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Su Voltaire

di Dario Voltolini

La principessa di Babilonia (1768) e le Lettere di Amabed (1769).

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Ogni volta che lo si incontra, Voltaire appare più come un enigma che come un chiarificatore. Non so se questo dipenda da Voltaire oppure dal tempo che è passato da quando lo si incontrò per la prima volta, leggendo Candido, poniamo, o Micromega, o L’ingenuo.

Un enigma – un tipo di enigma – molto particolare, tuttavia. Uno di quegli enigmi che si nascondono in superficie e non negli abissi, nella brillantezza dello specchio e non nell’opacità della nebbia. Si ha questa sensazione soprattutto quando si leggono testi analoghi al Candido, come questa Principessa di Babilonia e queste Lettere di Amabed, mentre di fronte agli scritti storici e a quelli di divulgazione filosofica, ad esempio, il pedale enigmatico suona in modo molto più attutito.

Voltaire, in quanto narratore, è e rimane sbalorditivo: per la sua agilità, per la sua sicurezza, per la generosità dell’invenzione, il gusto della battuta, il sesto senso per l’argento vivo dei tempi e dei ritmi del racconto, del rilievo sarcastico, del cortocircuito e del capovolgimento. I suoi personaggi bidimensionali e cartacei si spostano nel racconto di casella in casella, come pezzi di un gioco da tavolo (perché lo sono), di un gioco di società (sono proprio questo: tessere di un gioco di intrattenimento chiamato anticamente lettura).

Sono personaggi facili facili: il prete è traditore, mira infallibilmente all’accoppiamento carnale con l’eroina, mentre l’eroina è innamorata dell’eroe e poco più, così come l’eroe è innamorato dell’eroina e attraversa varie peripezie. In generale il maschio e la femmina tendono per natura a accoppiarsi e l’omosessualità è un vizio. I dotti sono ciarlatani, gli incolti o sono bestie o sono ingenui. Se sono ingenui, sono intelligenti e il loro stupore smaschera la menzogna altrui. Tutti vissero felici e contenti oppure no. Questi sono, all’incirca, i pezzi.

La scacchiera: il mondo, preso in una sua qualsiasi sezione temporale. Un mondo più cartografico che roccioso, più d’inchiostro che di mare, più sismografo che terremoto.

Le regole: non già far vedere che il re è nudo (questo lo sanno tutti), quanto cucire addosso a ciascun tipo di uomo di potere la sua peculiare casacca di buffone.

Vince lo scrittore se riesce a mettere una pulce nell’orecchio del lettore, altrimenti perde. E Voltaire la pulce la mette direttamente nel cervello, altro che orecchio. Mette nel cervello pulci variopinte, come il frate che non si preoccupa di contravvenire al proprio voto di castità (giacché non è mica un eunuco!), il Papa che non perde il proprio carattere divino nemmeno quando viene ucciso fra le braccia dell’amante, e via di seguito.

Voltaire, esperto giocatore, vince pressoché sempre. Però, ogni volta che lo incontriamo, il suo gioco ci appare brillante, ma non difficile. La pulce che tramite la scrittura ci giunge nei cervelli, non era, in realtà, già lì? Non sarà che lo scrittore finisce per titillare i nostri più ovvi pregiudizi, fingendo di smascherarne altri? Non sarà che questa sua indubbia abilità nella costruzione di immaginette nelle quali possano trovare appiglio le nostre convinzioni più superficiali induca nel lettore molta più pigrizia intellettuale che non la tanto propagandata vivacità di una ragione critica?

E` in Voltaire che troviamo la famigerata espressione “pensare con la propria testa”, una delle frasi più consumate, stanche, convenzionali, impoverite che appartengano al senso comune. Il prete ci racconta fole: liberiamoci dalla sua nefasta influenza, pensiamo con la nostra testa! E usando la nostra testa cosa scopriamo? Che è meglio non lasciare sola con il prete la nostra ragazza.

Sono questi i Lumi? E` questa l’uscita della nostra ragione dalla minorità?

“Paese che vai, usanze che trovi”: è questo il fondamento dell’idea stessa del relativismo culturale?

“Tutto il mondo è paese”: è da questa verità che discende la morale unica che ci permea tutti, mentre solo al di sopra di essa – più superficialmente – fiorisce (a questo punto, innocua) la diversità delle mille religioni terrestri?

Questi dubbi (retorici) si fanno, ogni volta che incontriamo Voltaire, più netti, più evidenti. Sembra che il limite di Voltaire sia proprio qui, in questo senso comune tanto blandito e così poco emancipato da se stesso. Un limite che scavalca Voltaire e forse affligge tutta quella grande e completamente storicizzabile (forse) stagione che è stata chiamata Illuminismo.

