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On advertising #2

di Raul Montanari

OnAd2.jpgEsistono quattro categorie di pubblicitari:

1. Quelli che sono più o meno soddisfatti del mestiere che fanno, e non ci trovano nulla di particolare, né nel bene né nel male.

2. Quelli che hanno un atteggiamento problematico verso il mestiere che fanno, si sentono in contraddizione con le proprie idee politiche, con la propria visione del mondo, e cercano soluzioni e compromessi intelligenti per ridurre queste dissonanze.

3. Quelli che guardano il mondo degli artisti e dicono: noi siamo come voi! Siamo artisti anche noi!

4. Quelli che guardano il mondo degli artisti e dicono: voi siete come noi! Attenti a non darci delle merde, perché allora siete merde tali e quali a noi!

Spero davvero che i pubblicitari che leggono queste mie considerazioni non si risentano con me: sono stato molto più generoso – più realistico, semplicemente – di Elio Paoloni e del suo sconcertante pezzo “I nemici della pubblicità”.

Lui classifica i “nemici della pubblicità” in quattro tipologie di imbecilli o di coglioni, che vanno dagli “imperdonabili” professori di liceo (“professorini dal mouse rosso”; meglio rosso che nero, direi, ma non è questo il punto), ai “pentiti” (“pubblicitari spretati, apostati, veri terroristi”: qualcuno, magari l’amico Mozzi, dovrebbe avvertire il pubblicitario Paoloni, che dovrebbe essere esperto nell’interpretazione e nella manipolazione dei segni, di lasciare perdere i terroristi, di questi tempi), agli “scrittori” (“quelli che inarcano signorilmente una narice”, ecc.) ai “puri” (i più imbecilli e generici di tutti: categoria trasversale che include “falsi e veri verdi, Jovanotti e attempati signori” e si sublima nel “sor Cecioni che vorrebbe godersi i filmazzi aggratis senza fastidiose interruzioni, e Mamma Cecioni che scarica sugli art director la responsabilità della diseducazione di su fijo”. Chissà perché questi idioti sono romani, e chissà perché i film che vedono sono filmazzi; ma, ancora una volta, non è questo il punto).

Nelle mie categorie ci sono: persone degne del massimo rispetto (1); altre degne di rispetto e interesse (2, fra cui molti che ho piacere di chiamare amici); altre con le idee confuse (3); altre decisamente idiote e grossolanamente semplificatrici (4). Paoloni è libero di cercarsi quella in cui si riconosce e di accomodarvisi; lui questa libertà agli altri non la lascia: o imbecilli o pubblivori.

Di cosa stiamo parlando?

1. Alla fine del ‘700 avviene in Inghilterra la cosiddetta rivoluzione industriale: nasce la fabbrica moderna, creata intorno a una razionalizzazione del processo di produzione. Il processo viene frammentato. Marx ha analizzato a fondo la differenza fra l’artigiano che realizza da sé la sua opera, esprimendo in essa la propria creatività e magari poi magnificandola con “stridule cantilene” (Paoloni, riferito a scene da mercato di strada) e l’operaio che esegue un compito applicandosi solo a un segmento di un processo produttivo il cui insieme gli è negato. Edoardo Brioschi, forse il massimo storico e teorico italiano della pubblicità, parla per questo periodo di “fase pionieristica” della pubblicità stessa. Iniziative disordinate, spesso stravaganti, sempre ingenue, al servizio di prodotti che hanno appena cominciato a emanciparsi (purtroppo?) dalla dimensione artigianale.

2. Alla fine dell’800 si avvia quella che molti autori chiamano rivoluzione commerciale. La sovrapproduzione diventa il problema numero uno: provocata proprio dalla grande efficienza raggiunta (nonostante la meccanizzazione massiccia e la robottizzazione siano ancora lontane) dai procedimenti produttivi, comporta la necessità di trovare sbocchi sia su mercati esterni (colonialismo economico e non solo) sia su quelli interni. Si comincia a potenziare il settore che nelle imprese si occupa della commercializzazione dei prodotti, fino a quel momento subordinato ai settori produttivi in senso stretto. Siamo ancora nella fase che Brioschi chiama “réclame”. L’azienda non è ancora orientata al mercato; è orientata a vendere il proprio prodotto, sperando di trovare un mercato recettivo.

3. In un periodo che per comodità possiamo situare a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, viene teorizzato il marketing. Non più iniziative confuse di comunicazione al servizio di un prodotto dato per scontato, ma un processo estremamente logico, che parte dall’individuare un’opportunità di mercato (es.: palle da tennis, perché il tennis si sta diffondendo come sport), la confronta con le risorse interne dell’azienda (es.: mi chiamo Pirelli, tratto la gomma per un altro tipo di prodotto, i pneumatici; ho le competenze per fare anche le palle da tennis, che sono di gomma), elabora il prodotto e lo commercializza agendo su quelle che vengono chiamate “leve di marketing”: per vendere bene il mio prodotto posso rendere efficiente la sua distribuzione, posso tenere un prezzo competitivo, posso avviare iniziative promozionali (es: concorsi a premi per i consumatori, ecc.), posso fare della comunicazione, principalmente in tre forme: “publicity” (faccio parlare del prodotto i media, attraverso i loro redazionali, la creazione di eventi, l’attività di PR, e così via); sponsorizzazione (intervengo come marchio in occasione di manifestazioni che possono essere legate direttamente al prodotto, come i tornei di tennis – si parla di “sponsorizzazione tecnica” – o essere slegate, come i calendari con le modelle nude che con la gomma non c’entrano nulla – sponsorizzazione non tecnica); advertising, cioè pubblicità: comunicazioni pagate che parlano direttamente del prodotto e invitano all’acquisto.

E’ di questo che parliamo ora: comunicazione commerciale pagata, all’interno del sistema di marketing. Lasciamo quindi serenamente da parte sia le iscrizioni non funerarie dell’antichità classica (Paoloni) sia il “venditore ambulante contro il quale non si può nemmeno usare il telecomando” (Paoloni), e lasciamo stare lo scrittore che deve vendere i suoi libri, anche se questo è un discorso interessante che affronteremo meglio più avanti.

Lo scopo di questa comunicazione persuasoria (cioè per sua natura non al servizio della verità ma del convincimento, come assodato da Platone in giù, indipendentemente dalla correttezza di base del messaggio) è indurre a un comportamento d’acquisto; più esattamente, mentre altre leve agiscono semplicemente su calcoli utilitaristici, la funzione della pubblicità è quella di diffondere una ideologia di consumo. Se compro un prodotto perché costa meno di un altro, la mia immagine di me stesso e del mondo non ne esce per niente modificata. Se lo compro perché, più o meno consapevolmente, su di me agisce l’idea che avere quell’oggetto di consumo comporta un cambiamento benefico del mio essere, è evidente che il fenomeno agisce molto più in profondità.

Come dice in “On Advertising #1” il personaggio di Paleologo (che rientra evidentemente nella categoria dei pubblicitari problematici), esiste un messaggio globale spinto da tutta la comunicazione pubblicitaria nel suo insieme; un messaggio di natura positiva, euforizzante, che dice: “Fidati. La vita è bella. Vale la pena di spendere per renderla ancora più bella. Compra il prodotto e stai allegro”. Contro questo messaggio globale, perfettamente al servizio del processo di marketing, non valgono le difese che il consumatore o il target (ci chiamano così: consumatori, bersagli) può mettere in atto contro un singolo messaggio pubblicitario, dicendo per esempio: no, io quella cosa lì non la compro, io non ci credo, è meglio quell’altra. Quello che conta, e che fa felici i governi liberisti e gli istituti di ricerca di marketing, è che l’alternativa a un consumo sia un altro consumo, che il messaggio globale passi, e trasformi i cittadini in consumatori, incerti fra alternative che sono tutte alternative di consumo, e che rimandano tutte a una visione ottimistica della vita.

Non entro nemmeno in discorsi specifici, come l’influenza pervasiva e violentissima degli inserzionisti pubblicitari nella libertà d’azione dei media. Vi parrà strano, ma tutto sommato considero questi fenomeni “accidentali” rispetto al nocciolo del ragionamento. Anche se questo tipo di influenza non si esercitasse, anche se il rapporto fra i giornali, le tv, le radio e gli inserzionisti pubblicitari fossero limpidi e corretti, rimarrebbe un dato strutturale: la comunicazione pubblicitaria è per suo statuto al servizio di un’ideologia di consumo, è una leva di quel processo, il marketing, che ha disumanizzato definitivamente il rapporto fra produzione e consumo, proprio nel momento in cui lo ha perfettamente razionalizzato. Tutte le volte che parliamo di smarrimento di valori, di edonismo coatto, di sostituzione dell’avere all’essere e delizie consimili, parliamo di questo. Tutte le volte che evochiamo il feticcio berlusconiano, parliamo di questo.

I vecchi tempi

I sociologi degli anni ’50-’70 insistevano sul notevole valore rappresentativo della pubblicità classica (quella che possiamo chiamare la prima fase dell’advertising). La pubblicità, si diceva, rappresenta realtà sociali; guarda la pubblicità di un paese o di un periodo storico e avrai il ritratto fedele di un popolo.

Questo luogo comune era giustificato almeno in parte, in Italia, in ambito televisivo, nella ben nota epoca di Carosello, prima dell’avvento degli spot di 60″, 30″ e misure minori.

Qual era la logica di Carosello? Una logica curiosamente più simile a quella della sponsorizzazione che dell’advertising.

Su una misura di tempo lunghissima si innestava uno spazio narrativo, che non aveva l’obbligo di trattare direttamente le virtù del prodotto, e nemmeno, in realtà, di evocare quello che Paoloni definisce stile di vita, attraverso la ricreazione del cosiddetto “mondo del prodotto”. Si raccontava una storia, si mostrava un cartone animato, una scena domestica, uno sketch umoristico, e solo nell’ultima parte dello spot, severamente quantificata in pochi secondi, si poteva parlare direttamente del prodotto. Si poteva, dico: infatti era proprio la concessionaria nazionale della pubblicità sulla RAI a stabilire, con una certa variazione negli anni, qual era lo spazio che era lecito dedicare al prodotto. Il resto era considerato qualcosa di non direttamente legato alla comunicazione persuasoria commerciale: un intrattenimento neutro offerto al pubblico televisivo.

L’effetto di queste regolamentazioni era duplice. Da un canto il legame fra la storiella, il cartone animato e il momento in cui doveva entrare in scena il prodotto era spesso labilissimo, a volte decisamente comico proprio per la sua totale gratuità (“Anch’io ho commesso un errore: non ho usato la brillantina Linetti!”).

Dall’altro, lo spazio garantito dalle regole della RAI e pagato (ripeto: in un certo senso “sponsorizzato”) dall’azienda diventava facilmente uno spazio narrativo, in cui potevano entrare situazioni, caratteri, atmosfere che proponevano allo spettatore uno stimolo di identificazione. Al di là di nostalgie personali e abbastanza inutilizzabili come argomento serio (e in questo sono senz’altro d’accordo con Paoloni), questa è la vera differenza fra la pubblicità di Carosello e il vero e proprio advertising realizzato dalle misure brevi. Qui non sono possibili divagazioni eccessive, non ci sono spazi garantiti: la comunicazione diventa molto più scientifica, il rapporto fra il prodotto e gli elementi narrativi impiegati per parlarne si fa molto più stretto, e si organizza nei cosiddetti format, le tipologie di spot. Abbiamo ad esempio il “Mondo del prodotto”, che è forse il più usato, e al quale è delegato di rappresentare il prodotto collocato all’interno di una ricostruzione d’ambiente coerente, dal primo all’ultimo secondo, con la promessa che il prodotto stesso fa al suo futuro consumatore.

Come funziona questa associazione? Attraverso quello che tutti abbiamo sotto gli occhi in continuazione, e che Eco, riprendendo una vecchia definizione logico-retorica, definisce entimema. L’entimema è un sillogismo “sbagliato”. Se in quasi TUTTE le comunicazioni pubblicitarie di automobili o di superalcolici vedo comparire modelle molto attraenti, l’entimema, il sillogismo sbagliato, è: Tutti coloro che hanno questo tipo di auto o bevono questo tipo di liquori hanno a che fare o entrano in contatto con donne belle; tu, consumatore, acquista questo prodotto ed entrerai in una dimensione esistenziale che ti porrà in contatto con queste attraenti creature. Un procedimento retorico rozzo? Può darsi. Ma funziona. E che funzioni lo dimostra l’inflazione spaventosa di quello che la pubblicità classica, tanto disprezzata da Paoloni, chiamava “uso non pertinente del richiamo sessuale”.

Qual è il vero fondamento di questo procedimento retorico? E’ la sostituzione (che è avvenuta gradualmente nel tempo) del meccanismo dell’identificazione (guarda quello lì, è come sono io) con quello della proiezione (guarda quello lì, è come vorrei essere io).

Vi faccio un esempio molto semplice, riferendomi alla pubblicità di prodotti molto diffusi: quelli per la pulizia dei pavimenti.

Fino alla metà circa degli anni ’80, fra i tecnici della comunicazione commerciale (scusate: i pubblicitari) vigeva ancora, fra altre regole pratiche del mestiere, il tabù di mostrare massaie troppo sexy; e soprattutto quello (molto più sottile) di sostenere che il prodotto – lavastoviglie, detersivo ecc. – avrebbe consentito un risparmio di tempo, avrebbe alleviato la fatica della massaia stessa. Il tabù si basava su una forte idea di identificazione, per cui la media donna di casa italica avrebbe rifiutato anzitutto, molto ragionevolmente, una propria rappresentazione troppo attraente (“Una donna molto bella non ha certo bisogno di lavorare in casa; figurati se quella lì scopa per terra! Avrà scopato l’uomo giusto, e adesso ha un esercito di domestiche!”); in secondo luogo, in un’ottica cattolicheggiante di lavoro inteso come labor e non come opera (fatica espiatoria e non produzione gratificante), avrebbe sentito sminuito il proprio ruolo nel vedersi proporre mezzi per facilitarlo e farle guadagnare tempo libero (“Da riempire come, poi? Facendo cosa? Quando torna a casa mio marito, reduce dalle otto ore di fabbrica o di ufficio, cosa gli dico? Che ho fatto tutto in tre minuti e poi sono stata stravaccata sul divano?”).

Negli anni ’90, una visione erotocentrica e ultraedonistica prende completamente il sopravvento rispetto alle ipotesi di rappresentatività sociologica. Vediamo negli spot pezzi di gnocca micidiali maneggiare scope e detersivi, e riuscire nel doppio intento di fare personalmente i lavori domestici ma farli nel tempo complessivo di due minuti e trenta secondi, per potersi dedicare ad attività relazionali già presagite da minigonne e tacchi a spillo.

Il principio dell’identificazione viene sostituito da quello della proiezione: non ritrovo in quello che vedo me stesso e la mia vita, ma proietto su quello che vedo la mia immagine idealizzata, anelante, disperata, onirica di me stesso e della mia vita come vorrei che fossero. Lo schermo diventa sempre meno specchio, e sempre più, appunto, schermo, velo che nasconde il mondo vero; il mondo vero sta dietro, sopra, sotto, davanti, sempre meno dentro lo schermo.

Il mondo che lì viene rappresentato si colora di una crescente irrealtà. E’ un mondo eufemistico, in cui gli elementi più scabrosi e ruvidi della vita vengono addomesticati e disinnescati. La merda diventa formichine marrone che giocano con robustissima carta igienica. Il sesso sta dappertutto, ma non assomiglia nemmeno alla lontana al sesso vero, con i suoi odori, i suoi liquidi, la sua potenza. La morte non esiste: perfino per rappresentare la morte di una zanzara (di una zanzara!) si ricorre al cartone animato, che rimanda all’immortalità circolare dei suoi personaggi classici (il Coyote cadrà eternamente nell’abisso senza farsi male, Paperone non morirà mai, nemmeno se salta per aria il deposito). E’ un mondo in cui sono tutti belli. Se per caso una donna non è bella e fa l’amore con un uomo (incredibile! Non sono forse solo i giovani e i belli a poter fare l’amore?), lo spermatozoo dell’uomo, schifato, scappa dal letto e corre in strada, per infilarsi sotto la gonna della solita modella.

