La resistenza della letteratura #2

di Christian Raimo

images.jpg L’articolo sfogo sulla Resistenza nel mondo dei libri che ho scritto qualche giorno fa ha generato un cumulo di reazioni, molte assolutamente adesive, altre assolutamente offese. Persone a cui voglio bene mi hanno tolto il saluto. La colpa è stata in gran parte mia che ho sparato alzo zero, sapendo di insolentire alcuni. Ma la mia idea utopistica era che, scagliando in maniera violenta e sintetica queste affermazioni, si potesse trovare una tensione fruttifera, una dialettica non falsa di scontro. Per questo, ma non solo per questo (anche e soprattutto per rendere quella che può essere sembrata una polemica personale una prospettiva di dibattito), provo a contestualizzare, a correggere, e ad ampliare alcune questioni.

0) La prospettiva con cui vedo il mondo culturale assomiglia a una sorta di sguardo bianciardiano, che non è quello di una purezza idealistica ed (etero-)(auto-)lesionista all’interno di un ambiente di persone compromesse che però sono pratiche e professionali quando pensano nei termini di impresa. La rabbia che muove il protagonista della Vita Agra è quella di una fedeltà a un massimalismo di fondo, certo; ma questo massimalismo non si nutre del proprio orgoglio ma di valori molto schierati, facendo valere un principio critico (e autocritico) verso ciò che vorrebbe fosse migliore, semplicemente perché sa che potrebbe essere migliore.

1) L’attacco che facevo alla casa editrice Fazi non era un attacco ad personam o ad personas, ma voleva svolgersi come discorso emblematico. Come in molti gli ambienti di lavoro, anche nelle case editrici esistono comportamenti di favoritismo, di pressione psicologica, di sfruttamento, di mancanza di rispetto. Persino di quelle che hanno fatto materialmente la storia culturale di Italia si potrebbero raccontare mille episodi poco edificanti (cedadirlo? il rapporto tra Einaudi e i suoi redattori – che si chiamavano Calvino, Mila, Vittorini – non era sempre quello di un principe illuminato, e lo stesso discorso può valere per Calasso, Laterza, Bollati…); ma fa comunque male vedere con i propri occhi o sentirsi raccontare come una logica che – per approssimazione – chiamo aziendalistica si applichi all’interno di un gruppo che si occupa dell’elaborazione della cultura.

[Per dire: anche all’Einaudi (refero i relata di chi ci ha lavorato) qualche anno fa c’è stata l’invasione dei co.co.co e questi co.co.co. lavoravano fianco a fianco con le persone a contratto a tempo indeterminato. Finché qualcuno di questi co3 ha reclamato della circostanza che, stando nella stessa stanza, usando gli stessi computer, redigendo gli stessi libri, in pratica svolgendo lo stesso tipo di lavoro degli assunti stabilmente, non usufruiva della stessa considerazione (e posizione contrattuale). E l’istanza è arrivata in tribunale, dove gli è stato dato ragione: l’Einaudi ha dovuto pagare. A quel punto in casa editrice hanno avuto una splendida idea di far lavorare gli interinali tutti insieme da una parte e gli atempoindeterminato tutti assieme in altre stanze: era stato stupido non pensarci prima no? In questo modo non si aveva un miglioramento del turn over ai computer, una migliore organizzazione del lavoro? e i co.co.co non potevano finalmente approfondire la propria inestimabile ricchezza di cococoness in un confronto costante con tutti coloro che si trovavano in questa posizione?]

L’attacco alla casa editrice Fazi era un attacco personale perché quello che racconto l’ho vissuto in prima persona, ma non ero io l’unico che si è sentito umiliato professionalmente, che pensava di trovare un ambiente di confronto culturale e si è visto invece spesso frustrare queste ambizioni. Parlo di me e non di altri per pura questione di presa di responsabilità. Lo dico non perché quell’ambiente fosse particolarmente invivibile. Mi ricordo però che da piccoli gesti in cui si ribadiva in maniera forte l’impostazione aziendalistica ad alcune scelte non certo marginali come quella di editare un’intera collana di libri new-economy (che in parte è vero mettevano in ridicolo questa pseudo-ideologia, ma in altra buona parte ne facevano l’elegia), oppure come l’altra di pubblicare (ossia fare soldi con) un libro su Osama Bin Laden all’indomani dell’11/9 facendo un cut&paste di file presi da internet e appiccicandoci una prefazione risibile, da tutto questo veniva fuori un’impostazione, un codice di valori di riferimento che non era il mio (e non era quello di molte altre persone che hanno deciso o sono state costrette a non lavorare più lì).