Oltre a dirci ciò che già sapevamo, oltre a regalarci questa straordinaria raccolta di figurine che funziona come una mnemotecnica per fissare le già nostre convinzioni, altrimenti un po’ fluttuanti, Voltaire cosa ci lascia? Sono il suo stile, la sua lingua (linguaccia?), la sua scintillante arte retorica le uniche monete ancora in corso di tutta la sua eredità di narratore?

O forse è successo questo: sono tramontati, (storicamente tramontati, cioè per davvero) i suoi nemici, i loro modi, le loro peculiari sopraffazioni, e nel loro crepuscolo hanno trascinato con sé il midollo stesso degli argomenti polemici di Voltaire, e così pure il mondo ha imparato a conoscersi meglio, così globalizzato e simultaneo, così autoconsapevole delle mille declinazioni del suo unico volto, che la lezione di tolleranza è diventata ormai astratta, si è sfarinata al cospetto della reale convivenza fra gli uomini: ha valore storico, documentario, e poco di più.

Forse il limite di Voltaire è qui. Fu tanto attuale, e ora non lo è più. Leggere come mera propaganda i suoi scritti narrativi conduce a questo punto, lo rinforza addirittura: fu solo attuale, e ora non può più esserlo.

Forse, forse, forse. Sono tutte considerazioni plausibili, naturalmente.

Tuttavia se si trattasse solo di questo – di mero invecchiamento, in fin dei conti – la superficie specchiante dei racconti di Voltaire, soprattutto di quelli che non sono apertamente conclamati come i suoi capolavori, mostrerebbe semplicemente un appannamento, uno sfaldamento dovuto al tempo e all’usura, qualche screpolatura, un biancore che ingiallisce. Rimarrebbe lo scheletro di quei suoi giochi di società. Qui un esotismo da intrattenimento, là un simpatico rifarsi a Ariosto, un intelligente richiamo alla Mandragola di Machiavelli. E magari rimarrebbe anche qualche soldo speso in seguito da alcuni scrittori, la leggerezza, la rapidità, l’Inquisizione, il viaggio in Oriente, le tesine filosofiche dipinte come personaggi (bidimensionali, cartacei, agili tra le fronde, nell’aria, fra le nubi).

Ma probabilmente il punto è tutt’altro. L’enigma di Voltaire non si lascia spazzare via con un semplice panno inumidito.

Non occorre essere dei provetti ermeneuti per sapere che una superficie può essere adagiata su di un baratro, che uno specchio mentre rivela una figura cela ciò che gli sta dietro, che l’acrobata gioca la propria agilità contro il precipizio che lo attende a fauci spalancate. E con Voltaire è facile il gioco a indicare dove e come la sua arguzia diventa cecità, la sua intelligenza e la sua cultura rimozione, schermo, velo. E` un gioco che lo accompagna da molto tempo, e non è nemmeno troppo ingiusto: basta considerare come Voltaire sia stato piazzato nella struttura di opposizione Voltaire/Rousseau per vedere cosa gli si rimprovera: esattamente la mancanza delle caratteristiche di Rousseau: l’introspezione, la radicalità, la profondità di scandaglio, la discesa nell’animo umano, la tridimensionalità del soggetto psichico. Lo sguardo fisso nel magma, la partecipazione al travaglio per la nascita di un mondo nuovo. Le tenebre.

Voltaire fa giochi di luci mentre la parte nera dell’Essere aggredisce e corrode ogni cosa. E la parte nera dell’Uomo, non ne parliamo neanche.

Voltaire e la Tenebra: mondi irrelati.

E l’enigma è proprio qui. Perché è vero, documentatamente vero, palesemente vero che Voltaire sia questo tipo d’individuo, di narratore. Nella scelta di tutti i materiali che compongono i suoi racconti, Voltaire è così. La sua spigliatezza è questo. Le sue ambientazioni sono questo. I suoi personaggi, persino i suoi argomenti sono questo. Formosante, l’Araba Fenice, Amazan, Amabed, Shastasid, Adatea, il Papa, il domenicano, il francescano, la cocotte e la gran dama, i giudici, i re, gli eserciti sono questo. Sono fragilissime decalcomanie adagiate sul ventre del mostro nerissimo che avanza.

Sul mostro nerissimo che poi è davvero avanzato: nell’Ottocento a grandi passi, nel Novecento ingigantendosi di decade in decade. Cosa aveva visto Voltaire? Cosa credeva che stesse succedendo? Come se niente fosse (come se niente stesse per essere) pizzicava un gesuita qui, là ridicolizzava Mosè utilizzando Bacco…

Però è falso, gloriosamente falso che Voltaire non abbia davvero niente da dire, e da dirci, sull’innominabile Tenebra che con tanta verve lui stesso ha rimosso dal proprio orizzonte. E` limpidamente falso che le sue favolette e le sue storielline non abbiano in se stesse ancora oggi un aculeo da opporre a quel ventre oscuro che sempre si sta dilatando. Da opporre in maniera indiretta, certo, ma precisa.