Spero che nessuno vorrà contrapporre a questo tipo di analisi comunicazioni come quelle della vecchia Pubblicità Progresso e delle sue più recenti versioni. Quelle comunicazioni occupano lo spazio della pubblicità e usano le sue tecniche, ma non sono comunicazioni persuasorie commerciali. Infatti, ecco che in questi cantucci sparuti si aprono orizzonti inaspettati di comprensione del mondo: ecco la morte, ecco il dolore.

Spero anche che nessuno tirerà in ballo le famose campagne shock di Toscani per Benetton, dove la morte e l’orrore vengono freddamente strumentalizzati per creare “publicity”, ossia per suscitare discussioni, pubblico ripudio, accaloramenti apologetici. E in ogni caso, fra Benetton e campagne umanitarie, stiamo sempre parlando dello 0,001% della massa della comunicazione pubblicitaria che ci passa sotto gli occhi ogni giorno.

La pubblicità è arte?

La pubblicità lavora sul linguaggio. E’ un insieme di tecniche al servizio di una finalità persuasoria e commerciale. Spesso queste tecniche sono all’avanguardia, specialmente negli audiovisivi: i budget messi a disposizione permettono di sperimentare, di creare soluzioni inedite. Questo è assolutamente vero, e sarebbe sciocco dire che la pubblicità non fa che copiare dai film, dai libri, dai fumetti. Copia molto (così come libri, film e fumetti spesso si copiano fra loro), ma l’esigenza di una grandissima concentrazione espressiva (che libri, film e fumetti di solito non hanno) porta a sintesi efficaci e sorprendenti.

Credo che siamo tutti abbastanza d’accordo sul fatto che Stanley Kubrick è stato uno dei più grandi e dei più puri artisti audiovisivi del ’900. Ebbene, nel famoso libro-intervista dedicatogli da Michel Ciment, Kubrick esprime la più alta considerazione per la tecnica dello spot pubblicitario, per le soluzioni ingegnose date al problema di creare una comunicazione sensata, compatta, pungente in soli 30″.

Ora, Paleologo dice che l’arte è un’altra cosa, e io naturalmente sono d’accordo con lui. L’arte non è solo tecnica; aggiungerei, spingendomi un po’ più in là, che l’arte non è solo creazione di bellezza. Ci sarebbe da discutere tre secoli su cosa sia bello e cosa no, ma per il mio gusto esistono comunicazioni commerciali belle.

Credo ad esempio che tutti abbiamo una certa inclinazione per l’uso dello humour in pubblicità, in particolare per una certa tradizione anglosassone che coniuga humour, understatement ed economia di mezzi. Quasi vent’anni fa mi è capitato di vedere uno spot mai trasmesso in Italia, che era stato premiato in un festival. C’è un campeggio. Sotto il tendone della zona bagno, tre uomini si accingono a farsi la barba. Il primo bestemmia, impreca, si agita: ha portato un rasoio elettrico che funziona solo con la presa, e lì prese elettriche non ce ne sono. Il secondo ride, si scompiscia, lo prende in giro: lui si sta insaponando, userà il rasoio tradizionale, non ha problemi. Il terzo sorride e comincia a preparare il proprio rasoio a batterie, il prodotto pubblicizzato. Nell’ultima sequenza dello spot il secondo uomo, ancora scosso da sussulti di riso, apre il rubinetto. L’acqua non scende. Mentre la sua espressione si muta gradualmente da divertita a perplessa, l’uomo comincia a picchiare con il manico del rasoio sul rubinetto, ma non c’è niente da fare: l’acqua non scende. Il terzo comincia a farsi la barba.
Semplice e geniale.
Forse più geniale di interi film, come alcune headline o slogan pubblicitari sono stati, sono e saranno più geniali di interi romanzi. E’ stato un pubblicitario a dire che un romanzo, in fondo, non è che una headline (titolo) con un body (corpo del messaggio) molto lungo, e Paoloni riprende volentieri questa linea di metafora.

Ma fra una comunicazione che nasce al servizio di un prodotto, che ha per fine un comportamento di consumo e che passa attraverso il vaglio spesso gretto dei responsabili di marketing di un’azienda committente da una parte; e una espressione di linguaggio (alfabetico, sonoro, audiovisivo) che nasce come puro atto di libertà, di impossessamento del mondo, di creazione autonoma, c’è una differenza fondamentale.

Certo che anche l’artista ha i suoi limiti! Il mio editore può dirmi, poniamo, che uso un linguaggio troppo ostico per avere un pubblico ampio; io posso rispondere che non m’importa, posso cambiare editore, posso convincere il mio interlocutore che vale comunque la pena di pubblicare il mio libro, posso invece dargli ragione e rielaborare il mio testo narrativo. Ma queste sono tutte operazioni a posteriori. Il mio romanzo non nasce come uno spot, nemmeno a me stesso.

Garanzia simbolica di questo è che io firmo il mio romanzo. Si dirà: “Che brutto il romanzo di Montanari! Che bella la pubblicità radiofonica della Peugeot!”. Purtroppo per la mia carissima amica Valentina Maran, che ha fatto una serie di splendide e geniali pubblicità radiofoniche per la Peugeot, il suo nome non verrà citato se non fra i pubblicitari suoi colleghi, se non in occasione dei premi strameritati che l’Art Director’s Club le ha più volte assegnato: correttamente, il vero “autore” dello spot viene considerato il cliente, il committente, l’azienda, e come tale lo spot viene firmato e ricordato dal consumatore. Naturalmente negli angolini dei paginoni di giornale appaiono in piccolo scritte come “TBWA”, “JWThompson”; sono i nomi delle agenzie. Ma chi li legge, se non i pubblicitari?

Engels diceva che la quantità si converte in qualità. Forse l’artista puro al 100% non esiste, o non esiste più; ma la percentuale che rimane, per quanto in qualche caso striminzita, basta a distinguere l’artista dal non artista. Al di là delle esagerazioni di Paoloni, è vero che molti scrittori si spendono per promuovere (non pubblicizzare, Paoloni: promuovere) i loro libri. Cerco di essere più concessivo che posso: molti scrittori scrivono per avere successo, molti scrittori targettizzano il loro lettore ideale, modificano in partenza la propria vocazione espressiva modellandola sul destinatario interno (sell in: editore) ed esterno (sell out: critica e pubblico). Rimane un dato di fatto: che nella massa, nella quantità di operazioni mentali, di libera mobilitazione spirituale, di messa in movimento di energia creativa che un artista fa, la percentuale di “impurità” sarà sempre infinitamente, incommensurabilmente inferiore a quella di un tecnico della comunicazione che si mette per statuto e per contratto, fin da subito, al servizio di un prodotto commerciale, e che è costretto ad accettare tutte le strettoie, le imposizioni, spesso le ottusità del suo cliente. La quantità è qualità, è differenza fra arte e non arte.

Paoloni, di quante battaglie è stato testimone, lei, fra i creativi e gli account di un’agenzia? Fra l’agenzia che difendeva le sue proposte linguisticamente più affascinanti e il cliente che sceglieva immancabilmente quelle terra terra, quelle che assomigliavano ad altre che piacevano a lui, quelle che parlavano del prodotto, del prodotto, del prodotto? Battaglie nobili in difesa della creatività, con le quali simpatizzo in toto! Ma battaglie combattute su un terreno malsicuro proprio perché minato in partenza dal ruolo decisivo del committente; perché la genialità e la creatività non sono, automaticamente, attestati di artisticità. L’arte è un’altra faccenda, altrimenti chiamiamola con un altro nome.

Il punto di partenza del pubblicitario, anche del più ingegnoso, è profondamente diverso da quello di uno scrittore, diciamo pure uno scrittorucolo, che si presenta a un editore e gli dice: “A me il mondo mi fa schifo e qui ciò un romanzo dove lo dico; me lo pubblica? Ah, devo cambiare di qui? Ah, devo cambiare di là? Be’, vaffanculo, vado da un altro”.

POSTILLE

1. Niente in quello che ho scritto deve essere inteso come offensivo verso i pubblicitari. A me i pubblicitari, le persone che lavorano in pubblicità, non hanno fatto niente. I pubblicitari fanno il loro lavoro. Intelligenza e imbecillità, onestà e disonestà sono rappresentate fra loro in misura equivalente a quella riscontrabile in altre categorie, e direi anzi che, nel campione che è venuto in contatto con me, l’intelligenza e l’onestà prevalgono. Amo alcuni di loro; potrei fare molti nomi, ma quello che ho citato sopra è già rappresentativo. Io parlo della pubblicità, non dei pubblicitari. Il problema è il marketing, è l’essere la pubblicità uno strumento persuasorio (e lasciamo perdere la persuasione “occulta”, quella era una fregnaccia – anche qui sono d’accordo con Elio Paoloni) al servizio di un’ideologia di consumo. Massimo rispetto per i pubblicitari, ma perché dovrei rispettare il marketing?

2. Non so se lo avete notato, ma nella brevissima e un po’ vergognosa sintesi storica fatta sopra ci sono due momenti in cui il mondo dell’industria e del commercio compie delle razionalizzazioni, a loro modo (pure queste!) geniali.
Uno è la segmentazione della produzione.
L’altro è la rivoluzione copernicana per cui la produzione stessa diventa semplicemente un anello della catena del processo di marketing.

Be’, è strano, ma entrambi questi momenti comportano un aumento dell’alienazione. L’alienazione dell’operaio dal prodotto del suo lavoro; l’alienazione del soggetto, del cittadino, come lo volete chiamare, che diventa consumatore; l’alienazione dell’azienda stessa dalla sua vocazione iniziale (nel marketing in teoria non esiste che il presidente di un’azienda si affezioni ai suoi tondini di ferro, voglia produrre per tutta la vita i tondini di ferro perché suo padre e suo nonno facevano così: se il mercato non offre più opportunità, bisognerà produrre tondini di plastica; oppure lavorare il ferro, ma in un altro modo).

3. Io non ho qualcosa di personale da opporre al marketing e alla sua logica. L’hanno fatto altri.
Si parla di consumi alternativi, di vigilanza, di eticità, di naderismo.
Ognuno può scegliere la sua strada, anche se il nostro ineffabile presidente del Consiglio esorta tutti a comprare per il bene del paese. Anche se da un po’ di tempo sono apparsi sulle reti televisivi grotteschi spot in cui chi fa acquisti viene ringraziato per la strada dagli altri cittadini.

Questi spot erano firmati dall’UPA, e naturalmente nessuno sapeva cosa fosse l’UPA (Unione Partigiani Altoatesini? Upanishad Party Assinboin? Utilitarie Parcheggiate Autonomamente?). L’acronimo significa Utenti Pubblicitari Associati, è l’associazione delle principali aziende che investono in pubblicità. Si vergognavano un po’ a scriverlo, o più esattamente lo consideravano un problema di comunicazione. Hanno lasciato una sigla che ai non addetti ai lavori non diceva proprio niente.

4. Il brano di “On Advertising #1” è uscito per la prima volta in un romanzo pubblicato nel 1991. La rivista di advertising “Pubblico” fu così spiritosa da riportarlo integralmente nell’ultima pagina di un suo numero, intitolando: “Noi, creativi da marciapiede”. Era spirito intelligente, problematico e vero: telefonai per ringraziare dell’attenzione, e il direttore della rivista mi propose di collaborare con loro, cosa che non feci solo perché avevo altri impegni.

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61 Commenti

  1. Cosa? L’entimema è stato definito da Umberto Eco? Eh?! E Aristotele, chi era costui?! E Quintiliano! (Non è che magari Montanari ha leggiucchiato un libricino di Eco se n’è venuto tutto e ha detto:”E’ Eco, è lui che ha scoperto questa parola! Eco! Eco! Eco!”. No, visto che date tanto dei superficiali a destra e a manca! Viva l’entimema! Viva Eco! Viva le dimissioni! Oh, vogliono fare gli intellettuali e non sono nemmeno degli scrittori. Perchè io mica l’ho letta questa sbrodolatura di Ràul, però se mi piazzi le parole in grassetto! Eh! Saluti da Ken Shiro!

  2. “…Eco,RIPRENDENDO UNA VECCHIA DEFINIZIONE LOGICO-RETORICA…”, ecc.
    Capisco la voglia di provocare e mettersi in luce, sgomitando; ma almeno mettersi gli occhiali e leggere quello che uno ha scritto prima di commentarlo, per cortesia.
    Saluti a Marco Candida.

  3. Scusate, a me non sembra che la pubblicità voglia banalmente “vendere un prodotto”, né affermare che “chi compra è più figo di chi non compra”. A me pare che la pubblicità sfrutti un immaginario collettivo di grado zero (istinti primari: sesso, invidia, ecc.) e tenti di metterci quante più persone possibili. Come se ne esce? Ognuno si crei una propria categoria, si costruisca il proprio club e mandi in culo quello di grado zero pubblicitario, se è capace. Gli artisti hanno, in questo senso, una grande opportunità di proporre categorie. Ce l’hanno anche gli scienziati. Ce l’ha anche e soprattutto l’uso dei saperi (di cui si discuteva qualche tempo fa), dunque i filosofi. Più di tutti ce l’hanno i poeti.

  4. Raul, Alberto Savinio definiva la mossa di Marco Candida “il calcio dell’asino”: si prende un (supposto) errorino (che qui non c’è) dell’avversario (avversario nella polemica), lo si amplifica vedendo solo quell’errore, delegittimando tutto il discorso fatto dall’avversario. Anche Schopenhauer insegnava a fare la stessa cosa, nell’ “Arte di ottenere ragione”. E secoli prima di loro i campioni dell’eristica, secondo un’antica tradizione dialettica… Lo stesso Eco, qui nominato, ha beccato un calcio dell’asino quando gli hanno rimproverato di aver sbagliato un passato remoto, in un romanzo di seicento pagine (600!), con l’argomento asinino: “ma che scrittore è uno che sbaglia a coniugare i verbi?” Andiamo avanti così…

