste dai lettori, noi compresi, anche se la prima impressione è quella. Nei nostri interventi in Nazione Indiana abbiamo posto la questione della prassi letteraria (della “militanza”, come si diceva una volta), altri hanno posto altre questioni ancora più importanti probabilmente, senza ottenere grandi risultati in termini di discussione. Nemmeno da Benedetti, che invece insiste su altre corde, su altri toni, anche se dice che ha aperto “file mentali”, etc. Un motivo ci dovrà essere – ci siamo detti – perché una persona così acuta e intelligente glissi, svicoli dall’impellenza delle domande dei suoi (giacché quelli che argomentano sono innanzitutto “suoi”) lettori, per rigirare con sadismo quasi, con aggressività il coltello dei suoi caustici assunti nelle piaghe di tutti quanti noi: gente che scrive e gente che legge insieme. Qual è questo motivo?
    A Benedetti vanno riconosciuti due meriti, innanzitutto. Primo: il merito dell’entusiasmo, esercitato limpidamente in un mondo che del calcolo carrieristico ed egoistico fa la base di ogni cosa. Benedetti è una delle poche persone che, nonostante il ruolo ufficiale di mediatrice culturale che svolge, ha deciso (non da oggi) di mettere in discussione se stessa insieme alla vera comunità dei “suoi” lettori, non all’interno dell’assurda, inconcludente Comunità Letteraria Delinquenziale. Secondo: Benedetti mostra come pochi altri un senso vivo della letteratura, ci indica cosa possiamo farcene dei libri e dei pensieri che vi sono scritti dentro, è “impegnata” a mettere in evidenza il valore comunitario dello scrivere e del leggere. Non a caso la sua critica si interseca pericolosamente – saremmo tentati di dire “pasolinianamente” – con l’analisi impietosa del mondo dal quale pure è prodotta, prendendo rischi e colpi bassi senza risparmio. Questo è puro coraggio, che va riconosciuto come un valore e – detto senza alcuna piaggeria – rende perciò sempre stimabile il suo lavoro.
    Tenendo dunque presenti questi presupposti, ci siamo dati la seguente risposta al quesito iniziale circa l’elusività delle risposte alle domande impellenti dei lettori: secondo noi Benedetti svicola e aggredisce perché l’obiettivo (del suo discorso) non è (ancora) stabilire chi sono gli scrittori e quali sono i modi poetici di espressione che vanno incoraggiati. Benedetti è ancora al di qua di un tale ragionamento, perché forse punta prima di tutto a definire in che maniera e se si può parlare (ancora) di una comunità letteraria o intellettuale nel mondo attuale. Naturalmente, leggendo la sua ultima missiva, verrebbe di pensare immediatamente che una comunità del genere di quella immaginata da Nazione Indiana è ben lontana dall’avverarsi. Se, infatti, la falsa comunità dei pedanti che governano le diverse discipline è chiaramente improponibile, questa qui in cui siamo, in cui molti di quelli che scrivono lo fanno innanzitutto per lasciare una traccia più o meno narcisistica di loro stessi, non è certo la “vera” comunità che tutti auspicano. Ecco l’atroce dilemma che, a nostro avviso, non consente (ancora) a Benedetti di affrontare le pur serissime questioni che noi e altri avevamo posto. Se prima, infatti, non si scioglie questo nodo delle modalità della partecipazione, diciamo così, questo nodo tutto politico, a che serve – giustamente – perfino discutere di letteratura, di cinema o di qualsiasi altra cosa? Se, come qualcuno ha scritto qualche tempo fa, ci hanno rubato l’anima, come è possibile anche solo immaginare di impegnarsi in imprese tanto ardite e gagliarde come l’edificazione di una comunità letteraria e intellettuale, che dal possesso di certe facoltà profonde non può prescindere?
    A pensarci bene, quando abbiamo dato vita alla nostra rivista (www.zibaldoni.it), partivamo anche noi da presupposti del genere: volevamo una comunità, non ci bastava essere o desiderare di essere scrittori, artisti, etc. Anzi, a voler dirla tutta, le stesse definizioni di “scrittore”, “artista”, etc. ci sembravano, e ci sembrano, assolutamente inadeguate. E poi, non è mai bastato a nessuno scrittore, in nessuna epoca, scrivere e basta, dipingere e basta, musicare e basta – se poi non esisteva un pubblico almeno immaginabile per le proprie opere. Un pubblico almeno immaginabile, cioè una comunità: perché senza comunità l’atto creativo è generato dal nulla e cade nel vuoto, nel narcisismo.