L’acido corrosivo di Voltaire vale come antidoto perenne, infatti, non già contro il Regno dell’Ombra in quanto tale, quanto piuttosto, di riflesso, contro ogni possibile (e quindi anche passata, presente e futura) retorica della Tenebra. Perché se è vero che nell’universo profondo nel quale Voltaire non osa guardare si muovono spinte portentose, collidono energie formidabili che scuotono il Tutto nelle sue stesse fondamenta, è altrettanto (ma direi: molto di più) vero che il discorso della Tenebra – la sua forma retorica – è nella maggioranza dei casi (tutti?) un discorso oscurantistico, repressivo, punitivo, castrante. E` un discorso di potere, un discorso che propugna la subalternità di chi lo ascolta rispetto a chi lo pronuncia. E` e continua a essere un discorso ideologico. Inoltre, dal punto in cui si è collocato Voltaire, anche il discorso profetico, e non solo quello filosofico metafisico o politico, deve essere visto come discorso ideologico.

Le favolette e le storielline di Voltaire magari arretrano tremebonde di fronte all’avanzare delle Ombre, ma non arretrano per niente di fronte ai cantori dell’Ombra. Anzi – e questo è un merito extraletterario che non finisce di sorprendere – il discorso di Voltaire smaschera i cantori dell’Ombra, ce li rivela, anche quelli che sono venuti dopo di lui (nessuna ideologia ripugnante nel Novecento? Nessuna vittima?).

L’aculeo delle favolette è rivolto verso altre retoriche. Le punge, le lacera e le colpisce. Quella di Voltaire è una retorica contro le Retoriche con la maiuscola. Quanti pensatori profondissimi abbiamo avuto dopo Voltaire? Tanti. Quanti di loro sfuggono al suo sberleffo postumo, quanti, visti di schiena, non mostrano appeso fra le spalle un irriverente pesce d’aprile? Pochi (nessuno?). E su quel pesce (bidimensionale, cartaceo, ritagliato) cosa c’è scritto? Ma c’è scritto “Pangloss”, naturalmente, che altro?

Voltaire riesce a sistemare un aculeo nascosto fra le pieghe della scrittura. Questo aculeo non ha, né può avere, il dono di trasformare la favoletta in Testo Fondamentale, tuttavia ha sempre – questo è garantito – la capacità di trasformare i Testi Fondamentali in favolette. Di più: le favolette ilarosarcastiche di Voltaire reagiscono con molti Grandi Discorsi (con tutti?) rivelandoli come favolette nemmeno ilari, nemmeno sarcastiche, nemmeno ben scritte, ma tetre, sorde, murate, insalubri. Perché, sul piano della favoletta, Voltaire vince.

Tutto questo discorso, fatto di maiuscole e minuscole, in margine ai due scritti di Voltaire, vorrebbe condurre a vedere quanti lumi restino comunque accesi anche una volta che si siano aggrediti, problematizzati e sabotati i Lumi con la maiuscola, e quante ombre possano continuare a dissipare anche se si ritraggono spaventati di fronte all’Ombra.

Tuttavia occorre un emblema in cui riconoscere al primo sguardo che l’atteggiamento di Voltaire nei confronti del Grande Nulla non è di semplice e svagata, immatura rimozione. Un emblema che dobbiamo trovare vivo e funzionante proprio nel suo testo, come dispositivo retorico, elemento formale della narrazione, su un gradino diverso da quello degli avvenimenti raccontati. E allora ecco che se ne può proporre uno: capita giusto giusto qui, nelle Lettere di Amabed, e si tratta del finale. Non è ciò di cui si parla a toccare le corde dissonanti del Grande Buio, ma sono le voci che parlano a esserne inghiottite. Dove va a perdersi il racconto? Le voci tacciono, sono spente. Questa è la mossa di un narratore, e non di un ideologo, quale peraltro Voltaire fu in misura forse massima. Questa è anche una mossa subito contraddetta, perché, signori, siamo pur sempre in un gioco di società, stiamo facendo come sempre la ricreazione… Tuttavia la mossa c’è stata, e lascia il suo segno, come tutte le mosse narrative rilevanti, su tutto il racconto: le Lettere di Amabed restano, qui, sghembe, inclinate su un fianco, e le descrizioni d’ambiente, costumi, usanze e paesaggi, mantengono una fisionomia dalla forma non classica, leggerissimamente psichedeliche, come proiettate su una superficie che abbia un sospetto di curvatura.