  5. L’argomento mi sembra importante, mette in gioco questioni come bisogni, desideri, consumo, etica del lavoro eccetera…
    Mi pongo tante domande, sia leggendo quanto dice Montanari, sia quanto scrive il caro Elio Paloni.
    Quando lavoravo con Danilo Dolci, appena qualcuno pronunziava la parola pubblicità, Danilo sobbalzava, una sorta di nebbiolina – così la chiama la formatrice Vera Birkenbihl – che impedisce di ascoltare qualsiasi tipo di discorso, gli occupava la mente e rifiutava qualsiasi idea o opzione positiva a favore del mondo della pubblicità. Tanto che, talvolta, nei suoi seminari nella scuole, portava con sé giornali, rivista piene di pubblicità, faceva vedere le loro immagini, le parole che le accompagnavano e chiedeva ai ragazzi cosa ne pensassero. Questo era l’unico caso in cui direi contravveniva e contraddiceva se stesso, perché la maieutica dolciana a differenza di quella socratica si basa – dovendo dirlo in due parole -sul fatto che Socrate conduceva le domande per portare gli interlocutori alle “sue” risposte, faceva scoprire le sue soluzioni, invece la maiuetica dolciana si basa sull’idea che le domande non devono condurre gli interlocutori alle risposte e convinzioni di chi porge le domande, ma mira a “levare” le singolari risposte e convinzioni che ognuno ha o si forma sul momento e di volta in volta (mi rendo conto di essere molto generico nel spiegarla, perché la prassi è molto articolata, frutto di molta esperienza e teoria). Ebbene, appena si parlava di pubblicità, Danilo Dolci diventava Socratico! Per lui la risposta che gli studenti dovevano dare era: la Pubblicità è il Male!
    Ho voluto portare questo esempio di scrittore che aveva questo rapporto con la pubblicità!
    Certo è solo “uno” scrittore e non tutti gli scrittori la pensano così o assumono lo stesso atteggiamento. Ci sono molte cose interessanti nei discorsi di Paoloni e Montanari, per adesso, dato il tempo ristretto che ho, chiederei ad entrambi e agli altri…
    Non vi sembra che la parola “creativi”, la stessa parola creatività sia troppo “grande” per credere che possa essere posseduta dai pubblicitari e anche dagli scrittori?
    Ad Elemire Zolla hanno chiesto:
    Considera la creatività un’esigenza fondamentale per l’uomo?
    La risposta fu:
    Non è una parola che uso, non credo sia giusta, perché parte dal nulla per suscitare qualcosa, e questo è un atto divino! L’uomo di norma dà figure nuove a una materia che ha sottomano.
    Questa fu la sua risposta.
    Aggiungo. Il fatto che si dica dei pubblicitari come “creativi” non è qualcosa che “mette fuori gioco” gli altri? Intendo riferirmi e sollevare la questione della distinzione tra bisogni e desideri, intendo riferirmi alla questione posta a suo tempo nell’Anti Edipo di Deleuze e Guattari (ma anche posta a suo tempo da Ivan Illich). Non è che il mondo si vada strutturando sempre di più in una elite che “impropriamente” crede di “creare” e decide quali sono le cose desiderabili spacciandole per bisogni (un certo uso del marketing?), facendo il possibile perchè gli altri – i consumatori – lascino ai cosidetti creativi (Bisognerebbe qui introdurre la categoria degli scienziati, il potere della mia amata scienza che viene oggi inteso come validazione del riconoscimento sociale di quella cosa oscura che si chiama comunità scientifica. Banale esempio: la particella fisica Quark, che dà il nome persino a una trasmissione divulgativa sulla scienza è una particella che esiste perché è riconosciuta socialmente dall’uomo della strada. Nessuno tra gli uomini della strada dubita che esista il Quark perchè l’uomo della strada ha “fede” nella sua esistenza pur non capendo assolutamente niente di fisica. Non saprebbe assolutamente dire, spiegare cos’è il Quark, ma non si sognerebbe minimamente di dubitarne della sua esistenza. Vi prego di riflettere intensamente su tutte le implicazioni che questa constatazione fenomenologica comporta in relazione agli argomenti che si stanno affrontando intorno alla persuasione, promozione, pubblicità, creatività e validazione di un qualcosa ad opera di una Comunità Scientifica che seleziona ciò che deve essere proposto alla gente al fine di averne un riconoscimento sociale, tanto che come giustamente ha fatto notare Emanuele Severino, oggi una scoperta può definirsi scientifica solo se riceve una riconoscimento sociale! e fatto parallelo: Oggi si parla di Buona Economia solo se ci sono Buoni Consumi. Buoni nel senso sopratutto della Quantità di consumi. Un’economia funziona solo se si consuma! Allora ciò che si consuma è ciò che è, deve essere desiderato! Questa è la logica creativa? questa è la logica creativa del Bene? questa è la creatività dell’economia?) la loro produzione dei desideri? la loro produzione desiderante?
    Avrei voglia di postare una sterminata bibliografia su questi argomenti.
    Sull’uso che i pubblicitari fanno della psicolinguistica citerei il testo “Qual è Takete? Qual è Maluma? come esempio di dove arriva la persuasione, il saggio di Castoriadis sull’asservimento all’immaginario istituito: L’Istituzione immaginaria della società e il saggio di Bataille sull’Utile.
    Tre cose, tanto per confondersi le idee..

  6. Quello che disprezzo profondamente della pubblicità attuale è l’essersi slegata dal prodotto per tentare di appropriarsi del nostro sfondo comune di riferimento. Un collage di immagini convenzionali, accattivanti, suadenti (bambini in festa, Amicizia, Amore, vecchi felici, Gioia e Prosperità)come subdoli haiku in sequenza apparentemente casuale. Il prodotto non viene messo tra queste immagini, ma sono le immagini a essere riportate sotto il prodotto, così la marca tende a impossessarsi anche del nostro immaginario (per quanto solo di quello più banale).
    Per quanto la pubblicità sia fatta bene, è assolutamente antitetica rispetto all’arte, questa ci fa fermare nel pensiero più profondo, quella ci spinge in superficie verso lo shopping.

  7. Ringrazio Raul per avermi citata nel suo bellissimo pezzo sulla pubblicità, e già che ci sono approfitto per rispondere- almeno in parte- ai commenti che vedo qui sopra.

    il termine “creativi” è utilizzato per lo più per indicare velocemente il “reparto” dell’agenzia.
    forse non tutti sanno che, di norma, una pubblicità è ideata da due persone: l’ART (diminutivo di art director) e il copy (diminutivo di copywriter).
    funzioniamo più o meno come le barzellette dei carabinieri: di solito uno legge e l’altro scrive. Da noi uno pensa all’immagine e l’altro ci scrive il titolo.
    il lavoro creativo si fa in coppia.
    Per velocità di identificazione- es, quando gli account ci passano un brief – veniamo “accorpati” sotto la definizione di creativi.

    Se una persona mi chiede “se sono una creativa” la risposta è si, ma perché faccio parte del reparto creativo (ossia degli art+copy). nel nostro ambiente viviamo questo definizione in modo estremamente “strumentale”. tutto qui.

    Una cosa che trovo piuttosto ingenua negli interventi che ho letto e che ritrovo anche nel pezzo di Paoloni, è questa voglia di colpevolizzare i creativi .
    trovo che sia più onesto colpevolizzare la pubblicità.
    La tv è piena di brutti messaggi pubblicitari voluti dal cliente.
    Se volete vedere della bella pubblicità guardate nei cestini degli uffici.
    Il mio portfolio è fatto al 90% di comunicati che non sono mai usciti e che i miei clienti mi hanno tirato nei denti.
    Questo è un lavoro dove, se hai culo, su 100 cose che proponi ne escono 2.
    Il resto è solo un continuo sentirti dire “al cliente non piace, il clinete vuole il marchio grosso, il cliente vuole qualcosa di più facile”.
    E nella maggior parte dei casi “facile” vuol dire schifosamente banale.
    Io non voglio fare brutta pubblicità.
    Io mi sforzo di dare messaggi reali, su cose reali del prodotto, possibilmente facendo divertire le persone.
    Odio trattare gli utenti da stupidi.
    ne ho un enorme rispetto e credo molto nella capacità del pubblico di riconoscere e apprezzare bei messaggi.
    (una prova lampante? Lo spot di Peugeot 206 con l’indiano che sfascia la macchina vecchia per “modellarla” come una 206.
    E’ uno spot che ha vinto il mezzo minuto d’oro, unica gara”pubblica” al di fuori dei soliti concorsi aperti solo al giudizio dei pubblicitari)

    Quando creo (o penso) un messaggio tento sempre di essere chiara, divertente, di incuriosire. Di fare qualcosa di intelligente, insomma.
    Già che rompo le palle alla gente mentre legge il giornale o guarda la tv, trovo che sia un mio dovere almeno divertirli. O farli riflettere.
    Chi mi propone messagggi pubblicitari brutti spreca il mio tempo.
    Mi insulta.
    E ho il ditirro di girare canale, di non comprare quel prodotto ma soprattutto HO IL DIRITTO DI DIRE ALLA DITTA PRODUTTRICHE CHE QUELLO SPOT FA SCHIFO!
    Io sarei solo felice se al mio clinete tirassero nei denti gli spot schifosi che manda in onda (uno tremendo di Peugeot? Avete in mente quello della tipa sulla macchina del vecchiardo… lei si mangia la ciliegina, lui non vuole che lei sporchi il posacenere, sta per buttare il gandolino fuori dall’auto e il bellone sulla Peugeot lo raccoglie galantemente? Ecco. Quello è uno spot di merda!
    Chiamate la PEugeot Italia, chiedete del direttore generale – o del respondsabile pubblicità- e ditegli di piantarla di trattarvi da coglioni. Che quello spot fa schifo!)

    Avete il diritto di protestare. Fatelo.
    Lo dico anche nel mio interesse.
    Io non voglio fare spot brutti, ma spesso le indagini di mercato, la lettura banale che viene fatta dei test e le imposizioni del cliente generano brutta pubblicità.
    la maggior parte dei creativi nelle agenzie è capace di fare bene il proprio lavoro (per carità… qualche cane c’è anche qui!)
    ma spesso i messaggi sono viziati, rovinati, distrutti dal committente.

    Chiudo qui un commento che mi pare già lunghissimo.
    ci sarebbe ancora tanto da dire, ma credo che sia un casino riuscire a farlo tutto in una volta.
    Spero di aver fatto luce almeno un minimo su quello che è il mestiere della pubblicità.

    Ah! Se volete vedere degli spot STRAORDINARI esistono delle videocassette con gli spot vincitori di CANNES (l’equivalente degli oscar nella nostra categoria) Io ne ho qualcuna.
    Se volete ve la presto.

    Forse potete trovare qualcosa anche su http://www.adforum.com

    Vado un po’ di fretta… devo presentare dei radio oggi pomeriggio.
    Un caro saluto a tutti.

  8. Candida, ma li leggi gli articoli? (evidentemente no, se incolli in fine di commento scuse non richieste come “Perchè io mica l’ho letta questa sbrodolatura di Ràul, però se mi piazzi le parole in grassetto!”).
    Avessi letto il nutriente pezzo di Montanari, ti saresti accorto che Eco non “definisce”, ma “riprende una vecchia definizione logico-retorica”. Quanto all’uso parole in grassetto, si tratta di una semplicissima funzione grafica che diventa strumento di comunicazione delle parole scritte. Ma non bisognerebbe leggere solo quelle. Soprattutto se si vuol parlare poi di “superficiali a destra e a manca”.

    un saluto

  9. No, sentite non voglio polemiche. Asino, non asino. Io volevo solo prendermela con Raul Montanari e ho preso un qualunque pretesto per dargli addosso. L’operazione mi sembra chiara. Perchè ce l’ho con Raul Montanari in quanto attacca Elio Paoloni che mi ha fornito la sostanza carmelobina e quindi è mio amico. (Non so se la cosa gli facci piacere; ma che gli facci o no è amico miò). Io dico questo, o scrittori d’italia: basta seghe, scrivete! Voi non siete proffessori universitari!!!!!!! Oh! E poi basta con questo agomentazionismo dilagante! Per oggi non mi metto più in mostra, ché faccio troppo bella figura! Domanda seria: è possibile copiare e incollare una propria fotografia in un post di commento. Comunque sul mio sito è possibile vedere il mio viso e anche il mio seducente corpo!!! (Questo lo dico magari a beneficio di Benedetta Centovalli)

  10. all'”aumento dell’alienazione” credo faccia eco una perniciosa tentazione che ricorda quella di vendere “l’anima al diavolo”. la seduzione è: ho io quello che fa per te. speri di far brillare il tuo pavimento camminandoci sopra? si può. vorresti guidare sulla sabbia, entrare in acqua, e metterti il mascara che non cola? si può. ti piacerebbe cucinare a distanza col telefonino che fa accendere il fornello di casa tua? si può. dinanzi all’evidenza di avere bisogni, il primo comndamento è crearne di nuovi. il secondo: indurre al meta-bisogno. il bisogno e il bisogno di assecondarlo. in maniera direttamente proprorzionale al benessere (più siete ricchi più i vostri bisognini aumentano, si raffinano, si fanno complessi e specifici. sempre più piccoli, sciccosi, di secondaterzaquarta necessità, ma sempre più insistenti, impellenti). e inversamente proporzionale al grado di appagamento (più sei povero e meno bisogni indotti ti puoi concedere. solo quelli elementari, di prima ncessità ma se mangi con mulino bianco, invece che col discount la tua famiglia sarà certo più felice). in tutti e due l’effetto è quello di una persistente, direi primitiva, insoddisfazione. di una tensione, e at-tenzione indotta, appunto, costante che paventa il raggiungimento dello stato desiderato, dell’ap-pagamento attraverso un semplice, facile rito: la compra-vendita. manifestare, placare le pulsioni, liberare e sanare frustrazioni, cercare la catarsi.
    la pubblicità, il marketing ci fanno oggetto di studi, analisi, sondaggi. cercano e forgiano chiavi per aprire le serrature della mente, dei sensi. e noi potremmo almeno provare a cambiarle. ogni tanto.

  11. Caro Marco Candida,
    sono contento che è venuto fuori il vero dissenso. Per te tutte queste sono “seghe”. Perfetto, adesso sappiamo come la pensi. L’unica cosa che conta, per te, è il romanzone.

    Guarda che tra l’altro i romanzoni li scriviamo. Li abbiamo scritti e li stiamo scrivendo. Abbiamo così tanta energia, siamo così incontenibili che i libri non ci bastano, guarda un po’, ci avanza pure da dire la nostra sulla società e il mondo senza uso di personaggi e trama…

    Raul ha conosciuto dall’interno, professionalmente, il mondo della pubblicità, e grazie a dio ce ne può parlare con una libertà e un’ariosità cognitivamente appassionanti che difficilmente si riscontra fra i professori universitari. Se tu pensi che il logos appartenga solo all’accademia universitaria, e gli scrittori sprechino tempo a mettere in piedi un’argomentazione… be’, non invidio la tua vita di lettore fondamentalista, e mi faccio delle domande sulla tua idea di “scrittura”: oltre ad avere appena dato a Raul un “calcio dell’asino”, evidentemente ignori la produzione saggistica di Dostoevskij, Tolstoij, Baudelaire, Calvino… Ma se a te interessano solo le nostre opere letterarie d’invenzione (e ti ringrazio di cuore dell’interesse), leggiti quelle, ché più o meno sono tutte disponibili in libreria o in biblioteca.

    Un saluto affettuoso

  12. caro marco candida, ecco un pessimo esempio di pubblicità.
    hai appena dimostrato come non si lancia un messaggio pubblicitario.
    stai parlando a degli scrittori (perché mi pare di capire che siano prevalentemente loro i tuoi bersagli, dunque il tuo target)
    cominciamo
    target :scrittori
    Media : il blog
    brief: rendere in qualche modo interessante- appetibile – la tua persona. Hai un blog privato e vuoi che la gente venga a leggerlo.

    Sviluppo dell’idea : parti con degli insulti generici (offendi Raul, prendi le parti del tuo amico senza fregartene troppo di quelli che ci sono qui eche stanno tentando di comunicare e di scambiarsi informazioni e commenti interessanti) e pretendi che la gente si interessa a te.
    Non motivi il target a fare uno sforzo per accettare il tuo invito/messaggio.
    Non hai scelto gli argomenti giusti.
    Non hai scelto neanche il tono giusto.

    Se tu fossi uno spot pubblicitario stai tranquillo che avremmo già cambiato canale.

    Non ti interessa la discussione?
    cambia post, vai su qualcosa che ritieni più interessante.
    Vuoi fare pubblicità al tuo blog?
    Trovati un’agenzia.

  13. Per anna:
    Un po’ mi lascia in dubbio il tuo commento e soprattutto il finale:

    “la pubblicità, il marketing ci fanno oggetto di studi, analisi, sondaggi. cercano e forgiano chiavi per aprire le serrature della mente, dei sensi. e noi potremmo almeno provare a cambiarle. ogni tanto.”

    Il marketing studia e analizza il mercato e gli utenti.
    ok. E’ un dato di fatto.
    Ma che si possano forgiare le chiavi per aprire le menti… mio dio!

    E’ una cosa che ripeto da un secolo: se fossi davvero capace di convincere le persone a fare ciò che dico, col cavolo che me ne starei qui a vendere formaggini! A quest’ora sarei ricca!
    Non possiamo convincere nessuno.
    Un buon prodotto si vende da solo.
    Esempio: beltè. E’ leader di mercato e fa una pubblicità di merda!
    La gente lo sa, ma il prodotto è buono e lo compro indipendentemente dagli spot.
    Le pubblicità del mulino bianco fanno schifo ma i tegolini sono buoni.

    Esempio inverso: nike.
    IO, valentina maran, copywriter, quando vedo alla Tv lo spot di Nike (il gioco della sedia, avete in mente? si ferma la musica e tutti si devono sedere- uno resta in piedi)- mi fermo e lo guardo.
    Mi piace. vorrei fare io uno spot così.
    Solo che poi le scarpe della nike non le compro perché mi sta sulle balle che sfruttino i bimbi del terzo mondo.

    Nessuno ti può convincere a fare ciò che non vuoi.
    I surgelati monodose sono nati perché in Italia è aumentato il numero di divorzi e dunque di single.
    Se esiste davvero il telefonino che accende e spegne il forno mentre sono ancora in ufficio ben venga! Per me che esco di casa alle 6 del mattino per rientrare alle 10 di sera, una cosa del genere mi è utile.
    E’ superflua agli occhi di chi non è in target.

    La maggior parte della pubblicità NON è rivolta a tutti.
    prova ad analizzarla sotto questo punto di vista.