    Noi – oltre tre anni fa – eravamo sperduti, isolati, in paesi lontani, ognuno con la sua bella poetica, i suoi manufatti aggraziati, i suoi scartafacci. Ma sentivamo una mancanza. Non ci fregava niente dei critici che scrivevano sui giornali i loro canoni per fare i loro loschi affari, volevamo mettere insieme degli scrittori e degli artisti con la nostra stessa esigenza/urgenza di comunità, non ci fregava assolutamente nulla degli editori e di pubblicare libri. Il progetto degli “zibaldoni” poteva essere il giusto punto di partenza: era un’idea aggregante, malleabile, versatile, che ci consentiva innanzitutto di girovagare in tutte le direzioni possibili per edificare quella cosa che ci mancava e che ci aveva spinto ad agire: la comunità. Inoltre era, questa nostra, un’idea “militante” fino in fondo: cosa c’è, infatti, di più naturale e antimercantile di un prodotto che non è un prodotto, di un libro che non è (ancora) un libro, quale appunto è uno zibaldone? Abbiamo capito che in questo modo potevamo aprirci tutte le strade verso la ricerca artistica, che è la cosa che maggiormente ci preme e ci spinge ad agire: ripetiamo, in un mondo nel quale conta solamente il prodotto finito e vendibile, non il prodotto in divenire, scabro, incompiuto.
    Se dovessimo fare una considerazione a partire da quel poco che abbiamo fin qui costruito, forse diremmo che porre le basi all’interno di forme ben definite, come ad esempio una rivista, è un possibile punto di avvio – ferma restando la chiarissima coscienza del furto delle anime che abbiamo già subito e delle quali dobbiamo prima riappropriarci se vogliamo almeno cominciare a parlare. Ci tocca scontare questo gran castigo, che è la fatica del recupero di un’anima, attraverso azioni dure, scontri e polemiche, incomprensioni e disfacimenti. Dobbiamo farci capaci che qui è come essere sopravvissuti a una catastrofe, dopo la quale ci siamo ritrovati tutti muti: dobbiamo ritrovare un modo per parlare insieme, per capirci, dopo essere partiti alla ricerca della luce del “discorso comune”, per dirla con Eraclito. In un secondo momento verrà la discussione sullo scrittore e sulla sua poetica, anzi, come fa intuire Benedetti, questo è davvero l’ultimo cruccio.
    Però, se nel corso di questa ricerca un qualche scrittore con la sua bella e rispettabilissima poetica non avrà mai offerto contributi al “discorso comune” suddetto, evitando di confrontarsi sulle possibilità dell’”armonia discorde”, volete dirci perché mai dovremmo leggerlo, oggi che tutti sanno scrivere un romanzo, una sceneggiatura e un sonetto, oggi che tutti sanno “far finta” con la penna in mano? Noi siamo convintissimi che se nelle opere (testi e azioni) odierne non vibra l’ardore della ricerca di una comunità, della ricerca del punto di intonazione comune, è bene non prenderle nemmeno in considerazione. Senza troppi patemi. Perché abbiamo bisogno di strade chiare da seguire per raggiungere il nostro obiettivo, e non dobbiamo ammettere distrazioni o indulgere a chicchessia. Chi scrive cazzate deve essere stigmatizzato; chi allestisce letteratura per fare spettacoli, per divertimento, per fare audience, deve essere messo da parte; chi scrive senza avere negli occhi e nel cuore la luce della comunità a venire, che parli pure da solo, tra lo squallore dei convitati di cera dei talk show.
    Non bisogna aver paura nemmeno delle deviazioni che vengon fuori qui dentro, in Nazione Indiana. Si paga un prezzo per costruire qualsiasi cosa. Per quello che vogliamo costruire noi tutti qui dentro e anche fuori, si paga sulla propria pelle un prezzo durissimo, atroce. Benedetti ne sa qualcosa, come ne sappiamo qualcosa noi che facciamo “Zibaldoni e altre meraviglie”, e molti altri. Ma il prezzo pagato vale l’acquisto, ne siamo certi. Far cadere le proprie parole non nel vuoto, ma nel pieno di una comunità che ascolta e che cerca la verità, è un grande risultato, grandissimo. Non bisogna scoraggiarsi, né seminare rancori, né coltivare dispiaceri – e nemmeno allibirsi troppo spesso. Cosa credevamo, che bastasse metter su un paio di siti internet per riavere belle e pronte, integre, le nostre anime che ci hanno rubato, ovvero l’anima oltraggiata della comunità inesistente? Che ingenui! Bisogna sudare ancora, invece, sforzarsi, argomentare, perder tempo, scriversi, non comprendersi, poi cominciare a comprendersi, fino alla fine. L’unica cosa che conta, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è aver presente e vivo come un fuoco inestinguibile il punto luminosissimo comune verso cui tendere incessantemente. Il punto verso cui concorrono le voci discordi, e in cui finalmente si ricompone l’unità dei molteplici.
    Cordialmente vostri, anche in agosto,

    Edv – Gv
    http://www.zibaldoni.it

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