D’altronde, questa è una loro caratteristica generale: le favolette, le storielline di Voltaire, anche quelle che non riteniamo capolavori, funzionano come quei cilindri, quegli specchi strani che, posti accanto a certi disegni caotici e incomprensibili, ne rivelano la figura ricomponendoli, correggendoli sulla propria superficie. Quegli specchietti, quei forellini da cui sbirciamo, che rendono chiara l’anamorfosi disegnata e ne dissolvono il caos. O meglio, al contrario: i racconti di Voltaire scompongono e rivelano come caotici e insensati i discorsi Ben Articolati e Grandi e soprattutto Profondi ai quali vengono avvicinati.

Altri Grandi Discorsi verranno, e vedrete: Voltaire colpirà ancora. E` una previsione facile da azzeccare.

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Questo testo è stato pubblicato come nota nel volume “Voltaire, La principessa di Babilonia – Le lettere di Amabed“, traduzione di Lorenzo Bianchi, Collana Universale Economica I Classici, pagg. 192, ? 8,26, Milano, Feltrinelli 2000.

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25 Commenti

  1. Ti arrabbi se ti dico che considero Voltaire inferiore in tutto a Diderot, la vera anima della fase centrale dell’Illuminismo, inferiore nella profondità di pensiero, nella concretezza del lascito (penso ovviamente all’Enciclopedia), nella grandezza come scrittore (quella vertigine infinita di Jacques il fatalista!), nel rapporto con il potere e di conseguenza nel sacrificio personale (esilio per Voltaire, prigione per Diderot), in tutto tranne nella capacità di sintesi, ossia di elaborazione di slogan, che non disprezzo per niente ma che non mi basta? Dai che parte una bella polemica sull’Illuminismo!

  2. Figurati! Non discuto. Quello che dici su Diderot mi sta bene. La non-profondità di pensiero di Voltaire non la trovi però straordinariamente “coerente” con il suo rifiuto di accettare il ricatto (del potere che fa uso di discorsi sul profondo nel senso dell’oscuro, del terrorizzante? Non è facile essere superficiali con tanta sicurezza.
    Poi vorrei tirarne in ballo un terzo: Kant.
    Se io devo pensare a un pensiero illuminista, finisce sempre che penso a kant. A quello delle Critiche, certo, ma forse soprattutto a quello della pace perpetua. Quell’argomento che usa come premessa la sfericità della terra (dato empirico e contingente, “di fatto”) e come conclusione arriva a dimostrare la necessitò della pace fra gli uomini (ideale regolativo, profezia, questione di diritto, obbligo nel senso morale e modale, ecc…) mi ha sempre strabiliato.

  3. Kant è, in tutto e per tutto, il mio filosofo preferito. Curiosamente, lo era anche di Lucio Colletti.
    Senti Dario… pssst, vieni più vicino… più vicino, non facciamoci sentire… hai notato che nessuno di quelli che si infervorano per questioni etimologiche e per l’avvenire dalla communitas ha un cazzo da dire non solo su Voltaire, non solo sul film di Bellocchio e sulla questione Moro annessa, ma soprattutto sul pezzo straordinario di Saviano (l’antologia di racconti la facciamo, vero?), sulle parole della Borsellino… è proprio un fenomeno che mi sbalordisce. Ecco. Te l’ho detta, tu non dirla a nessuno.

  4. So poco di Voltaire e Diderot ma mi chiedo, se si è illuministi che rapporto si ha con la morte? E mi viene in mente un musicista americano, un rocker un po’ blues che nei suoi dischi ha scherzato su tutto, dal Lord Byron’s luggage alla morte. Il logo della sua etichetta – Artemis Record- è diventato un teschio in occhiali da sole e sigaretta tra i denti. Quel teschio si trova anche nella copertina della raccolta “Genius”. Stessa ironia carbonizzante nei testi delle sue canzoni, come I Have to live, e nelle cover, Laissez-moi tranquille di Gainsbourg, Knockin’ on heaven’s door, di chi non sto a dirlo. Poi gli hanno diagnosticato una malattia, ha affisso sul sito web la sua foto insieme al medico (cosa che ha qualche precedente nell’arte, per esempio l’autoritratto di Frida Kahlo accanto a una tela col ritratto del suo chirurgo). Insomma, quando c’era poco da scherzare perché il tempo era contato Warren Zevon si è messo a lavorare come un pazzo per finire l’ultimo disco, The wind. Una reazione così l’aveva avuta un regista straordinario, Derek Jarman che aveva terminato il lungometraggio Blue, e nello stesso anno, 1993, un altro regista e protagonista del suo unico film, Les nuits fauves di Cyril Collard. Forse se si è artisti illuministi si aprono gli occhi e si scherza su tutto, ma alla fine viene fuori l’idea stramba che la tua opera è più importante di te, che purché arrivi alla gente ti possono anche chiamare in paradiso. Toccare pure ferro dopo la lettura. E scusate se sono un po’ off topic.

    http://orbita.starmedia.com/~gvespartaco/kahlo/galeria3/images/kahlo58_jpg.jpg

    http://members.aol.com/zevonfan1/private/zevon.htm

    http://www.sing365.com/music/lyric.nsf/singerUnid/0A3D09D6CA42D9F648256C9500087471

  5. Ricordo solo questo aneddoto: Voltaire sul letto di morte. Scoppia un incendio. Voltaire apre gli occhi, osserva. E dice: “Oh là là! Digià le fiamme?”
    Non so cosa pensasse della morte, ma cosa pensasse dell’Inferno mi pare chiaro!