Quando cito – e può sembrare una boutade di bassa lega – il signor Fazi che si mangia il panino mentre io gli comunico la mia volontà di non lavorare più nella sua casa editrice, avevo in testa l’importanza di un gesto nella definizione di uno stile: con quel gesto Elido Fazi, per distrazione? per inerzia?, stava a dirmi a) che non aveva nessuna intenzione a convincermi a restare, b) che non aveva troppo tempo da dedicarmi per ringraziarmi almeno formalmente del lavoro che avevo fatto, c) che il mio contributo era perfettamente sostituibile dal contributo di altre persone – in un mercato del lavoro brado dove di giovani laureati in lettere con la passione dei libri ce ne sono intere masse alla sbando. La mia pretesa mentre lavoravo in una casa editrice era di trovare sì un impresa ma anche e soprattutto un laboratorio il più possibile democratico e quando ho visto che, e nelle scelte editoriali e in diversi comportamenti, si riscontrava un tipo di mentalità – ribadisco un termine forse troppo plastico ma che per me ha una chiara accezione negativa – aziendalistica (per cui gerarchica, sottilmente ricattatoria, in alcuni casi assolutamente irrispettosa di professionalità e non solo), io ho trovato tutto questo sorprendente.

2) Ma veniamo ai libri. Se si legge l’elenco dei libri pubblicati da Fazi negli ultimi anni, ci si imbatte in una quantità di testi sicuramente di qualità. A parte la narrativa, sulla quale è più facile avere un interesse soggettivo, tra i contributi saggistici (a parte qualche vecchio caso ignobile: Camillo Langone) si trovano, cito a capocchia, Hitchens su Kissinger, Wilson sugli indiani d’America, un libro fondamentale di Nozick, Ahmed sulla guerra all’Iraq, un enorme volume di Galaverni sulla poesia contemporanea… e di prossima uscita sono Tariq Ali e Hilary Putnam… Considerando insomma un catalogo che sembra mostrare oggi un tipo di linea editoriale connotato (al contrario di molte opzioni schizofreniche di quando lavoravo io Fazi due/tre anni fa) per la qualità delle scelte e per l’orientamento politico – se, mettiamo, Gore Vidal può essere considerato uno degli autori di punta (e se Fazi stesso ha lavorato in gioventù dall’Economist) –, quando ho visto annunciata l’uscita del libro di Gianfranco Fini, sono balzato: sembrava una presa di posizione, un’uscita allo scoperto, un bizzarro outing.

A caldo, avrei avuto la stessa reazione se mettiamo invece che per Fazi fosse uscito per Einaudi (storia di sinistra ma prospettive mainstream). Il libro di Fini cosa c’entrava? Ho pensato che lo stesso sconcerto o lo stesso dubbio fosse venuto anche a chi lavora nella casa editrice. Ho provato a ricostruire le fila di come era stato concepito il progetto.

E cioè: si trattava appunto di minicollana di libri-intervista sull’Europa (tema faziano ultimamente) a esponenti politici di diversi schieramenti. Mi sembrava singolare che l’unico che avesse accettato fosse stato il leader di An. Io se fossi stato al posto dell’editore, mi sarei fatto qualche domanda: perché con tutti i libri di sinistra liberal che pubblico, l’unico politico che accetta di buttare giù un libro-intervista è Fini? C’è stato qualche equivoco nella ricezione della mia linea editoriale? Ma comunque. Il libro di Fini. Che alla prova del testo è un libro piuttosto moderato, che per buona parte racconta semplicemente lo svolgimento dei lavori alla Convenzione, ma che mette anche in mostra una serie di idee passibili di discussione; soprattutto su un piano di prospettive a medio e a lungo termine, come sono poi quelle sulla costituzione dell’Europa. La prefazione di Giuliano Amato che lo accredita come interlocutore più che valido, in materia europea quantomeno, sa piuttosto di dichiarazione politica sottotesto: Fini ci piace più di Berlusconi perché su molte questioni rappresenta perfettamente quel bipolarismo che diventa specchio. Ma questo è un discorso che andrebbe articolato. Riconosciuta dunque la dignità del libro di Fini (anche argomentativa), rimane per me lo stesso in questione l’opportunità da parte di Fazi di pubblicarlo.

Mi spiego, io potevo leggermi questo libro pensando che Fini è uno statista islandese (stato della cui situazione politica non so niente) e che esprime una congerie di pareri generali e astratti sull’Europa che verrà. Avrei detto: interessante qui, ovvio qua, discutibile là. Ma io ho letto l’intervista a Fini proprio in questi giorni e vivendo in Italia, per cui – ad esempio – il forte accento posto nel libro sul patriottismo come valore fondante mi dava un link immediato a La Russa con la bandiera sulle spalle che girava per il Transatlantico dopo Nassiriya, alle sfilate televisive di gusto francamente pseudofascista, a un nazionalismo che Fini dice – nel libro – di voler sostituire con un’idea di “identità nazionale”, ma di cui non vedo nessuna presa di distanza nei fatti.