    Altra cosa curiosa:forse non lo sapete ma non è possibile verificare se una pubblicità ha funzionato davvero.
    Non ho mai modo di sapere che risposta ho.
    Non saprò mai se la gente davvero compra il prodotto perché è stato colpito dalla pubblicità o se sono entrati in gioco altri fattori (esempio: esposizione sullo scaffale, prezzo, presenza della concorrenza, attrazione dovuta al packaging, fidelizzazione abituale al prodotto).

    Sul provare a cambiare sono d’accordo. Insisto: Se non ti piace una pubblicità hai il diritto di protestare.

  14. Grazie a Raul per aver spiegato con chiarezza ed esaustività che cosa è, a grandi linee, la pubblicità. E grazie al contributo di un’addetta ai lavori in s.p.e. (servizio permanente effettivo) come Valentina Maran. Quello che dice nel suo ultimo intervento io, da profano, l’ho sempre pensato: un buon prodotto si vende da solo. Ma, mi chiedo e le chiedo, si può rivoltare la questione, e cioè: un cattivo prodotto può essere perlomeno “spinto” dalla pubblicità? Difficile, me ne rendo conto, definire anche con approssimazione cosa sia un cattivo prodotto. Le Nike non lo sono. Lo sono da un punto di vista, diciamo così, dell’implicazione morale; ma il prodotto in sè è ben fatto. Può esistere un cattivo prodotto (in termini di qualità parecchio inferiore a quelli della concorrenza) che la pubblicità ha spinto al successo, diciamo così, “immeritatamente”? Sono domande, queste, che pongo all’attenzione di Valentina ma anche di tutti coloro che vorranno dare una risposta. Io, personalmente, non so proprio; me lo sto domandando, tra le altre cose da fare e da pensare, giustappunto da stamattina! Ricordo, a mò di esempio- l’unico che mi viene ora in mente- il Gran Biscotto Rovagnati: un prodotto uguale a tanti altri (così m’è parso al gusto) che la sponsorizzazione (cioè il logo umano Mike Bongiorno) ha fatto diventare famoso. Pare che le vendite siano cresciute esponenzialmente, nuovi stabilimenti, ecc. Un caso eclatante, credo, di come la pubblicità (o per meglio dire, forse, la sponsorizzazione del “logo umano”)possa aprire nuovi mercati in maniera decisa e riscontrabile. In questo caso, dunque, mi pare che la pubblicità è servita ad aumentare, e non poco, le vendite. Al di là di questo caso credo abbastanza raro, Valentina dice una cosa, a un certo punto, semplice e intensa, che spiega un risvolto umano molto rilevante della sua professione: è impossibile verificare se il target è stato colpito dal messaggio, o meglio, quanto è stato colpito, con quali risultati. Ma io le chiedo: quando abbiamo a che fare con un prodotto assolutamente o solo parzialmente nuovo, non è possibile avere in qualche modo anche un abbozzo di riscontro da parte del pubblicitario sull’effetto che tale novità ha fatto sulle vendite? Grazie e a lei e a tutti.

  15. non è convincere le persone a fare ciò che si dice (che è autoritarismo, o dispotismo, e la democrazia insegna inaccettabile…) no la cosa è ben più sottile e complicata, mi pare. è indurre nelle persone bisogni effimeri, nuovi bisogni che cercano soddisfazioni e che ti inducono a credere che se invece che la varechina nel cesso ci butti un’altra specie di varechina che ha l’odore di lavanda e oltre a non puzzare come la varechina profuma pure, il tuo “bisogno di ambiente igienizzatoprofumato” è soddisfatto appieno. questo è un esempio banalissimo e nemmeno troppo esemplare. c’è poi il discorso che faceva montanari della proiezione. il prodotto non rappresenta più se stesso, o solo, ma un’identità. che la nike sfrutti i bambini e un’informazione successiva, acquisita a prescindere dal suo spot e dal messaggio che veicola: velocità, agilità, atleticità, comodità, eccettera. e il bisogno, il desiderio di queste caratteristiche fisiche, il fatto di spingerti a desiderare di avere queste caratteristiche e a farle passare come “uniche” non ha niente a che vedere con chi fa le scarpe.
    sull’esempio del mulino bianco: d’accordo, a tal punto che io non vedo nessuna pubblicità dei tegolini, ma quella di altri prodotti che associno ” gusto a leggerezza”, “cioccolato a cereali zeropercento di grassi”, insomma il piacere del palato al bisogno di rimanere in forma! (quando faranno i tegolini light torneranno pure loro!)

    la verifica se funziona o no (la pubblicità)? ha importanza. evidentemente no. perché oggetto del lavoro, fine dell’esperimento creativo e promozionale non è il prodotto, ma il consumatore. che deve comprare, sentirsi spinto ad appagare il desiderio, l’esigenza.

  16. non è convincere le persone a fare ciò che si dice (che è autoritarismo, o dispotismo, e la democrazia insegna inaccettabile…) no la cosa è ben più sottile e complicata, mi pare. è indurre nelle persone bisogni effimeri, nuovi bisogni che cercano soddisfazioni e che ti inducono a credere che se invece che la varechina nel cesso ci butti un’altra specie di varechina che ha l’odore di lavanda e oltre a non puzzare come la varechina profuma pure, il tuo “bisogno di ambiente igienizzatoprofumato” è soddisfatto appieno. questo è un esempio banalissimo e nemmeno troppo esemplare. c’è poi il discorso che faceva montanari della proiezione. il prodotto non rappresenta più se stesso, o solo, ma un’identità. che la nike sfrutti i bambini e un’informazione successiva, acquisita a prescindere dal suo spot e dal messaggio che veicola: velocità, agilità, atleticità, comodità, eccettera. e il bisogno, il desiderio di queste caratteristiche fisiche, il fatto di spingerti a desiderare di avere queste caratteristiche e a farle passare come “uniche” non ha niente a che vedere con chi fa le scarpe.
    sull’esempio del mulino bianco: d’accordo, a tal punto che io non vedo nessuna pubblicità dei tegolini, ma quella di altri prodotti che associno ” gusto a leggerezza”, “cioccolato a cereali zeropercento di grassi”, insomma il piacere del palato al bisogno di rimanere in forma! (quando faranno i tegolini light torneranno pure loro!)

    la verifica se funziona o no (la pubblicità)? ha importanza. evidentemente no. perché oggetto del lavoro, fine dell’esperimento creativo e promozionale non è il prodotto, ma il consumatore. che deve comprare, sentirsi spinto ad appagare il desiderio, l’esigenza.

  17. Eh lo so è un po’ il mio problema: il narcisismo. Sto proprio facendo la classica figura di merda. Però mi piace. Non chiedetemi spiegazioni sul perchè ma mi piace. Però provocateur alla francese mi piace. Grazie. Voglio solo dire che il mio è stato un modo forse maldestro – e meno male! – di dire questo: basta con questo furore analitico. Con questo argomentazionismo – come lo chiamo. Valentina ha analizzato il mio intervento. Ne valeva la pena. No. Però questo furore di smontare tutto, di rendere tutto un meccanismo – persino una prosa epilettica come la mia, voluta così però… – ha preso il sopravvento. Ancora. Io ecco sono più per l’immediato ottocentesco. Tutto qua. Proposta: perchè Raul non posta un suo racconto così mi diverto un po’ qui in ufficio.

  18. clic doppio probably. altro doppio post. ribadisco: sono un’imbranata.
    Valentina, grazie per i dubbi e i commenti, prolifici.

  19. Prendo atto da quello che dice Valentina Maran della sua incapacità a fare una seria critica della pubblicità, del suo retroterra, del suo significato. Che senso ha dire più o meno: io cerco di fare della buona pubblicità. Mi sembra ovvio che c’è chi fa bene e chi fa male un dato mestiere o professione e il bene e il male lo fa volutamente o meno a seconda delle sue intenzioni, fini, mezzi e opportunità. Non è sotto esame la professionalità! Non è qui, in questa discussione che possiamo esaminarla, ma quando mi capita sotto mano una pubblicità.
    Mi aspettavo piuttosto la capacità di “vedere” cosa è la pubblicità! Trovo disastroso, oggi – e il problema non è solo dei pubblicitari, ma anche dei medici, architetti, preti, giudici, carabinieri (anche qui è ovvio che ci sono i buoni e i cattivi carabinieri, ma io voglio un carabiniere che fa il carabiniere e che mi parla del ruolo della carabina!!!) e di tante altre categorie professionali quante se ne possano immaginare – questa incapacità a mettere in discussione le fondamenta della propria arte, professione, disciplina, chiamatele come vi pare. Questa incapacità a sapere vivere serenamente (e la serenità la si vede e si sente dal modo in cui si sa criticare quello che si “fa” di sé)un conflitto tra quello che è giusto e quello che si fa! E naturalmente per evitare la dissonanza cognitiva, ci si crea alibi, ragionamenti, spiegazione sul bene di questo, il bene di quest’altro, sulla propria etica…oddio se si sente (quasi mai)dire a qualcuno: guardate che quello che faccio lo faccio perchè lo faccio ma è una merda e vi dico perchè! Cosa significa questo? Che non si può pensare di fare del Bene, di migliorare qualcosa, di esser-per-l’Uomo se non si è capaci di mettere in discussione seriamente quello che si sta facendo. Non si tratta di abolire la pubblicità, non si tratta di abolire la professione medica, non si tratta di abolire il diritto costituzionale, piuttosto si tratta di mettere in discussione profondamente ognuna di queste cose nelle sue fondamenta perchè le cose siano diversamente.
    Non è con i discorsi di valentina maran che si può pensare di migliorare il mondo della pubblicità o più propriamente il Mondo.
    L’incapacità di mettere in discussione profondamente l’esser-di-qualcosa nasce da un a-priori: siamo nel migliore dei mondi possibili.
    Io lo nego. Non si è più capaci di uscire da se stessi e guardarsi e guardare il mondo.
    Non nutro grande fiducia di poter migliorare qualcosa quando non si è più in grado di mettere in discussione quello che io sto facendo (anche se posso pensare di farlo benissimo!!!)
    Non si migliora granchè senza l’esercizio del guardare a cosa si fa di se stessi. Le giustificazioni sono la prova più palese della falsità che si recita a se stessi.

  20. Allora: un prodotto nuovo ha buone probabilità di essere venduto proprio perché nuovo.
    incrementa tali possibilità se ha dei PLUS (delle caratteristiche in più o diverse) rispetto alla concorrenza.
    Io non posso far leva su promesse finte.
    Non posso far passare una cosa per quello che non è. Non posso dire che produco un detersivo che non inquina se non è assolutamente vero.
    Esiste la IAP, l’istituto di autodisciplina pubblicitaria, che regolamenta, analizza, studia, e soprattutto BLOCCA le campagne ingannevoli e che contengono messaggi dubbi.
    N.B. spesso sono state bloccate degli spot molto belli utilizzando motivazioni più che discutibili.
    ma nel dubbio l’istituto censura.
    Una pubblicità non è soggetta solo a questo controllo (e se volete potete andare voi stessi sul sito e segnalare o controllare quali pubblicità sono state bloccate), ma si becca anche le bordate della concorrenza: il mio “nemico” ha tutto l’interesse a rompermi le uova nel paniere e a cercare il pelo nell’uovo di ogni singolo comunicato, perché se può bloccarmi, lo fa.
    Ok? Non siete proprio disarmati e non siete proprio in balia di malefiche menti pronte a crearvi bisogni inesistenti.
    Si creano prodotti per soddisfare richieste di mercato.
    Seguono l’evolversi degli stili di vita.
    riprendete l’esempio dei surgelati monodose: ovvio che posso anche scegliere di mettermi a spadellare e metterci i fatidici 45 minuti di media per cucinarmi un buon piatto da mangiare, ma una buona parte della popolazione NON HA IL TEMPO PER FARLO.
    Sono s’accordo che sia più sano cucinare bene e comprare la verdura fresca dal contadino, ma coi ritmi di oggi, obiettivamente, non ho il tempo di farlo.
    E’ una realtà tangibile. Vera.
    Rispondo al problema /necessità/desiderio di una fetta di mercato che è andata delineandosi col tempo (sempre + divorzi=sempre più single dunque cresce la richiesta di confezioni monodose- spesso sono persone che passano moltissimo tempo al lavoro dunque ho sempre meno tempo per cucinare).
    concetto numero 2 non posso cerare il bisogno di “avere il cazzillo appeso la water per farlo profumare”.
    Ci sono persone che odiano gli odori del water.
    Io produttore mi ingegno e produco il cazzillo.
    mi sono scavato una nicchia di mercato. Perfetto.
    Arriva il mio concorrente e produce anche lui cazzilli da appendere nel water per profumarlo. Perfetto.
    Per darmi contro deve produrre qualcosa di diverso (io li faccio alla fragola, lui alla menta).
    Sono regole estremamente elementari del mercato, ma mi sembra che gli utenti, quando si mettono a parlare di pubblicità, tendano a far finta di non capire… non so.
    nessuno mi obbliga a comprare il cazzillo, se sono una persona che odia gli odori del water ho la possibilità di scegliere tra il cazzillo alla fragola e quello alla menta.
    Magari quello alla fragola ha pure una confezione che mi piace e ccompro quello.
    i prodotti esistono perché il mercato ne fa richiesta.
    Nessuno produce in massa cose che gli resteranno nei magazzini.
    Sarebbe ridicolo.

    Non siate così passivi.
    nessuno vi sta obbligando.
    siete semplicemente in mezzo a dei continui flussi di informazione, questo è vero.
    Giornali, radio,tv, posta etc, sono supporti per comunicare e le ditte li usano.
    E’ questa la loro funzione.
    E sono quelli che offrono maggiori contatti
    (es. con lo spot tv spendo un tot di denaro ma sono sicuro che il mio comunicato raggiunge una larghissima parte del mio target perché – sembrerà ovvio- ma gli utenti della maggior parte di prodotti hanno una cosa in comune: sono raggiungibili dai media, soprattutto dalla tv. Hanno ( o meglio: vedono) la tv. infatti non sono costretto ad avere necessariamente un giornale o la tv perché il messaggio mi arrivi.
    Il giornale lo leggo anche al bar benchè io non l’abbia acquistato.
    (piccola nota: la tv è pure meglio dei giornali perché posso raggiungere anche gli analfabeti. col giornale no)

    Per quel che riguarda la possibilità di “spingere” un prodotto c’è una cosa da notare:
    ogni prodotto delinea automaticamente il target.
    Mi spiego: Peugeot 206.
    Auto piccola. Design giovane. bagagliaio modesto. motore spinto. taglio dei fanali “felino” e aggressivo.
    (sto facendo un elenco di doti oggettive dell’auto).
    Il target NON sono le famiglie (non ha un bagagliaio grande… non è così comoda per portarci i marmocchi… si, magari un padre di famiglia potrebbe prenderla ma… è più credibile che se la prenda un single)
    Età dell’acquirente… a occhio dai 18 ai 35 anni circa (la linea, il design evoca uno “stile”, un gusto corsaiolo. difficilmente si presta ai gusti di rappresentanza di un uomo d’affari)
    carattere del prodotto… quando è uscita quest’auto era l’unica ad avere un taglio dei fanali così “cattivo”.
    Era giovane. piccola. voleva far concorrenza alla punto, alla golf (anche se non mi pare che sia dello stesso segmento, ma lo spirito era quella di andare contro ai “bravi ragazzi in carriera della golf”), sicuramente un pordotto più maschile che femminile.

    Il prodotto (se è un buon prodotto) ha già in sè il 90% del suo carattere.
    Io devo solo “finire di vestirlo”: dare un segnale più preciso. un’identificazione più veloce.
    da qui è nato il claim “enfant terrible”.
    Stile della comunicazione: fuori dalle righe.

    secondo esempio: stiamo lavorando al lanciodella nuova 407, un macchinone abbastanza sportivo, importante, non male anche come design.
    I grandi strateghi dell’internazionale ci forniscono questa strategia: “la rivoluzione dell’automobile”.
    Bene. E’ una CAZZATA! Vi assicuro che la 407 non ha niente di rivoluzionario. il design, gli equipaggiamenti, i motori sono assolutamente nella norma.
    Quest’auto sarà un flop.
    Chi la comprerà lo farà solo perché spinto dalla bellezza oggettiva dell’auto (oddio… non è male, ma ci sono anche auto più belle).
    la strategia è sbagliata, di conseguenza nonostante i nostri sforzi, le campagne che usciranno (purtroppo) saranno imprecise, spocchiose, overpromis (non so se si scrive così, ma so cosa significa: che promette più di quanto può. Non sto dicendo una bugia: sto vestendo l’auto di un alone di meraviglia che in realtà non ha. ma si vede! Gli spot non saranno altro che una metafora per parlare di quanto è diversa dalle altre. Ma basta guardarla per rendersi conto che non è vero!)
    capito? stiamo lottando in agenzia per convincere il cliente a cambiare idea ma non c’è verso perché “i test hanno detto che quella è la cosa giusta”.