  6. Allora io controbatto con un illuminista che più che off topic era off time, Oscar Wilde. Perché illuminista? Naturalmente per la voltairriana e deliberata superficialità degli aforismi.
    Wilde si sente male per la strada, cade per terra. Lo ricoverano in una casa vicino, una casa qualsiasi, e chiamano un medico. Wilde apre gli occhi solo una volta, fissa la parete di fronte a sé e dice: “O se ne va quella carta da parati, o me ne vado io!”. Poi muore.
    Questo aneddoto, che mi fa impazzire, mi sembra anche una combinazione impressionante fra l’idea dell’ironia (la battuta di Wilde) e quella del prendersi sul serio. Intanto per la coerenza generale: in punto di morte, Wilde non viene meno a se stesso e alla propria teorizzazione del superficiale, del superfluo; poi la coerenza specifica: la carta da parati non viene rimossa, Wilde se ne va.
    Cazzo, su un numero di Sette di un paio di anni fa avevano fatto un articolo strepitoso con tutta l’aneddotica delle morti celebri, o più esattamente delle parole dette in punto di morte da artisti e altri personaggi celebri, e io l’ho buttato via! Chiederò a Tommaso Pellizzari se per caso, in un ritaglio di tempo, ma proprio un ritaglino, non può guardare in archivio e recuperarmelo. Poi ve le sparo tutte a raffica.
    Potrebbe essere perfino un nuovo gioco di società. Ve lo immaginate?
    “Libera chiesa in libero stato”. Chi l’ha detta? La scelta è fra:
    1. Garibaldi
    2. Bobby Fischer
    3. Savonarola
    4. Cavour
    5. Cattaneo

  7. E tu hai pronta una frase memorabile per il tuo ultimo giorno?

    Avevi cominciato una sorta di “strano dialogo” coi tuoi lettori sulle biografie brevi di alcuni romanzi.
    Poi hai smesso.

  8. Sì, c’è stata una progressione di quarte di copertina, cominciata con “Vive a Milano e, avendo poche esigenze, se la passa relativamente bene” (1997); poi: “Vive a Milano e non si diverte un granché” (1998, copiata clamorosamente da quella di “Something Happened”, di Joseph Heller); poi: “Vive a Milano, ma conta di morire altrove”, ecc.
    Come si vede da quello che scrivo, io all’idea di morire non riesco proprio ad adeguarmi. Sarà un grosso problema, quando arriverà il momento. L’unica cosa che so è che non voglio (mi fa orrore l’idea di) morire nel sonno. Voglio guardare in faccia chi ci sarà, e dire qualcosa. Improvviserò. Forse qualcosa fra “Tienimi qui” e “Vieni con me”. Vuoi esserci tu, Valentina?

  9. Se nessuno mi butterà fuori dalla stanza ci sarò.

    Sai cosa penso della scrittura- di quella dannata smania che viene di scrivere e di pubblicare?
    Credo che non sia altro che una continua lotta verso l’immortalità.
    E’ la volontà di non morire.

    Io l’ho sempre pensata solo in favore di chi scrive, ma credo che valga per qualsiasi artista.

    Prendiamo un esempio stupido, tanto per farne uno: Ammaniti.
    Lui è sulla buona strada per l’immortalità.
    E’ in corsa per farcela.
    Ok, è ancora giovane, diamogli ancora- quanto? almeno 40 anni di vita?- 40 anni pasati a pubblicare con lo stesso ritmo di adesso…
    Risultato: il mondo si ricorderà di lui nei secoli dei secoli.

    Tu e Tiziano, tanto per fare un altro esempio, non siete ancora immortali.

    L’immortalità è direttamente proporzionale alla notorietà.
    Ma non basta.

    Il gioco è far persistere la notorietà per anni.
    Lunghi anni.
    diventare mito.
    Allora si diventa immortali.