Tutto questo senza tenere conto poi del ruolo di Fini oggi come personaggio politico pubblico: la seconda personalità di questo governo. Senza insomma ricordarsi che è il firmatario di una legge come la Bossi-Fini (non proprio liberal, come dire), che è vero che ha rilasciato recenti dichiarazioni di apertura per il voto agli immigrati ma è vero anche che quelle dichiarazioni di apertura a leggerle bene non indicano certo una visione multiculturale o la radicatezza di un principio come l’uguaglianza nei diritti. E inoltre – e vado a braccio e prendo le più recenti – non è lui direttamente o indirettamente il propugnatore di leggi come la Gasparri o come quella per la maggiore penalizzazione del consumo di droghe? Anche qui non molto liberal.

La mia perplessità rispetto al libro di Fini stava proprio in questo. E credevo fosse la perplessità di chi ha deciso di redigerlo e stamparlo. Ossia: è opportuno – non avendo mai finora pubblicato nessun libro di un parlamentare – pubblicarne uno di una figura così esposta e schierata come Fini?
Avendo visto poi che il libro non era stato stampato presso la tipografia usuale con cui la Fazi collabora, ossia Graffiti, ho telefonato al responsabile di Graffiti, Roberto Iacobelli e gli ho chiesto se in tutto questo c’era stata da parte sua una scelta, ossia un rifiuto. Lui mi ha detto che la scelta si mostrava semplicemente con la sua storia: una storia di militanza a sinistra. Il libro, mi ha fatto capire, i redattori di Fazi hanno preferito non affidarglielo conoscendo quali sono le sue idee, e lui effettivamente avrebbe preferito non stamparlo. A due giorni dal “polverino” post-articolo, Iacobelli ha cambiato idea, e per quanto continua a esprimere la sua distanza politica da Fini, mi ha detto tre giorni fa di nuovo al telefono, lui forse questo libro l’avrebbe stampato se glielo avessero chiesto. E anche la cortesia di Fazi nel non affidarglielo era a dire la verità soprattutto una questione logistica, di un credito di commessa con l’altra tipografia con cui lavorano per l’esubero. Questo punto si è rivelato in fondo un punto debole del mio ragionamento. Iacobelli ha in fondo ammesso la sua impossibilità di intervenire nella filiera editoriale. E mi dispiace aver raccontato la parabola pseudo-hrabaliana di un tecnico che per le proprie idee possa entrare in conflitto con l’editore. Purtroppo non era così.

3) Ma veniamo al libro che più mi ha fatto scatenare una reazione di livore anti-faziano. Lo stessa vis polemica che – per come sono andate le cose – mi ha fatto rompere delle amicizie. Ossia il libro di Melissa P. La critica più invalsa che ho sentito su Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire era che il libro fosse stato un abile prodotto confezionato da qualche editor scaltro. Io so che non è così. Il libro l’ha scritto lei, e gli interventi di editing sono stati più o meno gli stessi che alla Fazi fanno su libri di altri autori più maturi. La cosa che trovavo allucinante ancora di più è che non fosse un’operazione puramente commerciale (il libro è stato stampato inizialmente con una tiratura non alta), ma che fosse invece la condivisione comedire empatica (la fiducia che una casa editrice dà ai suoi autori, soprattutto a quelli in cui crede, soprattutto a quelli che vanno poi a rappresentare un terzo dei libri venduti) della visione del mondo di un autrice. E a me la visione del mondo di Melissa P pare aberrante. Ma capiamoci.
Se c’è un obiettivo polemico che mi viene da indicare nella società in cui vivo è la cultura diciamo berlusconiana: qualcosa per cui il discrimine di valori etici ed estetici va completamente a puttane, e l’unico criterio di giudizio è la spettacolarizzabilità del dato. Un esempio cristallino? Costanzo e i suoi vari cloni famigliari e non. Ecco trovo Melissa P. – anche in buona fede, beninteso – perfettamente integrata in quella cultura. Che ha dato già negli anni recenti i suoi frutti ben visibili, soprattutto quando si è applicata nella definizione dell’immaginario giovanile. Non tanto infatti Lara Cardella è l’antecedente di Melissa P., ma un altro puntato come Nicola X e il suo Infatti purtroppo, o Pierluigi Diaco oppure Ambra Angiolini, personaggi che sono stati (e alcuni come Diaco luciferinamente continuano ad essere) simbolo di un’idea di gioventù completamente innocua dal punto di vista della dialettica culturale, personaggi che sono stati appunto vezzeggiati e coccolati dalla generazione adulta perché rappresentano la versione under di una cultura arrivista e cafona per cui l’ingenuità è un ricordo lontano (in cui a 17 anni si è pronti non a fare pompini a destra e manca – di questo chissene – ma ad andare da Costanzo o da Giordano ad affermare che il vero tabù sono i soldi e non il sesso e non dichiarare quanto si è guadagnato), una cultura per cui conta la disinvoltura e non il talento, l’esibizionismo e null’altro.
Secondo me CCDSPDAD di Melissa P non andava pubblicato perché è un libro sciatto. Anni luce lontano da Radiguet ma anche da Porci con le ali. E non mi interessa neanche il presunto valore documentale perché anche l’Isola dei famosi ha un valore di testimonianza di questi tempi e totalizza il 73% di share, ma rimane monnezza.
È un libro sciatto perché la lingua e l’immaginario di CCDSPDAD. non hanno nulla neanche di giustificabile sotto la voce spontaneità, ma sono una lingua e un immaginario totalmente colonizzato da quella cultura per cui la volgarità esibita e la sciatteria possono diventare un elemento positivo. La cosa terribile è appunto che il libro sia farina del sacco di Melissa P, che lei abbia introiettato del tutto questa prospettiva e anzi le venga riconosciuta come carta di credito per il mondo circostante.

