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Buongiorno, notte

di Benedetta Centovalli

wall.jpgRaccontare l’Italia di oggi o quella appena dietro la porta. Quella dei misteri bui che non si sono mai chiariti e che restano un nodo inestricabile, quella che ci fa sentire cittadini mai riconciliati di un paese senza. Il delitto Moro come metastasi di una storia politica troppo incline ai patteggiamenti, alla corruzione, come emblema di uno scontro tra generazioni che si cambiò in lotta armata, un simbolo del potere diventato all’improvviso troppo scomodo e un’Italia attonita e confusa dal succedersi di dichiarazioni e smentite, la lotta tra l’istanza rivoluzionaria spinta all’estremo delle Br e una classe politica che volle voltare le spalle a se stessa per salvare la pelle. Sono gli anni Settanta in apparenza muti e sigillati in un impegno che non concede altro spazio, quelli di una generazione che davanti al sequestro di Aldo Moro si divise e cominciò a intravedere il proprio fallimento.

Ecco, a venticinque anni da quei giorni che misero in ginocchio le coscienze, si torna a raccontarli e a provare a mettere in luce quel pozzo. Ci vengono incontro per questo un film, Marco Bellocchio, Buongiorno, notte (2003), e un libro, quello della figlia di Aldo Moro, Agnese, Un uomo così (Rizzoli, 2003), entrambi ci parlano sottovoce di quella tragedia. Il film di Bellocchio sceglie un taglio onirico del racconto, ricostruendo tutta la vicenda dal chiuso della prigione di Via Montalcini, filtrandola attraverso lo sguardo tentato dalla pietà di Anna Laura Braghetti (dal cui libro, scritto con Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, 2003, è liberamente ispirato il film), cancellando il contesto e miniaturizzando un conflitto che fu tra fazioni politiche e tra generazioni («Moro era il massimo virtuoso di un linguaggio che ci trovava orgogliosamente analfabeti. Il palazzo che lui abitava con tanta padronanza ci era del tutto sconosciuto, non ne comprendemmo, né allora né più avanti, codici, logiche, motivazioni profonde. Venivamo da un’altra storia, da un’esperienza politica radicalmente opposta»).

Un taglio obliquo che viene abbandonato solo nella straordinaria scena finale, quella del funerale senza Moro, dove la macchina da presa passa in rassegna le facce dei potenti di allora e le svela al nostro sguardo. È una scena che vale il film, lo salva e ce lo consegna come rovello odierno, come coscienza che si ritrae nel suo compiersi infelice. Ecco, tutto qua. E non è poco.

Poi c’è questo piccolo libro di Agnese Moro, Un uomo così, sono appunti liberi che insieme compongono un fascicoletto di poche cartelle e ritraggono il padre nei momenti quotidiani e domestici, dando forma a un’immagine non convenzionale lontana da quella dell’uomo di potere destinato al martirio. Con sguardo amorevole di figlia, Agnese lo va a cercare nelle pieghe dei suoi ricordi («Non credo che amasse qualcosa più della sua famiglia»), nei dettagli della sua infanzia, nei colori e nei sapori («Il pacco dei formaggi. / Mozzarella, ogni tanto la burrata, provola affumicata. Gli altri non li ricordo. Era un compito suo. Andava in un negozio particolare; ci andava lui e ritornava a casa con il pacchettino fragrante. Quasi una traccia del suo luogo di origine; del suo legame con la Puglia»), mentre piange per la morte del padre o torna a casa contento perché «Per la prima volta ci sarà un Presidente del Senato del Partito Comunista Italiano», quando a notte fonda si alza e porta l’acqua alla figlia o mentre legge i giornali o è in viaggio con lei.

Questa specie di diario involontario trova poi come forte contrappunto tre lettere di Moro dalla prigionia, sono lettere strazianti e devastanti rivolte a Luca, l’unico nipote conosciuto, alla figlia Agnese e alla moglie. Non furono mai recapitate, come altre all’epoca del sequestro, e furono ritrovate in copia a più di dieci anni dalla sua morte: «Mia dolcissima Noretta, / credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana… Non sembra ci sia via di uscita. Mi resta misterioso, perché è stata scelta questa strada rovinosa, che condanna me e priva di un punto di riferimento e di equilibrio… Ora vorrei abbracciarti tanto e dirti tutta la dolcezza che provo, pur mescolata a cose amarissime, per avere avuto il dono di una vita con te…».

Anche Agnese Moro compie la stessa operazione di Bellocchio, anzi la estremizza lavorando in levare sia nel senso dello stile sia in quello narrativo del sottrarre, dello scarnificare al nulla, via tutto fino al cuore nudo del respiro elementare dell’esistere, della grammatica condivisa degli affetti primari, quelli che non si possono scalfire e che non appartengono alle stagioni. È Aldo Moro che cammina libero per le strade di Roma nel film di Bellocchio e nella speranza di Agnese che lo aspettava al balcone. Come a dire che in questi anni tormentati e vili, la riflessione possa riprendere il suo tempo sillabando un’appartenenza elementare, un sentire comune che oltrepassa i recinti immobili delle ideologie terminali e che possa allevare anticorpi potenti per ogni malsano ritorno nelle forme del potere di oggi. E lasciare i simboli per rendere giustizia agli uomini.

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Pubblicato su Stilos il 14-10-2003

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