    Non ho idea se O. Wilde fosse consapevole di essere entrato nella storia, ma credo che alcuni contemporanei sappiano del ruolo che hanno.
    Faccio una domanda a tutti gli scrittori più o meno celebri che affollano questo forum (Tiz, se ci senti dai boschi della Germania, batti un colpo pure tu): come vivete nella vostra nuova veste di “star”?
    Intendo dire: fino a qualche anno fa era piuttosto inconsueto venire a contatto con un autore. I lettori vivevano l’autore come una specie di eremita colto.
    A malapena si poteva vedere una foto sul retro della copertina del libro.
    Oggi avete un ruolo pubblico molto più esposto.
    Il festival della letteratura di Mantova- le trasmissioni televisive condotte da scrittori- “covers” del trio Montanari- scarpa- nove- poetry Slam …
    Mi sembra che le cose siano cambiate parecchio per voi, che serva essere non solo dei bravi autori, ma anche dei “bravi animali da palcoscenico”, in un certo senso. O sbaglio?

  10. Unendomi a valentina nel porre la domanda che conclude il suo intervento, provo anche a dare una veloce risposta, seppure in forma dubitativa, alle osservazioni “malignette” ma inevitabilmente condivisibili di Raul Montanari sul “silenzio degli strologanti”. Non è che, salendo sulle spalle del gigante Voltaire, il nanetto Voltolini (mi perdoni la licenza ma non me ne vorrà se ubi maior…) ha attaccato un pesce d’aprile di carta sulla schiena dei vari Pangloss-de-noantri e poi li abbia messi in mezzo a due specchi per mostrar loro la scritta? E anche coloro che, in buona fede, non si trovano ridicolizzati dalla figurina, come potranno ormai commentare sotto questo testo finto ingenuo e avanzare discorsi ideologici e financo profetici su catare e perfette comunità a venire, manco fossero novelli Rousseau con “lo sguardo fisso nel magma” e ” partecipazione al travaglio per la nascita di un mondo nuovo” ? Non siamo contenti, se la retorica della profondità tenebrosa tace un po’? (Che, poi, è solo una tregua, visto che anche fra i redattori di NI i volterriani non abbondano, lo si ammetta ; sinceramente, siamo in molti qui in attesa della prossima battaglia fra troll e compagnia dell’anello e, in fondo, anche Raul Montanari sembra non disdegnare il di-vertente gioco di società).
    Ma, per il momento, grazie all’intervento calvinianamente leggero di Voltolini che ha reagito ” con molti Grandi Discorsi (con tutti?) rivelandoli come favolette nemmeno ilari, nemmeno sarcastiche, nemmeno ben scritte, ma tetre, sorde, murate, insalubri.”

    Visto che è questa è abitudine gradita dalla casa in cui entro come ospite, mi firmo qui all’interno con il mio vero nome, nonostante la sua insignificanza e la sua valenza esclusivamente anagrafica, ma rivendico ugualmente, nel mio minimo, la legittimità della decalcomania convenzionale del mio Io-leggero e intellettualmente pigro, tantomeno osando guardare là ove “collidono energie formidabili che scuotono il Tutto nelle sue stesse fondamenta”. Distinti saluti dall’orto.
    Erica Monesi

  11. Cara Caterina, oppure cara Erica, se tu sapessi le due palle che mi sono sparato quest’estate ti assicuro che non avresti dubbi sul fatto che sono molto contento della fine delle dispute. Di parte del tuo post non ho capito un cazzo: puoi magari parafrasare in punti come ho fatto io con il pezzo per Glamour? Non siamo tutti intelligenti, sai?
    Cara Vale, l’immortalità è una strana cosa. A parte che quella realizzata attraverso una parte di sé che non includa la persistenza dell’io è solo una immortalità per metafora, l’immortalità non è sempre in relazione con il successo che si ha in vita. Ci sono esempi in tutte le arti di uomini enormemente famosi in vita e completamente (o quasi) dimenticati dopo morti, per un cambiamento nel gusto, a volte per il ristabilirsi della verità e dei giusti valori, a volte no. Sull’immortalità di Niccolò, per esempio, non scommetterei a cuore leggero. Bach in vita lo conoscevano veramente in pochi; fu riscoperto nell’800, soprattutto grazie a Mendelssohn. Non parliamo poi di Kafka (cioè del più grande di tutti, secondo me)… In vita aveva pubblicato solo una piccola raccolta di racconti, non se l’era filato nessuno.
    Mah. Quando ero piccolo ci pensavo, all’immortalità. Adesso penso a scrivere bene, se ci riesco; è già qualcosa.