Facciamo degli esempi per me significativi presi dalle prime 50 pagine del libro, ma quasi tutto il libro risponde a questo discorso:

.100 colpi di spazzola si apre, come la metà dei romanzi che arrivano a una casa editrice, con “i raggi del sole filtrati appena dagli spiragli delle persiane”, espressione che per chi ha mai lavorato con dei libri rappresenta l’epitome di un letterarismo d’accatto. Gli stessi “raggi che filtrano appena attraverso le finestre” compaiono di nuovo dopo una decina di pagine, e poi tornano ancora.

.La scelta poetica di Melissa, la sua ovviamente debole capacità di mitopoiesi sulla propria esperienza la spinge a chiamare il cazzo l’Ignoto e la fica il Segreto, per cui nel (primo rapporto sessuale – orale): “…mi ha spinta sempre più giù, mostrandomi bruscamente l’Ignoto. Adesso lo avevo davanti agli occhi, odorava di uomo e ogni venatura che lo attraversava esprimeva una tale potenza che mi è sembrato doveroso fare i conti con essa. È entrato presuntuoso fra le mie labbra, lavando via il sapore di fragola ancora impregnato su di esse”.
Un italiano contratto, utilissimo forse ai temi del liceo (la farragine della costruzione sintattica, l’aggettivazione fintoforbita, i pronomi desueti) applicato a un campo semantico che non è quello dei temi, crea – inintenzionalmente – un effetto quantomeno kitsch, quando non da barzelletta da caserma; la lingua ne esce devastata:

“Spero tanto che Daniele non sia cambiato, che tutto in lui sia rimasto uguale a quella mattina in cui feci la conoscenza con l’Ignoto”

“Ha cominciato a baciarmi sul collo ed è sceso man mano più giù, sui seni e poi sul Segreto, dove il Lete aveva cominciato a scorrere”.

“«Non ricordo il tuo nome».
Ho avuto voglia di giocare: «Non te l’ho ancora detto», ho risposto.
[…] «E non vuoi dirlo?», ha chiesto scrutandomi attentamente il viso.
Ho sorriso candidamente: «Melissa», ho detto.
«Mmm… hai il nome delle api. Ti piace il miele?»
«Troppo dolce», ho risposto, «preferisco i sapori più forti».
Ha scosso la testa, ha sorriso […]”

“Viste le mie calze ha chiesto stupito: «Ma porti le autoreggenti?»
«Sì, sempre», ho risposto.
«Ma sei una grande maiala!», ha esclamato forte.
Mi sono vergognata del suo commento fuori luogo, ma ancora di più sono rimasta colpita dal suo cambiamento da ragazzo garbato ed educato a uomo rude e volgare”.

Ho provato a fare il bastian contrario di me stesso su Melissa P. Ragionavo con alcuni amici che mi facevano notare come magari un libro del genere può costituire, per persone che hanno poca dimestichezza con la lettura, un ponte verso la letteratura: ti piace Melissa P. e poi magari finisce che ti leggi Lolita. Mi sembra quasi impossibile – proprio perché la lingua di Colpi di spazzola è un italiano che fa appello a una competenza linguistica regressiva, che questa competenza linguistica anzi legittima; ma comunque vai a sapere.

