La stampella della memoria

di Benedetta Centovalli

memoria.jpgDavid Shenk parla dell’Alzheimer come di una malattia che rallenta la morte, che la rifrange nello spettro delle sue parti, di norma unite: morte dell’autonomia, morte della memoria, morte della consapevolezza, morte della personalità, morte del corpo. L’Alzheimer o demenza senile è una malattia tremenda perché significa la perdita del proprio «io» molto prima che il corpo muoia. Ma è difficile non immaginare un corpo a corpo dall’esito designato tra una specie di volontà che resiste, che cerca di mantenere accesa la coscienza, e il lasciarsi andare, la resa graduale alla follia, o meglio alla condizione di un eterno presente fatto di istanti che si ripetono uguali all’infinito. È una malattia del cervello che colpisce il comportamento minando la memoria, consegna la persona a un oblio prima intermittente e poi definitivo. Dall’iniziale intermittenza deriva la difficile diagnosi del morbo, e il fatto che ciascuna delle persone coinvolte tenda ad assumere rispetto a certe manifestazioni senili un atteggiamento di colpevole disponibilità e di successiva rimozione per episodi che invece si riveleranno non essere stati altro che scie luminose del processo di deterioramento mnemonico.

La distruzione progressiva dei ricordi è il dato principale, la causa dell’azzeramento di valore per qualunque tentativo di aiuto e di possibile dialogo con l’altro, resta solo una labile comunicazione legata alla soglia interiore dell’affettività istintiva, quella radicata nella natura e in una lunghissima consuetudine. È l’unico legame che non verrà mai meno fino alla fine, quello che li tiene in vita appesi a un filo trasparente di coscienza, che impedisce loro di abbandonarsi completamente al nulla. «Il progressivo peggioramento dei disturbi cognitivi, evidente dalla storia clinica e dal peggioramento del test di cognitività globale, fa ritenere che oltre alla malattia cerebrovascolare vi sia una componente degenerativa sottostante al deterioramento cognitivo, in quadro compatibile con Malattia di Alzheimer». L’inferno a volte ha un nome.

Può voler dire sentire l’impotenza e la solitudine davanti a gesti e parole che hanno perso ogni contatto con la realtà e che proliferano da un serbatoio ossessivo e profondo che ciascuno di noi porta con sé. Una riserva di gesti elementari che rimanda alla rappresentazione della perdita dell’identità (chi sono), della casa (dove sono), del presente e del passato prossimo, a bruciare i collegamenti tra sé e gli altri, tra sé e la scansione del proprio tempo. Frugare per ore in un cassetto, smarrire oggetti indispensabili – gli occhiali, le chiavi dell’appartamento – trasformando le giornate in un calvario di ricerche inesauste, appartengono a un’involontaria mimica simbolica dell’abbandono. Quello che resiste e si ribella al disastro della coscienza.

Il cervello di mio padre è il racconto che apre la raccolta di saggi e testi di Jonathan Franzen, Come stare soli (sottotitolo: Lo scrittore, il lettore e la cultura di massa, Einaudi, 2003), ed è un resoconto forte e coraggioso della malattia e della morte del genitore. In casi come questi l’autobiografia è tanto scoperta e assoluta da scardinare le regole minime del pudore e della riservatezza, fa esplodere tutto lo strazio di una coscienza che cerca di darsi ragione e pace di un lutto lungo il tragitto del suo compimento.

Il racconto di Franzen è giocato tutto sull’intermittenza del ricordare, sul pieno e vuoto della memoria, la storia della morte del padre diventa storia familiare, già ritratta fulmineamente all’inizio della narrazione nell’immagine del pacco di San Valentino spedito dalla madre al figlio e che conteneva nell’ordine: una cartolina rosa d’auguri, due barrette Mr Goodbar, un cuore di filigrana rossa da appendere, e una copia del referto del neuropatologo per l’autopsia del cervello del padre. C’è tutto quello che serve. E c’è soprattutto in Franzen la consapevolezza che la scrittura non sia solo la «stampella della memoria», ma il movimento stesso della memoria e il consistere della nostra vicenda. Franzen descrive con disarmante semplicità mentre aiuta sua madre a riordinare la scrivania del padre: «In un cassetto trovammo le prove di piccoli, furtivi sforzi per non dimenticare. C’era un mucchio di biglietti su cui aveva scritto l’indirizzo dei suoi figli, un indirizzo su ognuno, ripetuto su parecchi biglietti. Su un altro biglietto aveva scritto la data di nascita dei figli maggiori… e poi, nel tentativo di ricordare la mia, aveva cancellato il mese e il giorno e aveva tirato a indovinare sulla base delle date dei miei fratelli». La scrittura di Franzen raccoglie con pietà filiale le parole spaventate di un padre e le fa durare nel tempo, le mette in ordine dentro il file della sua vita: «Il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti, mi sembra imparentato con la nostra convinzione di non essere fatti di sola biologia». Riesce ad accompagnarlo e alla fine a trovare le parole per lasciarlo andare: «Mi feci riconoscere e gli dissi che qualunque cosa dovesse fare, io ero d’accordo, che poteva… fare quello che doveva».

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Pubblicato su Stilos il 7-10-2003

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