    Per quel che mi riguarda, quando mi arriverà sul tavolo la campagna internazionale da adattare all’italia farò il possibile perché sia il meno fastidiosa possibile per gli utenti.

    Posso “vestire” il prodotto, fargli parlare la lingua delle persone alle quali è dedicato. Mandarlo sulla stessa lunghezza d’onda.
    Io faccio comunicazione. devo parlare lo stesso linguaggio dell’utente, altrimenti non mi capisce!

    ultimo aneddoto.
    A me e al mio art è stato chiesto di fare una campagna per trenitalia.
    Siamo due pendolari. abbiamo fatto un paio di proposte per divertenti che “scherzavano” un po’ sul limite di un servizio offerto dai treni.
    Era un annuncio onesto, simpatico, che ti metteva voglia di dire “ma sì, non sono impeccabili, almeno lo riconoscono”.
    Trenitalia avrebbe guadagnato in immagine.
    Avrebbe guadagnato credibilità.
    bene. Quell’annuncio è stato rifiutato.
    ci hanno chiesto di elaborare un nuovo annuncio che buttasse fumo negli occhi e sorvolasse in modo eccessivo sui difetti dell’offerta.
    Ci siamo rifiutati di farlo.
    hanno passato il lavoro a degli altri.

    Mi scuso per i commenti lunghissimi che posto, ma adoro questo lavoro e mi dispiace che la gente non capisca o pensi chissà cosa o addirittura si senta minacciata dalla pubbliicità.
    il mio è un invito sincero alla critica.
    Non siate passivi.

    volete farvi un paio di risate (amare)?
    Andate sul sito http://www.forza-italia.it e leggete le tre opzioni che propongono nel sondaggio sull’Iraq.
    Sono 3 frasi identiche.
    Quella si che è costrizione vera di opinioni!

    Saluti a tutti. Vale.

  21. Ma non è vero che voglio rendere più appetibile la mia persona, Valentina! Non è così. Io voglio anzi rendermi inappetibile! Solo che la cosa non ti torna. Tu dici, inquinata tutta dai tuoi studi: ma come può essere umanamente possibile che uno non voglia rendersi desiderabile? E’ questo che frega lo studioso. Applica un modulo di Stato, un modulo condiviso su un oggetto – in questo caso Marco Candida. Ma di fronte all’irrapresentabile, tu naufraghi. Questo voler ingabbiare, identificare tutto. E’ questo che mi strippa. E’ questo, santo cielo, che fa nascere i mostri, i diversi. E sarà sempre questo la mia battaglia. Perciò voglio rendermi intollerabile, ma io per primo. Se la rwaltà è incongrua che allora anche l’arte sia incongrua, irrespirabile! E’ questo Tiziano il passaggio che ti sfugge per diventare un genio. Questo dobbiamo fare nel 2000! Ma sul mio blog svilupperò meglio.

  22. gentile marco candida, per la seconda volta chiudi il tuo messaggio invitando gli utenti a venire a vedere il tuo blog.

    Va bene. hai messo in vetrina il tuo prodotto.
    Adesso, per favore, puoi postare commenti coerenti con quelli trattati qui?
    Ti dispiace?
    Probabilmente dirai “si, mi dispiace perchè io voglio essere fastidioso”. tesoro, la tua non si chiama missione, si chiama problema psichico.
    Stai mettendo te stesso in cima a tutto. Ci stai propinando la tua megalomania.
    il tuo IO. Hai fatto qualcosa per meritarti tanta attenzione? Per pretenderla? No.
    Non è mettendosi a starnazzare, a insultare e a pestare i piedi che una persona si guadagna rispetto e diritto a ricevere attenzione.

    Cordiali saluti.

    (P.s. fammi una cortesia: scrivi “perché”, con l’accento giusto. Visto che sei un uomo di lettere così dotto da fare il culo addirittura a Tiziano, mi aspetto almeno che tu scriva in italiano corretto).

  23. Grazie davvero a Valentina Maran per le sue spiegazioni e i suoi aneddoti illuminanti. Ma non mettere tutti nello stesso blocco di “passivi”, però. Io non lo sono, per esempio.
    “Non siate passivi”, un pò di deformazione professionale? (slogan).
    Lo dico con simpatica ironia (spero).

  24. Certo che al confronto di Valentina Maran Marco Candida fa la figura di un Nobel per la Letteratura, altro che Scarpa…

  25. Valentina Maran scrive: “ultimo aneddoto.
    A me e al mio art è stato chiesto di fare una campagna per trenitalia.
    Siamo due pendolari. abbiamo fatto un paio di proposte per divertenti che “scherzavano” un po’ sul limite di un servizio offerto dai treni.
    Era un annuncio onesto, simpatico, che ti metteva voglia di dire “ma sì, non sono impeccabili, almeno lo riconoscono”.
    Trenitalia avrebbe guadagnato in immagine.
    Avrebbe guadagnato credibilità.
    bene. Quell’annuncio è stato rifiutato.
    ci hanno chiesto di elaborare un nuovo annuncio che buttasse fumo negli occhi e sorvolasse in modo eccessivo sui difetti dell’offerta.
    Ci siamo rifiutati di farlo.
    hanno passato il lavoro a degli altri”.
    E più sotto:”mi dispiace che la gente non capisca o pensi chissà cosa o addirittura si senta minacciata dalla pubbliicità.
    il mio è un invito sincero alla critica.
    Non siate passivi”.
    Non metto in dubbio le buone intenzione di Valentina, ma ecco, vedo, che le sfugge da quello che ho citato del suo discorso, la profondità della critica, pensa che ci possa essere facendo una determinata cosa in un determinato modo un “guadagno in immagine”, un “guadagno in credibilità”.
    Già in queste parole c’è la Follia dell’Occidente! Chissà cos’è per Valentina l’immagine, ecco a cosa l’abbiamo ridotta!
    E cme sono ridotti coloro che non possono “acquistare” l’immagine, rendersi credibili solo perché non possono “acquistare” questa immagine che diverrà la “propria” immagine, la “propria credibilità” rispetto alla società!
    Poi invita a non esser passivi. Ma non si capisce bene cosa sarebbe esser attivi!
    Per me è desiderare e sfrondare i miei bisogni.
    Continua a farmi riflettere vedere dei musulmani inneggiare il loro diprezzo, odio per gli Stati uniti con indosso un paio di scarpe americane!

  26. Per Franz: quando dico “non siate passivi” è solo per incoraggiarvi (ammesso che ce ne sia bisogno, s’intende) a prendere posizioni vere contro ciò che non vi piace.
    Sentite che un messaggio vi ha offeso o lo trovate moralmente scorretto? potete protestare.
    ci sono degli organi competenti che vi danno ascolto, o , ancor meglio, avete il diritto di lamentarvi direttamente coi committenti del messaggio.
    Il mio era solo un invito a prendere posizione.
    va bene parlarne, ma credo che sia anche utile se al dialogo segue poi un’azione concreta.

    Per luminamenti:
    Quando dico “guadagnare in immagine” o meglio “guadagnare credibilità” vuol dire che faccio acquisire “simpatia e benevolenza” da parte del pubblico.
    trenitalia offre obiettivamente un servizio discutibile.
    Mi fa incazzare che mi facciano vedere spot dove tutti sono felici e i treni sono sempre puntuali.
    Non è vero! Non è vero che “fanno muovere il paese” come dice il nuovo claim.
    fanno girare le palle ai pendolari!
    Dicessero qualcosa tipo ” vi portiamo dove volete… prima o poi” dimostrerebbero di conoscere il loro limite (i ritardi) e dimostrerebbero di metterci buona volontà.
    E la gente saprebbe già che- sì- può darsi anche che il mio treno arrivi in ritardo, ma almeno lo so perché la pubblicità non mi ha venduto un servizio impeccabile.
    Guadagnare in immagine non vuol dire “fare i fighi”. vuol dire essere credibili. Sinceri.

    Non entro nel merito delle scarpe da ginnastica degli estremisti.
    Mi sono permessa prendermi ampio spazio in questo post perché lavoro in pubblicità e ne capisco qualcosa.
    Per gli argomenti meno tecnici e più “filosofici” lascio spazio a chi ha da dire cose più interessanti e profonde.

    Buona giornata e buon lavoro a tutti.
    Valentina

  27. Non credo cara Valentina di esser riuscito a spiegarmi intorno alla credibilità, l’immagine, il guadagno. Il tuo discorso non c’entra per niente. Sì, lo so, conosco l’obiezione (per altro facilmente demolibile), sposto il discorso (io direi che lo centro su ciò che conta, su ciò che sta, l’episteme)in senso filosofico; e che tu non abbia compreso o vuoi fare finta di non comprendere (in buona fede mi sembra di riconoscertelo)è proprio quando ignori che nel tuo discorso c’è una precisa posizione ideologica, filosofica, una tecnica, e l’errore che fai e che è molto comune oggi è proprio quello di ignorare il senso filosofico della tecnica, anche della tecnica pubblicitaria. Non occuparsene – perchè non può essere solo occupazione da filosofi – è segno di caduta nell’abisso di chi fa le cose senza sapere perché le fa e credendo, ahimé, di saperlo!
    E non mi dire che io lo so, quello che io so per certo è che bisogna porsi delle domande e tu non te le poni, almeno nei tuoi commenti non ve n’è traccia!

  28. Ok Valentina, forse sono stato ironico in modo affrettato e in modo poco brillante, e dunque me ne scuso. Il problema, con la pubblicità (parlo di quella in tv, principalmente) è che è maledettamente invasiva, tutto qui. Apprezzo molto i chiarimenti che hai dato, che mi sono serviti per capirci meglio sull’argomento. Non discuto assolutamente il tuo mestiere: lo considero più che onorevole se svolto da persone valide, creative nel senso migliore del termine, con onestà intellettuale. Mi rendo anche conto delle enormi difficoltà del pubblicitario di fronte alla committenza spesso sorda al richiamo della creatività. Per me la pubblicità è spesso un fastidio; e non per colpa della pubblicità in sè (alcuni spot sono molto belli, quello tuo della Peugeot è uno di quelli, per il mio personale gusto.) E’ la quantità di spot che spezzettano il programma che sto guardando, la valanga di spot, che ci sommerge. E’ quello, problema vecchio quasi come il cucco, che Fellini aveva già affrontato un pò da paraculo, all’italiana (Ginger & Fred da una parte, realizzazione di spot veri e propri dall’altra- ma forse si trattava di semplice voglia di esprimersi in un suo momento professionale difficile, può darsi). Ma non possiamo farci nulla. Rimpiangere Carosello è da far ridere i polli. La filosofia… Io, al contrario del coltissimo Luminamenti, penso che un pubblicitario maggiorenne, vaccinato e di valore sappia bene quello che sta facendo e se lo fa con passione, come nel tuo caso, bisogna togliersi il cappello. Anche perchè non sta facendo nulla di criminale.
    Buon lavoro,
    Franz

  29. Io penso che spesso invece non sa cosa sta facendo (ma questo vale per tante altre categorie lavorative, vale per il senso del fare che a me sembra ciò che quando è ininterrottamente cercato e intensificato nella domanda cambia il fare!)
    Mi guardo bene naturalmente da considerare i pubblicitari o altri professionisti dei criminali.
    In tutto quello che ho detto non c’è nessuna idea repressiva, di intolleranza, la pubblicità la guardo (e cerco di pensarla) e difenderei volentieri il suo diritto a questo lavoro che a lei piace. Mi sono limitato (è il limite che permette di vedere come oltrepassare i margini – del mondo dato)a pensare! Con esattezza o meno non so! E’ presto perchè possa comprenderlo rispetto a me stesso. Quando parlo, quando scrivo, quando dialogo cerco di mettere a nudo la mia testa, di spogliarla di ciò che credo di sapere, metto in moto i nervi speculativi

  30. Caro Luminamenti, come diceva Al Pacino nel film “Americani” del 93 (era un cinico venditore di appezzamenti di terreno che non valevano quasi nulla)”qui campiamo tutti strizzandoci il cervello”. Con questa citazione non proprio d’attualità voglio dirle che siamo tutti, qui, nel web, nelle nostre discussioni accese o meno, nella stessa barca. Ciascuno con i suoi strumenti di conoscenza. Per capire e imparare. Mi creda, apprezzo quello che fa, cioè ne apprezzo soprattutto lo spirito, (la leggo spesso con interesse) anche se non di rado non sono d’accordo con quanto lei afferma. Mi piace la sua voglia di capire e spiegare, anche se il suo approccio è diverso dal mio. Non volevo deformare il suo pensiero scrivendo a Valentina, me ne guarderei bene.

  31. è plausibile che chi fa il pubblicitario non stia “facendo nulla di criminale”, altrimenti l’affermazione di Valentina quando scrive di non poter convincere a fare una data cosa, non avrebbe riscontro(precedentemetne ho dato a quel termine una lettura forzata, citando autoritarismo, ecc. per significare che non si convince perché “non si costringe”); rimane il fatto però che chi fa della comunicazione il proprio mestiere esercita, più o meno consapevolmente, un potere: quello di operare sull’immaginario, personale e collettivo, e di improntarlo. la mia impressione è che alla base ci sia un sistema di idee, un orizzonte di senso, e l’abilità stia nel renderlo “il più figo, il più buono, il migliore”. affinché tutti pensino di non poterne fare a meno.
    niente di criminale, per carità! ma non c’è dubbio che in termini di credibilità con Carosello difficile reggere il confronto.

    a Valentina, buon lavoro.

    p.s. una questione sui post: c’è un modo per modificare un post una volta inserito? mi sembra di no, ma per esserene certi…

  32. Cara Anna, tutti esercitano un potere, all’interno delle proprie specifiche mansioni. Non credi? Certo, il “potere” pubblicitario secondo te, credo di capire, è molto forte, pregnante. E io sono d’accordo fino a un certo punto. Valentina l’ha spiegato: non si costringe nessuno. Semmai lo si induce.Ma cosa è la politica oggi, mi chiedo e ti chiedo? E’ non è forse umano cercare di apparire più “fighi”? L’errore è di ridurre tutto alla dimensione unidimensionale dell’edonismo. Si può essere abbastanza fighi e contemporaneamente intelligenti, si può consumare (se possibile con ragionevole moderazione) e pensare con la propria testa. Ti racconto ‘sta cosa personale: se avessi più soldi cercherei di comprarmi una decina di completi e una BMW. La speranza è l’ultima a morire, se vinco alla Lotteria o il mio prossimo libro diventa un bestseller planetario mi compro un pò di azioni di Armani…
    Carosello era un’altra cosa, certo. E io (sono del 60) ci sono cresciuto dentro. Siamo figli degli slogan pubblicitari anche noi quarantenni; e molti di noi quarantenni non sono completamente fessi. Io sono ottimista per le nuove generazioni: non credo che la messe di spot creerà una generazioni di “fenomeni” in senso negativo. Molti spot esprimono più creatività di un intero lungometraggio “impegnato”scandito da 90 minuti di noia. L’impegno verso il pubblico è quello di, prima di tutto, interessare, non annoiando, questo è pacifico.
    Insomma, la pubblicità non è così brutta come la si dipinge. In alto i cuori, ne abbiamo bisogno per fronteggiare nemici veri. Ti seguo con interese. Ciao,
    Franz

  33. Sarei felice di potervi mostrare gli spot che noi pubblicitari riteniamo davvero belli.
    vi rendereste conto di quanto è diverso quello che vorremmo fare da quello che ci tocca fare!

    su una cosa siamo d’accordo: la pianificazione eccessiva , soprattutto in TV, rompe le palle. E’ vero.

    carosello è un dramma per noi creativi, perché ha abituato il cliente italiano ad avere delle “storielle” dietro al prodotto.
    La pubblcità vera invece si sviluppa su dei concetti.