Sono stato anche più bastian contrario. Mi sono andato a riprendere in mano l’altro modello tacito di Melissa P. e cioè Cristiana F. (dei ragazzi dello zoo di Berlino). Un libro scritto con un linguaggio semigiornalistico che fu un best-seller perché riuscì a scoprire una quantità di taboo sui preadolescenti e la droga. Ora mi sono letto tutto Melissa P. per vedere se una capacità simile esiste in qualche pagina, se il valore di denuncia di una realtà sconosciuta potesse giustificare anche tutte le altre pecche.
E l’unica pagina in cui mi è venuto un dubbio è proprio quella dei primi “cento colpi di spazzola” che Melissa si dà, tornando a casa dopo aver ciucciato i cazzi di cinque uomini diversi che l’hanno poi anche semiviolentata. Ora, qui il passaggio è sottile: perché se questo è, mettiamo, un brano che colpisce alla pancia per la crudezza, mi chiedo se sia giusto pensare di rendere commerciale (e molto) il libro di una ragazzina di 15 anni che è testimonianza di una società che non protegge i suoi figli, e anzi li stupra? La questione è veramente morale. L’idea di dar voce (di dare una cassa di risonanza spettacolare: distribuzione nelle edicole, comparsate in tv) a una soggettività di un minore, proprio quando è così esile, è una buona idea? Non si pratica lo stesso meccanismo dei programmi della De Filippi e della D’Eusanio in cui si mettono in piazza problematiche che avrebbero bisogno di una consapevolezza critica per dibatterle e giudicarle e invece le si usa come carne da voyeur e materia da audience, proprio per la loro gravità?

4) Da ultimo. Anche le accuse che rivolgevo alla catena libraria Feltrinelli non erano rivolte all’oggetto ma volevano mostrare come stia diventando invalso un modo discutibile di concepire la stessa libreria. Del resto non sono io il solo ad accorgermene. Era uscito sul Corriere della Sera un articoletto di Franco Cordelli che manifestava le sue forti perplessità sulla nuova sede di Piazza Argentina: luci da supermercato, vigilante all’ingresso, libri di catalogo in quantità sempre più scarsa. E qualche giorno fa avevo deglutito leggendo la cronaca romana di Repubblica che riportava la notizia di una ragazza sorpresa a rubare quattro libri (valore 80 euro) a Feltrinelli a via Orlando: la tipa era stata fermata, si era chiamata la polizia, ed era stata arrestata.
Ma i sintomi più preoccupanti per me riguardano proprio l’idea pluralista che dovrebbe star dietro alla gestione di una libreria. A Roma da un paio di mesi stanno aprendo i Ready Bookstore, filiali della catena Arion, che tengono esposti solo i libri novità, scontati e in bella mostra, e prevedono invece la possibilità di avere i libri di catalogo ordinandoli, entro 24 ore. Oppure parliamo delle librerie più brutte esistenti: le Mondadori. Una delle pensate migliori delle Mondadori che adesso sta trovando seguito anche presso altre catene di grande distribuzione libraria è quella del buyer. Il buyer è un tizio che sta in ufficio di Milano e fa gli ordini per i vari settori delle varie librerie di tutta Italia.
In genere nelle librerie è sempre stato il responsabile del settore che decide che quantità ordinare di questo o quel volume: perché conosce la sua clientela, perché testa alcune tendenze di gusto, perché prova anche a offrire il suo di gusto, perché insomma fa il libraio e non il riempiscaffali. È un lavoro dal basso che ovviamente premia la professionalità di chi lo svolge, ma anche la crescita culturale dei clienti. Il buyer annichila questo ruolo. E fotte completamente anche i requisiti professionali che sarebbero utili per svolgerlo. Non so se fate caso a come nelle grosse catene librarie si tenda a privilegiare nelle assunzioni persone di età sempre inferiore e con una cultura medio-bassa: che vuol dire pochi problemi sindacali, e poche rivendicazioni professionali. Si può fare il libraio non avendo minimamente idea del prodotto che si sta offrendo. Perché conoscere il catalogo? Perché informarsi delle novità che non sono in classifica?
Mi raccontava qualche giorno fa un amico-lettore forte che nella Feltrinelli nella quale si rifornisce lui di solito, dopo anni di richieste assurde di favole hittite e studi di linguistica indios, ha chiesto al suo commesso di fiducia: “Va là, visto che mi conosci da tanti anni, per una volta consigliami tu un libro”. E allora il commesso ha estratto dalla manica il suo asso più inatteso: “Che ne dici di questo Camilleri?”