  12. Caro Montanari, oppure caro Raul, per alcune parolette e per le espressioni virgolettate chiedi a Dario Voltolini che ho saccheggiato a man bassa. Per le altre quattro parole, pazienza. La polemica e le pippe esplicative non sono la mia specialità e le lascio volentieri a qualcun altro. Erica Monesi

  13. Guarda, Erica, che io non sto polemizzando affatto. Non so se mi ritieni esperto in pippe esplicative, forse sì. Se consideri una pippa la parafrasi in punti del famigerato pezzo sul sesso, ti dirò in confidenza che a me non sembra tale; fra l’altro ci ho messo un casino a farla.
    Certo che siete di un permaloso…
    Non ho davvero capito bene il senso complessivo del tuo post, ti chiedevo umilmente spiegazioni. Più invecchio più amo la chiarezza, è una questione di neuroni che diminuiscono e sinapsi che crollano. Tu mi rimandi a Voltolini, d’accordo così.
    Caro Montanari o Caro Raul sono parole dolcissime sulle tue labbra, ma io mi sono sempre chiamato Raul Montanari, perciò questa piccola punta polemica va un pochino a vuoto, non ti pare? Non mi sono chiamato prima Caterina e poi Erica, entrambi bellissimi nomi.
    Tutte queste piccole e grandi cose succedono perché non ci guardiamo in faccia mentre parliamo. Il telefono è peggio del vis a vis, la mail è peggio del telefono e i post sui blog forse sono in assoluto la cosa che induce più facilmente all’equivoco. Comunque scusami se ti sono sembrato brusco: non lo ero, dicevo solo di non essere intelligente. Non posso dire nemmeno questo?

  14. Caro Raul, ti ringrazio della sollecitudine e del tono. Tu non mi puoi vedere ma, mentre metto insieme questo post, sto sorridendo. A dir la verità, ho sorriso anche quando ho letto la tua prima risposta: 1) perchè non sono permalosa; 2) per quello stile così naif alla come-viene-viene (è venuto male, peccato…massì, ego te absolvo, fili); 3) perchè mi hai ricordato che al mio esordio nel web, ricevetti una risposta simile alla tua -solo ancor più stringata, ma anche più elegante – e chi me la diede allora, sabato prossimo diventerà mio marito. Questo per dire, oltre ai fatti miei, che , sì, spesso sono criptica per pigrizia ma che, ad ogni modo, non condivido interamente le tue osservazioni su vis a vis, telefoni e post: l’equivoco nasce più dalla disattenzione, dalla trascuratezza e dalla frettolosità, ovvero dalla persona, che dal mezzo. Dell’equivoco si potrebbe dire piuttosto ciò che Carlo Maria Cipolla dice della stupidità, che è distribuito nella stessa percentuale in tutti gli ambienti frequentati dagli umani.

    Ma, per fortuna, l’equivoco non fa sempre gli stessi pessimi danni che fa la stupidità. Quindi permettimi di obiettarti che no, non puoi dire impunemente di non essere intelligente, non nella tua posizione di “professionista della parola scritta” che è comunque tale anche quando scrivi (e leggi) gratis e più o meno confidenzialmente in un blog, ovvero in un luogo pubblico, dove occhi e cervelli estranei leggono la tua scrittura. Tanto più se il blog è NI. E’ chiaro che detta da te, qui, la frase non è credibile e diventa una presa in giro. E adesso non attaccarti sofisticamente al sillogismo per cui se tutti gli uomini sono un po’ stupidi e Raul Montanari è un uomo, allora…

    Quanto alla pippa esplicativa, la mia non solo sarebbe tale e ammorbante ma potrebbe produrre forse anche un’ulteriore polemica, inutilmente faticosa e, soprattutto, sterile, tranne, talvolta, per chi affida alla polemica travestita da questione epocale le sue speranze di venir notato, telefonato, invitato da uno scrittore che ha la sua foto e i suoi articoli sui (o quanto detestabili, eh?) giornali. Devo forse spiegare questo proprio a te? Diciamo solo che parlavo a nuora perchè suocera intendesse. E che la tua parafrasi del “famigerato articolo” , benchè pippa, l’ho apprezzata. Si vedeva che ci avevi speso del tempo.
    A bien tot. Erica

  15. Cara Erica, felicitazioni! Fa bene al cuore vedere che possono esserci cose che iniziano in rete e continuano nella realtà (rendendo il reale un po’ meno deserto, e rendendo tutti un po’ meno pessimisti di Morpheus). Congratulazioni allo sposo. Questo “POP!” è una bottiglia di Champagne virtuale offerta agli sposi da Nazione Indiana.
    Ciao