    Ma questa è un discorso tecnico, lungo ed estremamente complesso, e un blog non è il territorio migliore dove approfondirlo.

    Per luminamenti:
    mi scuso, ma non riesco a capire i commenti e le obieziono che mi vengono mosse.
    Sei sicuramente una persona coltissima.
    Abbi pazienza: puoi spiegarmi il tuo punto di vista in modo più facile?

    grazie mille a tutti.
    Torno al lavoro!

  34. Ok Franz, non avevo dubbi sulla tua precisazione, l’ho scritta per valentina, non volevo che la concepisse come un attacco a lei e a ciò che crede di fare, ma piuttosto a ciò che è la pubblicità (che non è ciò che fa).
    Leggo Anna dire “rimane il fatto però che chi fa della comunicazione il proprio mestiere esercita, più o meno consapevolmente, un potere”. Ora non so se Anna quando usa la parola comunicazione intende dire, riferirsi all’idea che la pubblicità è comunicazione. Sarei più cauto nell’uso della parola comunicazione e distinguerei tra trasmissione, comunicazione, tra assenso, dissenso, consenso.Oggi si ripone eccessiva fiducia nella comunicazione e si enfatizza il carattere problematico della comunicazione e del rapporto interlinguistico intersoggettivo. Basta vedere quanti corsi per comunicare meglio e creare comunicatori ci sono in giro; ma si trascura la circostanza che questo carattere problematico del comunicare era al centro dell’attenzione del primo neopositivismo molto prima che spuntassero come i funghi i filosofi del linguaggio. Le prime riflessione neopositiviste di Schlick, Otto Neurath, Rudolf Carnap ci dicono molto bene che il rapporto interlinguistico ha una carattere radicalmente problematico. Neurath diceva: noi non abbiamo alcuna proposizione sacrosanta. Nel linguaggio la possibilità dell’equivoco resta ineliminabile. Figuriamoci se un pubblicitario “sa” cosa comunica!!! Né la prova dell’acquisto di un prodotto o uso di un servizio è prova di ciò che intendeva comunicare il pubblicitario. Può provare altro! Si usa la parola comunicazione poi con una disinvoltura impressionante e credo dica una cosa importante Andrea Zanzotto quando scrive:
    “Il termine usato nel linguaggio tecnico della televisione al posto di “raggiungere”, “servire”, o “coprire” una determina zona è illuminare. Per scalfire, almeno, il muro sordo della non comunicazione, anche ben al di là dell’ambito strettamente televisivo, basterebbe che questo termine fosse preso alla lettera, o meglio nel suo più profondo e antico senso: molto spesso, o quasi sempre anziché per “illuminare” oggi si opera per “allucinare”. Ma non si illumina senza una qualche forma di “ardore”, tanto nella sua immediata e “ingenua” delle accezioni quanto nelle più complesse, che riguardano, infine, il rapporto tra essere unici ed insostituibili, cioè l’amore. Pur con tutte le confusioni possibili in tale modalità di rapporto e nella componente anche oscura e indecifrabile che c’è nell'”ardore” – ma pur sempre necessaria alle connessioni realmente vitali – esso fonda dedizione e oblatività; non impone, non fa violenza, né goffamente o malignamente “seduce”. Appunto illumina”.
    Allora, per venire intorno a quanto dice nel suo ultimo commento Franz, ciò che il Potere, la seduzione esercita non è l’illuminazione ma l’allucinazione! Volontà di potenza.

  35. Scusa Valentina, ho visto solo adesso il tuo messaggio. Non credo di essere tanto colto se non riesco a spiegarmi, magari stasera o domani tenterò d farlo. Il cuore del mio discorso è l’Immagine e il Potere che si esercita su di essa. Con Platone si inaugura questo discorso.
    E ancora oggi noi tutti abbiamo questo problema, con un bel po’ di conseguenze.

  36. Caro Lumina, penso di poter dedurre dal tuo discorso che, nel campo della cosiddetta (con fin troppa disinvoltura, hai ragione) comunicazione, l’illuminazione che tu in un certo senso invochi è quella data dall’arte, diciamo così, senza sottintesi. Per sottintesi io intendo messaggio.
    L’arte per l’arte, dunque? Il contrario dell’arte pubblicitaria (che è arte anch’essa, però,poichè la committenza e la volontà della committenza non inficiano per forza la bontà artistica di un’opera d’arte, in questa fattispecie, pubblicitaria). Ho capito bene? Fammi sapere.
    Io per parte mia la penso in maniera molto semplice, sull’arte: esiste quella buona e quella cattiva, via gli steccati dei generi. Sulla seduttività maligna… Non so, credo che la seduzione abbia in sè qualcosa di negativo per costituzione, qualsiasi tipo di seduzione. Ma c’è anche, da guardare -magari per illuminarsi-l’altra faccia della medaglia.

  37. Allora, parlo da qui: da ex copy+art, e pure brava.
    Dal punto di vista tecnico valentina ha ragione da vendere. Da quello etico invece la spunta lumina (e chi l’avrebbe mai detto:).
    Resta da vedere se i due piani siano separabili. Secondo me no. E infatti io sono ex di un sacco di cose. Resto un consumatore, però, e adesso parlo da qui, da consumatore. Essere critici valentina non consiste nel prendere il telefono e chiamare la peugeot perché ti senti preso per il culo dalla pubblicità. Essere critici vuol dire smetterla di farsi prendere per il culo dalla pubblicità, cioè valutare la sostenibilità del prodotto e del proprio agire, che è sempre politico. Il che significa lasciare la gran parte di voi/noi senza lavoro. La pubblicità è brutta ma i predolini sono buoni. Ok. Mai più senza. Ma cosa c’è dentro. Da dove vengono. Quanto costano. Sono gli unici biscotti sul mercato, o ce ne sono altri. E gli altri sono buoni, o no e cosa c’è dentro, lo stesso? E quanto costano, magari meno perché non hanno pubblicità, magari di più perché sono biologici. E l’imballaggio, come lo smaltiamo, e soprattutto chi ha detto che devo comprare dei biscotti, e magari farne fuori quaranta scatole alla settimana. I biscotti sono necessari? I biscotti sono un piacere? I biscotti sono un ansiolitico? Può esistere un mondo sicuro senza i predolini? Una macchina mi serve veramente? Sono forse un enfant teriblement ciccione in over di predolini e con la gotta a 25 anni? Una bici danneggia la mia immagine, e con il tram non si arriva dappertutto? Ok. Quindi una macchina mi serve veramente. Ma nuova. Davvero? Si? E’ vero che quella vecchia ha già due anni e che il mio vicino di casa ce l’ha nuova di pacca, che è figa che è alta con le tette e che è assolutamente irrinunciabile perchè domina? Ma è poi vero che i SUV uccidono più delle altre macchine perché se investi qualcuno lo becchi più in alto del normale, cioè dritto agli organi vitali? Che lo spappoli? E poi, sui percorsi che faccio d’abitudine, quanto inquina questa macchina, e quanto costano i pezzi di ricambio, e che differenza c’è tra quella e questa e quell’altra? Nessuna, drammaticamente nessuna? Esiste un male minore? No?
    (Non) mi serve: acquisto. M’indebito comunque. Ma a chi giova?
    E infine io, io chi sono. Chi decide la necessità. Cos’è l’informazione pubblicitaria. Chi informa, chi da forma. Chi deforma. Da dove vengono le idee che mi faccio sulle cose, sulla cellulobiscottafigomacchinafelicitosa. Trovami uno slogan dove ci stia dentro tutta, la celluolobiscottafigomacchinafelicitosa. E’ un OGM, sussurra e fa il caffè o appassisce prima? E io insomma, io consumatore, sarò mica e per caso un bersaglio, un obeso e sfigatissimo bersaglio mobile?
    Tra l’altro, vero è che le pubblicità che passano sono brutte. Ma certe no. Certe sono talmente belle che le guardi come un film. Ce n’è una in tv, qui dalle mie parti, con un tipo che ha dei capezzoli stratosferici lunghissimi e a punta, tipo quelli del capitano spock se il capitano spock avesse dei capezzoli al posto delle orecchie. Le donne della pub vanno in visibilio perché sti capezzoli si muovono si arrotolano si attorcigliano e si tendono e bucano le magliette, insomma l’effetto è totalmente trash. Ho visto lo spot parecchie volte divertendomi. Ma giuro che non mi ricordo il prodotto. Insomma un flop:)
    Per franz: il volto del nemico? Guarda in faccia la cellulobiscottafigomacchinafelicitosa. La riconosci perché è nana e patriottica, di destra o di sinistra, importa il 100% d’oppio dall’afganisthan ce lo rifila contro i radicali liberi e resuscita a funerali avvenuti.
    Infine: commercial info virus. C’è un libretto carino sul tema, che si chiama errore di sistema, teorie e pratiche di adbusters, printed by feltrinelli, credo.
    ‘azz la lunghezza è da zibaldone, sorry e Ciauz,valentina non ce l’ho con te.
    gina

  38. Per Gina: a me sta bene che il consumatore si ponga tutte queste domande e cerchi di capire cosa gli serve veramente e cosa no. Perfetto. ne sarei felice. Davvero. Non mi spaventa che la gente si ponga delle domande serie sui reali bisogni che ha.
    Anzi.

    visto che hai fatto questo lavoro sai perfettamente qual è il divario della qualità che vedi sulle nostre TV e l’abisso spaventoso con ciò che si vede a Cannes.
    Io spero, un giorno, di vedere solo spot straordinari e intelligenti. Adesso mi devo sorbire quelli che ci sono.

    Lo spot che citi è vigorsol, e il concetto che vendono è che ti danno un alito ancora più fresco.

    Per franz: LA PUBBLICITA’ NON E’ ARTE! E’ la prima cosa che si impara.
    L’arte è un’altra cosa.
    Io faccio comunicazione e devo lanciare messaggi chiari.
    L’arte va interpretata . La pubblicità deve essere chiara.
    poi, per carità, si ha anche la fortuna di lavorare con registi, attori, fotografi e musicisti davvero in gamba.
    Poter girare uno spot bene, con una bella produzione e una fotografia strordinaria è il sogno di qualsiasi pubblicitario.
    Qualcuno ci riesce anche.

    un bacio a tutti.
    Oggi vado a registrare un radio con dei bambini.
    (Ah! da gennaio una nuova legge proibirà l’utilizzo dei minori in pubblicità. potrebbe essere un argomento interessante da affrontare in futuro)

  39. Gina, hai un bello stile ma non sempre (per me)comprensibile. Non ho capito chi è il nemico, davvero.
    Valentina,ok, la pubblicità SPESSO non è arte. Però lo può essere talvolta, dai!!! Che poi l’arte debba essere interpretata, beh, non è detto.
    Scusate, ma le formule non mi piacciono molto, in generale.
    Ciao,
    franz

  40. Franz, sai perché dico che non può essere arte? Perché qualsiasi tipo di arte, per essere considerata tale, presuppone la libera espressione della creatività dell’artista.
    C’è la sua firma.
    L’espressione di se stesso.
    E’ vero che molte opere d’arte sono state create su committenza- pensa a Michelangelo- molti suoi lavori sono stati realizzati su commissione, gli era imposto il soggetto da rappresentare, ma – di fatto- gli veniva riconosciuta universalmente la paternità dell’opera. Il suo modo di dipingere era amato e riconosciuto come stile suo e solo SUO.

    Mi fa piacere che tu consideri delle pubblicità delle opere d’arte, ma di fatto non conosci gli autori.
    Il nostro diritto di autori è riconosciuto solo all’interno dell’ambito pubblicitario.
    Fuori è il committente, il cliente, ad essere citato, ricordato, nominato.
    Il giorno in cui la pubblicità diventerà arte, mi aspetto di vedere il mio nome in calce al mio spot ogni volta che viene pianificato.
    per noi pubblicitari è motivo di lustro vincere dei premi perché oltre che fare portfolio- e in questo lavoro conta molto- finalmente usciamo allo scoperto e ci viene riconosciuto il merito della creazione.

    Per quel che riguarda il gusto personale e lo stile, anche qui ci sarebbe da discutere, perché devi adattare il tuo lavoro al linguaggio del target e soprattutto- ogni volta- devi affidarti a dei professionisti per “sviluppare” quella che è nata solo come un’idea.
    uno spot girato bene è merito soprattutto del regista al quale mi affido.
    Non è il creativo a girare il film.

    Ribadisco, il fatto che tu consideri alcune pubblicità delle opere d’arte mi fa piacere, ma non confondere un lavoro ben fatto con l’arte.
    L’alta qualità in pubblicità dovrebbe essere una norma, non l’eccezione.

    Un caro saluto e grazie di partecipare in modo così appassionato!
    ciao!

  41. complimenti valentina, si sente la passione, l’impegno, l’amore direi, che versi nel tuo lavoro. La tua “difesa” -se difesa dev’essere la pubblicità -del tuo lavoro è stata, per quanto mi riguarda, molto convincente ed emozionante.
    brava.
    ps: cos’è un brief? ;-P

  42. Allora viviamo proprio dalle stesse parti, valentina. Senza offesa, ma io diffido del candore, soprattutto in questo mestiere che E’ lo sporco impossibile.
    Il fatto è che sei talmente ingenua e simpatica e non scherzo, mia cara, che faccio fatica a crederti.
    Comunque grazie per la dritta sulla vigorsol. Adesso ho capito perché negli ultimi tempi compro megatoni di cicche da offrire ai maschi. E anche perché improvvisamente i loro capezzoli sfondano le felpe. Mica ci avevo fatto caso, alla coincidenza:)
    Il punto è questo, che se il consumatore critica cioè si disintossica oppure comincia a ragionare in termini di “uso personale” e “modica quantità”, tu/lui/io/noi abbiamo smesso di lavorare. Il che non è male perché ci sono un sacco di cose molto più divertenti da fare come ad esempio i commenti sui blog e te ne do atto: va tutto meravigliosamente bene.
    Poi.
    Facciamo pure che tu sia davvero convinta che la pubblicità non è arte, lasciamo per un attimo da parte l’interesse professionale e allora dimmi perché cavolo io consumatore dovrei sborsare dei soldi per un film o una cassetta di spot pubblicitari. Perché sono belli? Perché sono intelligenti? Ma qual è lo scopo di uno spot pubblicitario, qual è il messaggio che porta (praticamente) sempre? Guardami? Contemplami estaticamente? No. COMPRAMI. Io infatti compro un sacco di cicche e adesso ho capito il perché dell’erezione dei capezzoli. Lo spot lavora per questo. E’ creato, calibrato per questo. E allora, io consumatore, sono forse scemo? Godo soffrendo? Pago per entrare all’arena come spettatore ma in realtà mi sbattono nel bel mezzo della fossa con quattrocento leoni che tentano di farmi il culo e io che faccio, apprezzamenti sugli stucchi?
    Naaa. Cambio sala che danno il trumann show.
    Ricambio i baci.