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18 Commenti

  1. Hai messo molta carne al fuoco. Mi limito solo a esprimermi, per adesso, su una delle tante questioni.
    Su Melissa P. Tu dici che “la questione è veramente morale. L’idea di dar voce (di dare una cassa di risonanza spettacolare: distribuzione nelle edicole, comparsate in tv) a una soggettività di un minore, proprio quando è così esile, è una buona idea?”
    Personalmente sono contrario a ogni censura, e sapere se un brutto libro può corrompere l’animo dei lettori o incitare a certi comportamenti è una questione a cui si può rispondere così: può darsi di sì, può darsi di no! Non abbiamo prove di entrambe le alternative. Ma non credo nelle censure, producono di peggio.
    Ma esser nemico di ogni forma di censura, com’è nel mio caso, non significa dire che in libri come Melissa P. c’è la liberazione della letteratura, o un guadagno nella libertà umana! Anzi, con libri come Melissa P. accade proprio il contrario, si rende l’uomo meno libero!
    Ma la resistenza nella letteratura – la resistenza essenziale, fondamentale direi – non è combattere ciò che non ci piace o pensiamo come pericoloso e negativo, ma “fare” ciò che manca! Poi rimane sempre valida la voce della critica, ma sopratutto la resistenza letteraria la concepisco come fare ciò che dovrebbe essere fatto! Ho perso nella notte dei tempi il ricordo di un libro che sappia parlare di sesso. Che qualcuno lo faccia!
    Vorrei ricordati che in Francia Maurice Girodias presso l’Olympia Press ha pubblicato accanto a cose come Lolita, The Ginger Man, agli scritti di Henry Miller, al Watt di Beckett,quell’immondizia dell’Olympia Reader, la gran parte di esso è robaccia di cattivo gusto, pornografia ormai reperibile in qualsiasi drugstore.
    Detto questo, non entro nel merito del tuo modo di agire con Fazi editore,rimane difficile percepire, dalla tua chiara rappresentazione, dall’esterno, come ci si dovrebbe comportare nel rapporto di lavoro. Ma le cose che dici hai fatto bene a dirle, hanno la loro dignità!

  2. “…splendida idea di far lavorare gli interinali tutti insieme da una parte e gli atempoindeterminato tutti assieme in altre stanze” […] “…i co.co.co non potevano finalmente approfondire la propria inestimabile ricchezza di cococoness in un confronto costante con tutti coloro che si trovavano in questa posizione?”

    co.co.co. e interinale non è lo stesso

    per luminamenti: in questo caso il punto non è difendere i lettori ma difendere gli scrittori (le “soggettività esili”), aggiungerei, invece di nascondercisi dietro

  3. Gaspare io penso che gli scrittori devono principalmente scrivere e basta. Poi rimane il problema di farsi pubblicare. Rimane il problema del consumo, che non è un problema solo del libro, ma un problema del modo di sviluppo della civiltà industriale. Non è così facile sostituire indusstrialmente parlano a Melissa P.
    Saffo!
    Secondo me le cose continueranno ancora per tanto tempo così, poi la Civiltà Occidentale sarà inghiottita e chissà dopo cosa ci sarà.
    Questo non toglie nulla alla necessità di lottare e resistere. Ma lotta e resistenza continuo a vederle come conquista personale.
    Poi, quest’ultima per radiazione si dissemina, molto ma molto lentamente…

  4. battuta a parte, è chiaro che ho apprezzato – e condivido pienamente – quello che hai scritto.
    ciao. m.

  5. a proposito del consumo. vorrei chiedervi cosa, secondo voi, fa sì che melissa p sia il libro più acquistato (e forse letto) delle ultime settimane? è vero se ne è parlato molto, lei è stata da costanzo, ha avuto visibilità, eccetera, ma rimane il fatto che la condivisione empatica (discutibilissima)di cui dice raimo, tra la casa editrice e la visione dei suoi autori, sembrerebbe esistere anche tra autori e lettori. “la visione del mondo aberrante” (arrivismo, esibizionismo, edonismoatuttiicosti, buonismo e fintocinismo) della melissa si fa collettiva, condivisa. risonante. per cui chiaro che trovi credito. allora mi chiedo: quale speranza per la sana “letteratura”? quali mezzi per questa resistenza che potrebbe avere in germe gli elementi di una battaglia, di uno “scontro fra lettori”. se ciò che con-vince è la facilità di consumo, il depauperamento del gusto, la superficialità e l’oblio dell’etica, e tutto integrato in tempi liberi schizofrenici, se questa è la corrente di nonsenso che impregna il tessuto sociale, come riconvertire il flusso? l’altro giorno parlando di cucina con delle amiche si diceva di quanto fossero “pratici” i sughipronti. sì saranno certo commestibili e pronti in cinque minuti, ma un vero ragù, (senza conservanti, surrogati, correttori d’acidità…). è un’altra cosa. chi potrebbe dire il contrario? eppure la pigrizia e l’indolenza di “imparare, fare”, ( e fare meglio seppure con fatica), ci fanno desistere.
    così ti mangi ‘na schifezza e cominci a non farci più nemmeno caso.