  16. Cara Erica, mi eri sembrata molto intelligente e molto garbata nell’osservazione che avevi fatto tre o quattro secoli fa nei commenti al pezzo su Glamour, sono contento di non essermi sbagliato.
    Eh, ma questo sposo lo invidiamo tutti, altro che pop! Voltolini fa tanto il gentleman, ma chi lo conosce sa che è un maniaco! Tutti quelli che scrivono cose cristalline come lui hanno scompensi sessuali. Invece quelli che scrivono porcate sono brava gente semplice.
    Baci a tutti, sposo incluso!
    PS Però nessuno ha indovinato chi ha detto “Libera chiesa in libero stato”! Volete l’aiutino, lo so… NON è Bobby Fischer. Non perché non possa averlo detto (Bobby Fischer, figlio di un fisico tedesco emigrato negli USA, nato a New York nel 1943, campione mondiale di scacchi ’72-’75, da alcuni ritenuto il più grande giocatore di tutti i tempi, membro della Church of God, da anni antisemita fanatico pur essendo di origini ebraiche, attualmente ricercato dalla CIA per attività antiamericane, la leggenda dice che a volte è possibile incontrarlo e giocare a scacchi con lui nei siti scacchistici di Internet, il primo uomo che ho veramente invidiato in tutta la mia vita, cioè avrei voluto svegliarmi una mattina e non essere più Raul, essere Fischer; va detto che quando ho concepito questo pensiero avevo 16 anni ed ero vicecampione italiano juniores, poi mi sono fermato lì… in tutti i sensi), ma perché non è ancora morto.

  17. Lo immaginavo, uno non mette a caso il nome di un campione degli scacchi. Ma guarda che prima di te, grandissimi giocatori sono stati Kubrick e Duchamp. Credo si siano anche mantenuti giocando. Dove ci ha portati l’illuminismo, a parlare di aperture e matrimoni, dopo il mio tentativo di parlare di funerali :-)
    Basta, mi scollego e vado dalla mia bella, che per trovarla ho cercato e cercato e infatti alla fine l’ho trovata a Modena, a Ricercare 2002.

  18. Reggio!!! non Modena, a Modena sono andato ieri a sentire un convegno su un grande scrittore appartato, Learco Pignagnoli.
    Ma Ricercare 2003 ci sarà?

  19. Sono stata in dubbio se ringraziare privatamente per non accrescere la deriva off topic, ma la bottiglia portava l’etichetta Nazione Indiana…Molte grazie, davvero, per le felicitazioni, i complimenti e per la sorniona disinvoltura nel commentare festosamente un evento così privato.
    Erica

  20. Io non so se ci sarà Ricercare perché a me non mi hanno mai invitato. Non mi cagano, perché sanno che io, come Picasso, “non cerco, trovo”.
    Non c’entra niente ma ho letto molto in ritardo. Gli scarti. Mi è piaciuto molto e ho scritto a Nori per complimentarmi. Era entrato in un piccolo budello autistico, adesso è uscito su un landscape artistico.
    PS Andrea, continuo a non capire bene cosa vuol dire “chiudere in fagottone”, espressione che Nori usa spesso. Chiudere in fretta? Ma se è così, perché tu hai scritto che il necrologio di Pontiggia io l’avevo “chiuso in fagottone”? Non mi sembrava chiuso in fretta, boh. Sono proprio un emiliano-romagnolo fallito.

  21. Scusatemi tanto, lo chiedo anche qui dentro, che mi sembra una finestra più animata, magari mi arriva la risposta: qualcuno sa che fine ha fatto Carla Benedetti? Perché non posta più interventi e non scrive più niente in NI? Nessuno l’ha vista? Ritornerà? Quando? Grazie per la (le) risposta (risposte).

  22. Caro Giuseppe, credo che Carla sia a New York per impegni di docenza, ma sta’ tranquillo che torna. E, in ogni caso, ci scriverà presto.

  23. Per Raul Montanari. Credo che chiudere in fagottone voglia dire che la chiusura non è all’altezza di quello che si scrive, che si è ispirati fino a quel punto e poi patatrac. Ma tranquillo, il pezzo era molto bello, mentre il mio commento sì che era in fagottone dalla prima parola: un caso di lettura con pregiudizio e conseguente commento con cagatona. Del resto le cagatone le dicono anche Angelo Guglielmi e Nico Orengo che sono raffinati letterati, figurati uno che chiama titonco il suo gatto :-)
    Ho anche cambiato idea sulla cosa del nome, mi sa che aveva ragione la Benedetti, in fondo ci fottono lasciando solo al nick la libertà di critica.
    Ah ho saputo che Ricercare 2003 ci sarà, ma non so ancora le date. Fanno male a non invitarti, con gli esordienti faresti bene almeno quanto Mozzi l’anno scorso. Se fai le presentazioni per il tuo nuovo libro dimmelo che vengo a vederti, e se prima Dario non ti fa il mio identikit, mi riconoscerai da domande stranianti del tipo: Secondo lei ci sono similitudini tra la frase scritta, considerata come materiale sonoro, e il lavoro della frizione di un mulinello durante la cattura di una trota irriducibile?

  24. Sono sempre io, ancora scusa. Perché qualcuno non posta il bell’articolo, chiaro e lineare, di Roberto Esposito che compare oggi su “l’Unità”? Sarebbe utile a quei lettori che hanno seguito l’appassionata discussione sulla COMMUNITAS e magari farebbe rianimare un po’ il dibattito… Grazie.

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