    Per franz: prendi la diretta televisiva sui funerali delle vittime italiane della strage di nassyria a reti unificate con blocco degli spot, scecherala con l’impressione dello spettatore (tv) utente (rai per quel che resta del servizio pubblico) cliente (rai+mediaste ecc) che la pubblicità sia veramente sospesa perché questo è il momento del dolore – che mica si può cazzeggiare coi capezzoli- e dell’informazione che invece è gestita dai giornalisti mica dal reparto marketing. Poi confrontala con quello che è successo in realtà, cioè che per ore è andato in onda un gigantesco, vergognosissimo spot filointerventista, omelia compresa e lacrime asservite, con l’eccezione di la7 mi dicono ma non so e comunque la guardano in pochi. E poi i giornali, e ore e ore di trasmissioni tv prima, e poi ore e ore di trasmissioni tv dopo, il carabiniere con bambino, e tricolori, tricolori ai balconi, tricolori oggi a scanzano, per marcare l’identità. E’ stato un contro 15 febbraio.
    Volevano la legittimazione popolare e l’hanno ottenuta.
    Grazie all’informazione? Alla propaganda? Alla pace? Alla guerra?
    Un buon nemico è dappertutto perché si nasconde bene.
    Taccio per buon gusto sul rapporto tra oppio (afganisthan), pubblicità e radicali liberi.
    Ciao
    gina

  43. Lungo la storia dell’uomo, la festa si realizza in due direzioni (le due direzioni dell’immagine).
    Da un lato, vorrà comprendere sempre più a fondo il significato della vita (cioè il contenuto dell’immagine). Nasceranno così i miti, le filosofie, le scienze. Ma anche, dall’altro, vorrà rendere sempre più potente il proprio essere immagine (la forma dell’immagine): il clima festivo si prolungherà nelle immagini che rievocano la vita: nelle incisioni, nei graffiti, nelle sculture, nelle pitture, negli ornamenti, rafforzando così la potenza salvifica dell’immagine.
    Tale potenza è la radice di ciò che in seguito è stato chiamato “arte”.
    Ma quando l’arte smarrisce il cammino che la unisce alla festa arcaica, diventa superflua.
    L’Occidente si dirige verso il paradiso della tecnica. Ma siamo sicuri che questa forma estrema della salvezza non abbia a sua volta a fallire e che l’Occidente – è il grande pensiero del Leopardi – non si affidi ancora una volta (l’ultima?) all’immagine?
    Beh, la pubblicità appartiene al paradiso della tecnica. Invece è da pensare (ancora) questo pensiero di Kleist, dal suo Teatro delle marionette:
    Il paradiso è sprangato, infatti, e il Cherubino dietro di noi; dobbiamo metterci in viaggio, fare il giro del mondo e vedere se non ci sia per caso un’altra entrata sul retro.

  44. Non potendo avere un post autonomo replico qui un po’ a tutti.

    Vediamo un po’: Tiziano Scarpa trova il mio commento molto generico (cioè risaputo?). Raul Montanari lo trova sconcertante (cioè inaudito?) e mi dà del pubblicitario (come fosse un insulto) poi ricorre all’authority (Giulio Mozzi) perché mi tiri le orecchie (non scherziamo con i Fanti), quindi mi colloca dall’altra parte dello schermo e mi dà del pubblivoro. Valentina Maran ritiene invece che io di pubblicità non sappia assolutamente nulla e trova anche che attacchi i creativi (questo è davvero sconcertante: tutt’al più avrò detto male dei creativi pentiti e di quelli megalomani) contraddicendo l’amico Raul (se sono un nemico dei creativi e non li conosco non posso essere né pubblicitario né pubblivoro) e soprattutto senza rendersi conto di essere perfettamente d’accordo col mio assunto di fondo (il Beltè si vende da solo).
    L’unica cosa chiara è che ognuno ha visto quel che gli pareva (e questo per l’estensore può essere il segno della grandezza come della totale incapacità di comunicare).

    A questo punto dovrei spiegare ai miei gentili interlocutori perché ho scritto questo pezzo. Raccontare che a un certo punto ho cominciato a sentirmi perseguitato da un litania: persone tra le più disparate, per diversi e a volte opposti motivi, si trovavano d’accordo nell’indicare la pubblicità come il Male, la grande (e Nuova, Nuovissima) causa d’ogni guaio. Confessare che non ho resistito alla tentazione di disegnare delle caricature, di mettere in burla, con le esagerazioni e la mancanza di sfumature proprie della caricatura, alcuni di questi “avversari”. Precisare che non ho nulla contro la maggior parte degli scrittori, dei professori di liceo e di qualsiasi altra categoria (trovandomi così nella ridicola situazione di “spiegare” a scrittori e a gente della comunicazione che una caricatura è meno efficace se invece di “gli” si scrive “alcuni” o “il 3,5% dei”). Rammentare che i presenti (sia pur virtuali) sono esclusi per definizione. Definire la mia posizione (amo la pubblicità e l’ho anche fatta, credo che possa essere una forma d’arte ma sono molto scettico sulle sue epocali possibilità di influenza).

    Insomma, star qui a chiarire, quasi col cappello in mano. Ma no, vedeteci quel che vi aggrada. Se qualcuno si riscalda tanto si sarà riconosciuto.

    Solo una considerazione per Montanari (che se continua con questi toni verrà rubricato d’ufficio nella tremenda categoria degli Indignati speciali): è giusto e utile (come ha fatto) differenziare storicamente ogni fase di qualsiasi campo del pensiero e dell’attività umana. “Trovare la differenza”, individuare quelle piccole (e inizialmente non percepibili dai più) differenze in cui consiste la vita, è uno dei compiti principali degli scrittori. Ma altrettanto utile, forse più fecondo (e anche questo compito precipuo degli scrittori) individuare la linea sottile che unisce, il basso continuo, la sostanziale identità dei moventi e delle azioni umane. Ricordare (tanto per restare a Kubrick) che l’astronave è già nella clava. Che nulla è mai veramente Nuovo.

  45. Ciao Gina, ora ho capito tutto. Grazie.Il “nemico” è comune.
    Ciao Vale, sei davvero simpatica. L’arte è arte. Stop.
    A capo.
    A parte il telegrafo, hai ragione, si, ma diciamo che la pubblicità può essere arte, in alcuni casi. Arte collettiva. Con un committente. Dai che così va bene!!! Il cinema è arte collettiva. Alla storia passa il nome del regista (se è famoso) e degli attori. Spesso gli sceneggiatori (l’ossatura del cinema) non se li fila nessuno. Spesso ,o sceneggiatore è il vero autore del film,ma è il regista che si prende il merito, o il demerito.
    Capitolo musica leggera: ecco il solito discorso: sentito quel pezzo di Mina? Mina non ha mai scritto un brano in vita sua (o forse 1 o 2 testi), ma insomma, l’autore delle canzone e l’interprete vengono costantemente confusi. Dove sto andando a parare? Al fatto che ci sono anche i ghost writers. (Io non ghostizzo nisba, però, firmo a mio krautennome). Vale, sono mezzo crucco ma non sono scemo… Lo so che non è il creativo a girare il film. Tu sei lo sceneggiatore, right? E in più sei lo sceneggiatore di un film (mini) del quale nessuno saprà nemmeno il nome del regista, nessuno del pubblico intendo. Siamo pratici, sei una sceneggiatrice di spot, cioè di mini film. Parliamo di cinema e pubblicità? Parliamo di Ridley? Sono tutt’orecchi, ovviamente per imparare.
    Ciao,
    Franz

  46. Ma certo! “Ciascuno ha le sue visioni” direbbe Qualcuno. Secondo me Elio Paoloni è molto bravo e Piramidi, il suo libro della Sironi Editore è un libro molto interessante e originale. (No, visto che si parla di pubblicità… approfittiamone). Quella cosa che dice nel post più sopra sugli ‘gli’ scrittori e non il ‘3,5 % di’ è fantastica ed è una affermazione sincera e assolutamente ‘da scrittore’. Non se ne può più con tutti questi scrittori ‘esperti di settore’: ma sì, bravo, bravo… Ma io da uno ‘scrittore’ mi aspetto qualcosa di più che una semplice spieganzioncella divulgativa per ignorantelli che non sanno cos’è la pubblicità. Mi fa piacere che Raul al quale chiedo scusa se l’ho offeso così tanto per l’attacco sull’entimema e sul fatto delle dimissioni (…ma dai! secondo te ‘ci si dimette da fare gli scrittori? Era uno scherzo! – almeno all’inizio, dopo la presa di posizione di Tiziano e Valentina che mi hanno offeso – e voglio fare l’offeso, oh!…) sia esperto di markenting ma… Abbiamo visto che Valentina Maran ne sa tantissimo di pubblicità. Abbiamo visto che Gina ne sa tantissimo. Che Luminamenti è coltissimo. Che io addirittura sono un megalomane postnarciso naziskin che ‘si fa’, ‘diventa’ lui stesso pubblicità. Allora perchè ostinarsi a spiegare, a chiarire cose che più o meno sanno tutti?. Già, perchè diciamolo: qui su NI viene un pubblico di persone molto preparate o comunque preparate, non vengono persone che hanno bisogno di essere pedagogicamente informate e basta. Ripeto: va benissimo informare e dire e fare e NI è una figata e voi stessi che la fate non sapete nemmeno quanto… Però non ci si può limitare a dire cose risapute – a tenere una lezioncella. Semmai è meglio attaccare queste cose che più o meno sanno tutti – come secondo me fa Paoloni. Ecco cosa mi aspetto dalla esperienza di Raul: che sia un esperto di settore + la sensibilità dello scrittore – che è ribaltamento, provocazione, casino.
    O no?
    Visto che ho cominciato mi sembra giusto finire. E finiamo con un sorriso, eh?
    Tutto bene quel finisce Bene.
    (…applaudite pure…)

  47. Certe volte, rileggendo i miei interventi sproloquianti non capisco se sono comici e basta oppure sono involontariamente comici. Voi che siete esperti di pubblicità, cosa ne dite?
    Vabbè.
    Qui siamo in cinque davanti al computer. Vi salutano Giacomo, Gianfranco, Elena, Maura e Gianluca.
    Ciao!

  48. Marco Candida ogni giorno mi diviene più simpatico…e più intelligente…
    Caro Marco, però la pedagogia è morta da tempo!
    E l’uso di Internet, ancora in Italia, è molto limitato! Non voglio nemmeno accennare ai motivi ma solo ai responsabili principali: quelli, i miei amici di sinistra! (l’ultima volta che sono stati al governo hanno non solo perso una grande occasione ma hanno ragionato esattamente come quelli di destra, hanno fatto il possibile per bloccare l’emancipazione e la libertà e non certo perché non conoscano la potenza del mezzo). Io, con loro, ho sciolto il mio vincolo di sangue (naturalmente non penso di farlo con qualcun altro da altro lato!).
    Elio Paoloni è un ottimo scrittore, una persona acuta. Lo leggo sempre per apprendere.

  49. Caro Paoloni, rubricare quello che ho scritto come sfogo (lei questo non lo ha detto) di un “Indignato speciale” mi sembra un pochino ingeneroso.
    Io ho preso molto, molto sul serio il suo pezzo. Il tono era ironico, o piuttosto sarcastico; gli argomenti rivelavano una penna intelligente e molto competente che si stava esercitando a fare deliberatamente, per gioco o per passione dialettica, un po’ di confusione fra vari concetti.
    Le ho risposto con un pezzo di quasi 15 cartelle. Se avessi voluto solo prenderla in giro o fare l’indignato mi sarei fermato alla replica “per le rime” (in senso concettuale): 4 categorie di nemici della pubblicità, 4 categorie di pubblicitari, peraltro, come ognuno può vedere, molto molto rispettose dell’intelligenza e della dignità dei pubblicitari stessi.
    Sono sicuro che lei ha letto con attenzione On Advertising 2, quindi non faccia finta di averci trovato l’analisi di “piccole e inizialmente non percepibili differenze”. La differenza fra un’iscrizione romana e uno spot della Nike non è piccola, è gigantesca: il mondo intorno è completamente cambiato. E poi, “percepibile” da chi? Il calzolaio della via Appia doveva “percepire” una differenza fra quello che faceva lui e quello che sarebbe avvenuto venti secoli dopo? Questo passaggio non mi è chiaro.
    Proprio perché la pubblicità è un vero crossover, sta al centro di molte strade: il mercato, da cui nasce e di cui è una funzione; la comunicazione, i media; la creatività individuale, comunque la si voglia definire; l’arte, alla quale è contigua perché spesso usa tecniche identiche, o addirittura le anticipa.
    Io ho piacere di essere preso sul serio, quando parlo, per cui prendere sul serio gli altri mi sembra un dovere.
    Non ho fissato nessun “compito precipuo” per i pubblicitari, e non amo che se ne fissino per gli scrittori. Questo vale anche per l’osservazione di Marco, che non è affatto banale: se il tono “didattico” (o magari saggistico) del mio pezzo lo ha disturbato, rispondo che non capisco perché non posso scegliere il mezzo che voglio, per rispondere nel modo più efficace a qualcosa che mi ha stimolato; Candida ha una sua idea di ciò che uno scrittore dovrebbe fare, e preferirebbe, poniamo, una risposta più in linea con la vocazione artistica dello scrittore? Be’, c’è: il brano di On advertising 1.
    Nell’articolo, tornando a quello che sto dicendo a Paoloni, mi dichiaro ripetutamente d’accordo con lei su una serie di argomenti nei quali la sua competenza e la sua visione dall’interno (come quella di Valentina) fanno sacrosanta tabula rasa in due parole di miti (Carosello, quando sia inteso solo nell’accezione nostalgica) e pregiudizi (le amenità di Packard e tutta la linea che, se lei è d’accordo, potremmo definire “pubblicatastrofista”).
    Finisco il pezzo con una sezione dedicata alla questione dell’arte, in cui dico chiaro e tondo che se la si mette sul piano della genialità, dell’inventiva, ci sono un sacco di comunicazioni pubblicitarie che danno la birra a poesie, romanzi, racconti, film ecc.
    Semplicemente, come conferma anche Valentina, l’arte è un’altra cosa. Uno può essere un artista mediocre, mediocrissimo, e avere diritto alla definizione di artista perché le sciocchezze che crea le crea in libertà; un altro può essere l’Annamaria Testa di “Liscia, gassata o Ferrarelle”, cioè evidentemente una persona dalle doti inventive straordinarie, ma non essere un “artista”: fa un altro mestiere, tutto qui. Quando Annamaria Testa o Elio Paoloni scrivono dei libri, belli o brutti che siano, devono essere giudicati e accolti con altri parametri; in quel momento non sono pubblicitari, sono scrittori. Non so cosa è meglio dei due: so solo che sono due atteggiamenti creativi diversi.
    La saluto, e sono sicuro che al di là del tono, della polemica e di tutto il resto ci siamo capiti benissimo.
    Grazie di cuore a tutti quelli che sono intervenuti nella colonna dei commenti, e ne hanno fatto uno dei luoghi più interessanti di NI in questi ultimi tempi!

  50. Caro Raul, gli atteggiamenti creativi tra pubblicitario e artista senza vincoli sono diversi, hai ragione. Il concetto (che è un dubbio) più che altro, che ho espresso anche a Valentina Maran nel corso della discussione, è che anche la pubblicità PUO’ essere arte. Vado oltre: può essere arte, credo, tutto quello che proviene dalla creatività umana (in piena libertà, costretta dalle pastoie di una committenza, collettivamente)se viene riconosciuta come tale. Volevo arrivare qui, è l’unica parte del tuo discorso sulla pubblicità che non mi convince appieno. Per me (e sottolineo per me) viene riconosciuta (da me) come arte (o gesto artistico, diciamo performance)anche un’azione di Maradona. Per me, Maradona è stato un artista. Non a suo modo: lo è stato proprio. Allo stesso modo, una canzone (scritta da tizio su commissione di caio e interpretata da sempronio) è un’opera d’arte se io la riconosco come tale. E così per me può essere un’opera d’arte uno spot pubblicitario particormente geniale se io lo riconosco come espressione artistica. E’ un concetto, non è una certezza.
    Se vuoi, fammi sapere che ne pensi.

  51. Dici una cosa cruciale, perché la rovesciata di Maradona è proprio quello che io NON chiamerei arte.
    L’arte è un gesto totale e libero di impossessamento del mondo, con una fortissima vocazione critica: Maradona può esprimere solo una concentrazione di bellezza e gioia con la sua rovesciata.
    Capisci cosa cerco di dire? Secondo me la rovesciata di Maradona rappresenta proprio quello che vorrei evitare, cioè una estensione metaforica incontrollabile del concetto di arte, per cui arte = una cosa bella, fatta bene.
    A questa stregua, ci sono sicuramente dei torturatori che sono artisti. Il primo che ha pensato di usare gli elettrodi è stato un artista: una tortura efficace, pulita, poco faticosa per il carnefice, che spesso non lascia segni visibili. E quello che ha inventato la tortura cinese della goccia? Michelangelo, fatti in là!
    Ma vogliamo parlare di chi ha inventato la valvola, il giunto cardanico, la vite senza fine? Tutti artisti!
    Il grande chef non è forse un artista? Massì, dentro anche lui!
    Vogliamo parlare del fucile a retrocarica? Un’opera d’arte! Ecc. ecc.
    Sono tutti casi in cui la parola artista (e arte) viene usata in senso metaforico. Va benissimo per un commento volante, ma qui stiamo discutendo proprio di questo, stiamo facendo delle distinzioni.
    Ehi, intanto di là si è scatenato un pandemonio…
    Un abbraccio a Franz.