  6. Io credo che in qualsiasi opera letteraria (alta o bassa)il sesso sia detto o anche soltanto sottinteso. In un modo o nell’altro. Bisogna vedere come lo si fa, come lo si espone. La materia del sesso è vitale, è la vita. E’ nella vita, dà la vita, la vita può toglierla. Può anche, semplicemente, banalizzarla: a morte.
    Anna chiede perchè Melissa sia il libro di “grido”. Gli esempi postati da Raimo nel suo pezzo sono chiarificatori: è scritto proprio da cani, da una quindicenne con una cultura da liceale. E’ un libro “svuota e fuggi”? Perchè ha questo successo? Provo a dare una risposta: perchè, semplicemente, è il diario intimo di una 15enne che scopa e destra e a manca. Banale, si. Però vero. Penso addirittura che il finto (o vero?) cinismo, l’esibizionismo ecc. siano più o meno effetti collaterali. Perchè Melissa, in questo momento storico, in Italia, SI VENDE DA SOLA. Non a caso Raimo ci ha raccontato che l’editore ne ha stampate poche copie in prima edizione; cioè ha saggiato il terreno. Eppure è lecito pensare che si fosse pensato a una campagna promozionale in grande stile. Quando è avvenuta, a proposito? Dopo? O il “colpo” era in canna pronto a esplodere ai primi segni di sbanco ai banchi delle librerie del Paese Senza? Insomma, non era detto che il libro, nonostante il colpo in canna promozionale, fosse destinato a diventare un successo, potesse esplodere come un orgasmo editoriale. Qui si tratta del sesso di una 15enne vergato da una 15enne. E’ proprio il fatto che sia stata una 15enne a scrivere questo libro che fa la differenza. Dunque il lettore (magari anche quello “forte”) si trasforma in guardone.Il valore aggiunto, qui, è la “confessione letteraria quindicenne”. C’è il fatto che, essendo spacciata per Letteratura, la Confessione 15enne può essere acquistata in libreria con la disinvoltura che il lettore non ha (immagino) quando va a rifornirsi dalla sua videoteca porno di fiducia. Qui c’è l’alibi della Letteratura. Le mie sono semplici congetture di uno scrittore (quasi) invidioso, ovvio. Non penso, altresì, che il caso Melissa P. sia emblematico di una facilità di consumo. Come ha scritto Luminamenti più sopra, l’Olympia Press era un editore più o meno porno.H.Miller e Nabokov si rivolsero a Girodias perchè NESSUNO degli editori “seri” (anche senza virgolette) voleva pubblicare i loro capolavori, (perchè, tali, indubitabilmente, lo sono stati). Con Melissa P. l’editore impegnato fa l’operazione inversa. Se Olympia Press diventa per un attimo, poniamo, Seuil, è come se ora Seuil diventasse, per un lungo attimo, Olympia Press. La differenza è che in questi secondo caso nessuno se ne accorge.
    La speranza per una “sana letteratura”, Anna, secondo me sta negli editori, principalmente; ma non soltanto. La censura a me non piace per nulla, quindi Fazi ha il diritto di fare i soldi con Melissa P., questo è il libero mercato, può non piacerci, ma potrebbe ( e sottolineo potrebbe) avere i suoi vantaggi anche per gli scrittori “veri”. A patto che i mediatori culturali si impegnino a spendere di più (cioè a investire di più) su ciò in cui credono da un punto di vista della qualità letteraria. Melissa P. è un esordiente: dunque perchè non investire su una Melissa B. di reale valore letterario (cioè esordiente anch’essa ma con vere frecce d’amore al suo arco?). Una cosa non esclude l’altra. Più coraggio, insomma. Fare in modo che il lettore si accorga che un libro di qualità ESISTE. Il problema è complesso, perchè coinvolge anche altri media, cioè i filtri d’accesso della cultura, mai come in questo periodo intoppati di fuffa autentica e autenticata.
    Sul problema morale che solleva giustamente Raimo, infine: esiste eccome, non foss’altro perchè qui scrive una 15enne, un’adolescente, una minorenne (anche se in autoreggenti). Ma è un problema morale del quale dovrebbero rispondere, più che altro, i suoi “splendidi” genitori.

  7. Sarà minorenne solo per la legge, non per la scienza delle vita.
    Per Anna. Come riconvertire il flusso?
    Già questa espressione, riconvertire il flusso è tutta Occidentale e Capitale, appartiene ai trattati di management di Tom Peters e Robert H. Waterman JR, Michael Porter, Kenichi Ohmae, Theodore Levitt.
    Non mi sembra proprio il caso!
    Forse una lettura di Millepiani di Deleuze e Guattari può offrire spunti, forse il libro Il Virtuale di Pierre Levy. A proposito dell’editore italiano di Millepiani: Castelvecchi. Che dire dell’editoria italiana che prima pubblica l’Antiedipo di Deleuze e Guattari e poi lascia Millepiani a Castelvecchi?
    Se vado in Germania e chiedo tutte le opere di Wittgenstein, mi tirano fuori un solo editore che le raccoglie tutte! In Italia, per tantissimi autori non è così, un po’ qui un po’ lì, un po’ con un editore un po’ con un altro.
    Raramente mi è chiara una linea editoriale.
    L’Einaudi che ha lasciato a Castelvecchi Millepiani dove sta?
    Ritornando alla conversione del flusso, si fa per dire. Mi affiderei al modello di Adorno: la bottiglia nel mare, o al modello di Nietszche: la freccia scagliata da un pensatore e raccolta da un altro. Non vedo altre strade per il recupero, sempre in minoranza, per il popolo che non c’è direbbe Kafka.

