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Sugo d’onore

di Michele Rossi

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Se già ci fosse stato il riso gallo blond io non avrei i miei ricordi di infanzia, di quando sceglievo il riso steso sul tavolo, chicco per chicco, vicino alle dita dure di mio nonno.
Erano mattine che segnavano la mia appartenenza a un altro mondo, oggi lontano, intimo e nuovo, al ricordo. Quando il sabato non andavo a scuola i riti erano molti, si sceglievano i legumi, si preparavano verdure e carni per il pranzo. Io tagliavo le zucchine, ma il coniglio lo ammazzava lui. Ne riconoscevo il corpo tremante, infilato in una busta di plastica appeso alla maniglia della portafinestra. Ultimo strascico di un mondo contadino naturalizzato in città. Mio nonno andava lentamente al mercato con la sua grande bicicletta blu. Tornava con le buste della spesa. Nel frattempo aveva scelto con cura il coniglio, ma non vidi mai la contrattazione. Me lo trovavo in cucina e solo rare volte assistevo al momento dell’esecuzione.

Verso le undici gli si facevano gli occhi tristi. Quello era il tocco dell’ora. Il coniglio, paralizzato dal panico, frusciava nella busta col respiro viziato. Lui lo afferrava per le orecchie e se lo portava davanti agli occhi, per un attimo. Io non capivo lo sguardo triste che si confessavano uno davanti all’altro.
Il coniglio per me non era un animale come gli altri, come quelli di cui parlano a scuola, cani, leoni e giraffe. Era il coniglio del pranzo, da fare a pezzi, nel sugo o immerso nell’olio denso e giallo. Non esisteva la possibilità della sua sofferenza, o meglio, lo vedevo come una sorta di predestinato, una vittima necessaria ai rituali familiari.
Ma lui lo sapeva. Lui aveva fatto la guerra e non ne aveva mai parlato con nessuno. Forse nemmeno con mia nonna.
Lui sapeva che l’avrebbe ucciso e in quel secondo frontale e totalmente sincero, gli chiedeva perdono. D’improvviso lo stordiva con un paio di pugni dalla violenza incredibile dietro la nuca. Lo metteva steso a terra, in attesa. Il coniglio tremava e la mia impazienza si faceva insopportabile. Ma doveva aspettare ancora un po’ che mio nonno facesse qualche giro in cucina, che si preparasse, che venisse il momento definitivo.
Quando poi arrivava a passi veloci, con vigore maschile lo appendeva per le zampe alla finestra, gli incideva la pelle intorno all’osso e tirava. Strap. Tirava e veniva via tutto lasciando vedere il corpicino nudo e seviziato che a volte smetteva di vibrare quando la parte senza pelle era arrivata al petto. Giù, poi, fino alla testa.
Era un gioco. Lo si apriva, si gettavano le interiora nel secchio marrone. Io spesso ripescavo la vescica e la spremevo fino a svuotarla tutta, con un getto lungo e breve. Aspettavo sempre con impazienza quel momento.
Poi finiva tutto nel forno o nella marmitta.
Dolore rituale che fa parte integrante della mia infanzia. Nella mia carne ci sono ancora molecole di quei conigli sacrificali del sabato.
Adesso che sono vegetariano rimpiango mio nonno e quello sguardo d’onore paritario che si scambiavano lui e il coniglio, prima di diventare vittima e carnefice.

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