  52. Ok, capito. Michelangelo Vissani non è un artista… A parte gli scherzi, sono perfettamente d’accordo sulle distinzioni.
    Ma non mi sognerei mai di parlare di arte o di cosa artistica per un fucile a retrocarica.Per non parlare delle torture. Parlavo del bello che si fa arte. Fai bene a fare delle distinzioni, comunque. Forse sono troppo generoso nelle mie attestazioni di artisticità.
    Grazie,
    un abbraccio.

  53. – La differenza fra un’iscrizione romana e uno spot della Nike non è piccola, è gigantesca: il mondo intorno è completamente cambiato. E poi, “percepibile” da chi? Il calzolaio della via Appia doveva “percepire” una differenza fra quello che faceva lui e quello che sarebbe avvenuto venti secoli dopo? Questo passaggio non mi è chiaro. –

    Lo chiarisco, caro Montanari.
    Ritengo che vi siano due atteggiamenti fondamentali nei confronti della storia: uno teso all’individuazione delle differenze, di tutto ciò che rende ogni situazione sempre diversa (le vicende si ripresentano in vesti sempre nuove, forse non solo nelle due categorie canoniche della tragedia e della commedia). Differenze facili da cogliere per i posteri ma che nella fase iniziale sembrano essere percepite solo da pochi, essenzialmente dagli scrittori. Non mi riferivo ai pubblicitari, anche se, a ben vedere, sono proprio loro, forse, ad aver assunto la funzione di “annusatori” e quindi molto pronti, più dei sociologi, più degli studiosi, a percepire il nuovo. Uno scrittore potrebbe restare adagiato sulle ideologie, un docente di sociologia continare a stiracchiare vecchie categorie, ma loro no. Ne va del loro stipendio.
    Il secondo atteggiamento è quello di chi si sforza di rintracciare, nel caos delle vicende umane, il dispiegarsi delle stesse passioni, dei medesimi comportamenti. Non credo che siano così poco chiare le parole che ho usato: “individuare la linea sottile che unisce, il basso continuo, la sostanziale identità dei moventi e delle azioni umane. Ricordare (tanto per restare a Kubrick) che l’astronave è già nella clava. Che nulla è mai veramente Nuovo”.
    Ma chiarisco ulteriormente: il nuovo non è che la preponderanza assunta, di volta in volta, da una caratteristica che è sempre stata presente, almeno allo stato embrionale, in qualsiasi altra epoca.

    In effetti, come dice Marco Candida, il tuo intervento (“ve la do io la pubblicità”) aveva l’aria di spiegare (non solo a me) quello che io ho volutamente messo da parte (per concentrarmi su caratteristiche comuni a un passato davvero ignorato).

    Sul resto siamo d’accordo. Anzi, no: anch’io, come Franz K. sono convinto che la pubblicità POSSA essere arte. Non si tratta certo, come ben dici, di “cosa bella, fatta bene”. Non è questo il punto. E non voglio neppure ricorrere all’idea di arte di Carmelo Bene, alle sue parole (delizioso il suo libro con Ghezzi sul calcio) su Van Basten.
    Il fatto è che le arti, come certe discipline sportive, diventano tali quando un Comitato Internazionale decide di accoglierle (ricordate la fotografia? e il cinema?)
    La tua definizione di arte (gesto totale e libero di impossessamento del mondo, con una fortissima vocazione critica) è sicuramente tra le migliori. Se dovessimo, però, irrigidirci su quel “libero”, dovremmo buttarne a mare parecchia, di roba. Divertiti a pensare al modo in cui un papa o un cardinale si rivolgevano ai maggiori tra i “produttori” d’arte. Si trattava di lanciare nei modi più acconci (con il solo media disponibile) un messaggio al popolo, un monito perpetuo ben più efficace della volatile predica. Il “tema” era predeterminato. Il target, troppo ampio, costringeva all’immediatezza, alla comprensibilità almeno delle caratteristiche più evidenti. Il creativo, sotto contratto, era investito da una missione, se non da una mission. Il committente era sempre tra i piedi, con la sua rozzezza, la sua incompetenza, la sua tirchieria. Le nudità, ma anche gli oggetti e le allegorie non ortodosse, erano spesso censurati dall’organo di disciplina. E quando un cartellone aveva esaurito la sua funzione, quando quel messaggio non era più trend (magari c’era stata una Riforma di mezzo), una mano d’intonaco e via con una nuova agenzia. Le campagne, s’intende, erano spesso declinate.
    Ci sarebbero considerazioni più serie: l’artista del secolo era un grafico fallito, un pubblicitario spiantato. Se, invece di finire nelle gallerie d’arte a causa di imperscrutabili cooptazioni, i suoi pacchiani cartelloni in serie – prodotti dai co-co-nonco della Factory – fossero finiti per strada a far vendere maglieria come li avremmo definiti? La “vocazione critica” ci sarebbe stata in ogni caso? Bada che non ho risposte.

  54. Scusami se ti rispondo solo adesso, non mi ero accorto che si era aggiunto un altro commento alla colonna!
    Al di là dell’accordo o del disaccordo sono in sintonia con il tono della tua analisi.
    Forse l’unico punto su cui dissento ancora è l’esempio dell’arte commissionata di molti (o pochi) secoli fa: ancora una volta, voglio dirti che le cose sono cambiate.
    Haydn ha composto per tutta la vita una musica da cortigiano. Non era un artista? Certo che sì. Quando chiede al suo padrone libertà per gli orchestrali, lo fa con la grazia incredibile della Sinfonia n. 45 “degli addii”. Mozart sta a metà: viene preso a calci nel sedere da un aristocratico salisburghese, se ne va, comincia a emanciparsi. Fallisce nel tentativo di avere successo, di mantenere un contatto con lo stesso pubblico che lo applaudiva quando la sua immagine era principalmente quella del giovane strumentista virtuoso: crepa male, lo cacciano in una fossa comune. Quelli che ascoltano Mozart adesso e lo trovano piacevole e brillante, e lo contrappongono all'”inascoltabile” musica contemporanea, sono gli stessi che allora lo chiamavano “nasone cacciatore di dissonanze” e che lo hanno fatto morire come un cane rognoso. Con Beethoven e Schubert tutto cambia. Sono artisti borghesi. Sono liberi. Possono fare una marchetta ogni tanto (anch’io ne faccio, nel mio piccolo), ma il nucleo centrale della loro scrittura musicale nasce dal famoso “libero impossessamento del mondo”. Da allora, niente è stato più come prima.
    Quello che voglio dire, caro Elio, è che anche in questo caso, come in quello delle iscrizioni romane, ho l’impressione che tu sottovaluti il peso enorme che il contesto storico mutato e le mutatissime aspettative nei confronti della libertà dell’espressione devono avere, nella nostra valutazione di cosa è arte o non lo è.
    Approfitto dell’occasione per mandarti una virtuale stretta di mano (prima o poi ce la daremo in carne e ossa) e dirti che sono contento di parlare con te di queste cose.

  55. Anch’io sono distratto: ho avuto il tempo solo ora di rileggere attentamente il tuo lungo post e ho notato in una parte della tua analisi un punto discutibile. Mi riferisco al “salto” tra il meccanismo identificativo e quello proiettivo.
    Se le maneggiaspazzoloni degli spot sono divenute superdonne il motivo è molto semplice: le casalinghe non c’erano più e quelle rimaste non volevano cedere neanche un punto alle “altre”. Palestra, parrucchiere, trucco, diete, sono divenute patrimonio di ogni donna. Queste nuove casalinghe (o casalinghe a mezzo servizio) non si identificavano più con la massaia di Voghera. Anche qui è la comunicazione pubblicitaria che segue, come le salmerie.
    Ma non c’è solo questo, tu dici. Il punto è che queste supergnocche sono irrealistiche: le donne comuni non sono così. Giusto. Il meccanismo, dunque, è proiettivo, cioè del tutto diverso, un processo che nasce negli anni novanta. Ne siamo certi? Tu hai mai conosciuto una massaia così dolce, perfetta, rassegnata, instancabile, come quelle della pubblicità del decennio precedente? Non credo: anche quello era un modello idealizzato. E’ più difficile considerarlo ideale, certo, ma solo perché è più dimesso, apparentemente più comune. Ci vuole uno sforzo maggiore, specie da parte di un uomo, per percepire quelle donne come un modello inseguito affannosamente, con tutto il corredo di frustrazioni e di nevrosi che questo comporta. Fare la santa, in fondo, è più difficile che fare la mondana.
    Concludendo: il modello precedente comportava la sua buona dose di proiezione e quello successivo conserva una forte componente di identificazione .
    Temo, e questo è il senso di tutti i miei interventi, che certe distinzioni siano una necessità (o una comodità) di cui si finisce per abusare. E il passo successivo, quando si comincia ad adagiarsi troppo in questi schematismi (ma non mi riferisco a te) è quello di credere che certi salti siano in qualche modo imposti, dai tecnici della comunicazione o da chissà quali regie occulte.

    Sarò lieto di stringerti la mano appena si presenterà l’occasione.

  56. Anch’io non dispongo sempre dell’attenzione necessaria: solo ora ho avuto il tempo di rileggere attentamente il tuo lungo post e ho notato un punto che si presta perfettamente all’illustrazione del mio pensiero.
    Mi riferisco al “salto” tra il meccanismo identificativo e quello proiettivo.
    Se le maneggiaspazzoloni degli spot sono divenute superdonne il motivo è molto semplice: le casalinghe non c’erano più e quelle rimaste non volevano cedere neanche un punto alle “altre”. Palestra, parrucchiere, trucco, diete, sono divenute patrimonio di ogni donna. Queste nuove casalinghe (o casalinghe a mezzo servizio) non si identificavano più con la massaia di Voghera. Anche qui è la comunicazione pubblicitaria che segue, come le salmerie.
    Ma non c’è solo questo, tu dici. Il punto è che queste supergnocche sono irrealistiche: le donne comuni non sono così. Giusto. Il meccanismo, dunque, è proiettivo, cioè del tutto diverso, un processo che nasce negli anni novanta. Ne siamo certi? Tu hai mai conosciuto una massaia così dolce, perfetta, rassegnata, instancabile, come quelle della pubblicità del decennio precedente? Non credo: anche quello era un modello idealizzato. E’ più difficile considerarlo ideale, certo, ma solo perché è più dimesso, apparentemente più comune. Ci vuole uno sforzo maggiore, specie da parte di un uomo, per percepire quelle donne come un modello inseguito affannosamente, con tutto il corredo di frustrazioni e di nevrosi che questo comporta. Fare la santa, in fondo, è più difficile che fare la mondana.
    Concludendo: il modello precedente comportava la sua buona dose di proiezione e quello successivo conserva una forte componente di identificazione (le donne si “vedono” così).
    Temo, e questo è il senso di tutti i miei interventi, che certe distinzioni siano una necessità (o una comodità) di cui si finisce per abusare. E il passo successivo, quando si comincia ad adagiarsi troppo in questi schematismi (ma non mi riferisco a te) è quello di credere che certi salti siano in qualche modo imposti, dai tecnici della comunicazione o da chissà quali regie occulte.

    Sarò lietissimo di stringerti la mano appena si presenterà l’occasione.

  57. Carissimo Elio, sei un seduttore! Hai postato per sbaglio due versioni del tuo intervento, e nella seconda si notano un paio di correzioni (all’inizio e alla fine) che vanno nella direzione della gentilezza, di un tono più amichevole, di un mitigarsi definitivo della polemica. Mi fa veramente piacere, e mi ha fatto anche molto sorridere.
    Credo che possiamo concludere lasciando aperte le poche questioni sulle quali non siamo completamente d’accordo.
    Io ti dico solo una cosa, e te la dico in forma di domanda assolutamente non retorica.
    Proviamo a considerare questi fatti:
    1. C’è una comunicazione che nel complesso rappresenta la housewife in modo radicalmente diverso da come faceva quindici anni fa.
    2. E’ ovvio che questa comunicazione non nasce dal nulla: ci sono ricerche sugli stili di vita che suggeriscono questa modificazione nel comportamento e nell’immagine di sé della nostra massaia.
    3. Io però dico una cosa. Le massaie che conosco io assomigliano molto di più a quelle di Carosello che a quelle degli spot di ora. Lo dico senza nessuna pretesa scientifica. Certo, molte donne vanno in palestra, dedicano al proprio sacrosanto narcisismo più attenzione e più energie. Certo, le casalinghe degli anni ’80 non erano al 100% “rassegnate” come le rappresentava Carosello. Però io mi guardo intorno e ne vedo ancora tante, ma tante, ma tante, più o meno così. La donna palestrata che è ben felice di fare le pulizie in tre secondi e un quarto per poi uscire a fare shopping con le amiche la vedo molto in realtà urbane come Milano, e la vedo molto come donna che lavora, che paradossalmente avrebbe meno tempo della “casalinga” per dedicarsi a sé stessa, e invece si sforza di farlo perché questo è il portato di tutta una visione più dinamica della sua vita, della sua giornata.
    Ma tanto per cominciare non vedo niente o poco di tutto questo in certe fasce di età, come le over 50, che numericamente contano tantissimo e che vedo intorno a me al supermercato; in secondo luogo, non vedo niente, e qui dico proprio niente, di tutto questo in certe realtà provinciali come quella del paesello dove sono nato, sul lago d’Iseo, dove torno spesso. Le casalinghe che vedo lì mi sembrano quelle di Carosello, che guardano attonite, in tv, la rappresentazione di un mondo avveniristico dal quale sanno che le loro vite non verranno mai toccate.
    Allora la domanda, caro Elio, che proprio perché non è per niente retorica può benissimo restare senza una risposta, come semplice indicazione di un problema, del sospetto di una contraddizione: davvero le indagini di mercato ci dicono la verità? Davvero gli stili di vita si sono così tanto modificati, davvero la casalinga di Voghera di arbasiniana memoria non esiste quasi più?
    Io ho spesso la sensazione che il mondo si muova più lentamente, che la percezione di sé che hanno le persone (almeno a partire da una certa generazione… ma questo sarebbe un discorso ancora più complesso), i loro atteggiamenti e comportamenti, siano molto più conformisti, ripetitivi, ancorati al passato, rispetto alla rappresentazione del mondo che dà molta della comunicazione mediatica.
    Sto facendo una semplice descrizione: non dico né che sarebbe meglio che le casalinghe classiche sparissero del tutto, né che il mondo “moderno” è orribile, con i suoi ritmi, la sua ossessione dell’apparire, ecc. Ti riferisco solo un disagio che trovo in molti altri osservatori, la sensazione che certe cose che si annusano partendo semplicemente dalla propria esperienza personale (specie quando è in un certo senso privilegiata come la mia, con un piede in città e uno in provincia) contraddicano a volte gli esiti di ricerche che pure, senza dubbio, hanno uno status di scientificità che sensazioni, annusamenti e impressioni personali non hanno.
    Non capita anche a te di avere questi dubbi, di provare questo disagio? O, più semplicemente, di pensare che il milieu in cui vivono gli operatori della pubblicità (un universo quasi sempre fatto da una grande città, da consumi culturali importanti, da atteggiamenti e comportamenti disinibiti, da punti di riferimento molto avanzati) in qualche modo influenzi la loro visione del mondo in generale, la distorca (non in misura eccessiva, si capisce, ma significativa) spostandola verso il futuro, elevi a comportamenti generalizzati quelli che poi, numeri alla mano, sono ancora minoritari, o perlomeno non sono COSI’ generalizzati?
    Ti saluto davvero con molta simpatia. Capisco sempre più la stima di cui sei circondato anche da molti frequentatori di NI.
    Raul

  58. Eh, sì, la prima versione deve aver vagato nella rete per ore.
    La risposta è sì. Anche se andrebbe approfondito il discorso fasce di età. Va detto anche che, tenendo conto di quello che sono stati i nostri paeselli (sono ancora vivi, nel mio, personaggi verghiani), nel complesso questa funzione della P. è stata positiva. La tensione verso il futuro è in fondo nel segno dell’emancipazione.
    A questo punto, per rispettare la progressione, dovremmo salutarci lingua in bocca.
    Soprassediamo.

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