  8. Luminamenti, il popolo c’è, invece. Oggi, perlomeno, c’è. Va informato, però. Lanciando più bottiglie possibili nel mare dell’informazione. Lanciando più frecce-da un pensatore all’altro-fino a farle arrivare al pubblico. Ma dev’esserci un pubblico che sa cosa sta succedendo. Non per altro: si risparmierebbe qualche decennio.

  9. magari l’espressione non era tra le più felici, ma sono tanto occidentalizzata e capitalizzata che nonostante non conosca i trattati di management citati, né, dunque, i signori/autori relativi, ho usato quelle due parole: riconversione e flusso. deviazione generazionale, forse. boh, non saprei, c’è da rifletterci e da considerare gli spunti proposti. come pure sul “non vedere altre strade per il recupero, sempre in minoranza, per il popolo che non c’è”. non nascondo che questo concetto di minoranza, mi risulti un po’ irritante. che sia un bene che la minoranza rimanga tale? che sia un dato di fatto, storico e irreversibile che la fruizione della cultura con la c maiuscola (come la produzione) è prerogativa di pochi. ci sento sapore di elitarismo. non buono. ci avverto una schierata presa di distanza dalla “maggioranza” che sembra destinata a stagnare nella palude, non tanto per impossibilità strutturali, sociali economiche a cambiare lo stato di cose, quanto per definizione. sono d’accordo con franz quando dice che il popolo c’è ed è, nella sua maggioranza e complessità, l’interlocuotre di riferimento di un editore. allora la sfida sarebbe quella di credere che le maggioranze possano essere all’altezza. possano affinare gli interessi, i piaceri, i saperi. non è questo che dovrebbero volere gli intellettuali? è o non è loro dovere guardare al popolo e lavorare perché ci sia il recupero. è un dovere morale e civile. è il dovere di chi deve lottare affinché certe minoranze non rimangano tali. perché se così fosse queste minoranze sarebbero utili solo ad allargare sempre più la forbice.e a continuare a parlarsi addosso.

  10. ecco. commentate questa. non c’entra col pezzo di raimo, ma c’entra.

    Tra una sbronza e una tazza di tè, due giorni insieme ai fratelli Gallagher che presentano Heathen Chemistry, il loro (secondo) miglior disco. Poi ci parlano di donne, sesso, droghe e sparano a zero su Radiohead, U2 e Blur. Preparatevi a diventare tutti molto, molto… pagani.

    Talvolta, quando le ex-mogli e i weekend perduti diventano un fardello troppo pesante, un poveraccio sente il bisogno di sfogarsi. Partecipiamo insieme a Noel e Liam Gallagher ad un acceso dibattito. Temi: discutibili opzioni matrimoniali, quel “nano miserabile” di Thom Yorke e la recente realizzazione del “secondo miglior album” della loro carriera.

    Secondo voi Be Here Now è stato il lavoro di «due stronzi ed un mucchio di idioti», Standing On The Shoulder Of Giants «una falsa partenza». Heathen Chemistry ci dirà cosa siete veramente?
    Noel: «Tranne “She Is Love”, non c’è niente di personale in questo album. Non vorrei che ci siano persone che si possano compiacere di una canzone scritta per loro. “She Is Love” parla di svegliarsi una domenica mattina con il sole e la donna che ami che ti chiede “vuoi una tazza di tè?”. La canzone parla del fatto di avere più o meno 30 anni e pensare che la vita è bella e la tua donna fantastica. Con lei, non ci sono seccature. Non c’è nessuno che ti dica “devi essere così” oppure “dove sei stato fino alle cinque?”. Niente di questa fottuta merda».
    Liam: «Io sono solo quello che canta e l’unico verso di Noel che mi riguarda personalmente è “ho un cazzo di trenta centimetri, ne vuoi un po’?”. Ma non mi dispiace cantare canzoni non mie. Devo essere capace di metterci dentro le mie emozioni. Altrimenti non le faccio».

    Cosa mi dici allora di questo verso di “Force Of Nature”: “You’re smoking all my stash/You’re burning all my cash/It’s all over town/The sun’s going down/On your easy life” (”Stai fumando tutta la mia roba/Stai bruciando tutto il mio denaro/Su tutta la città il sole sta tramontando/Sulla tua vita facile”)? Sembra un’invettiva contro Meg Mathews.
    N: «Beh, ti sbagli. Si tratta di un pezzo rimasto fuori da Standing On The Shoulder Of Giants. È stato scritto per il film “Love, Honour And Obey”, per una scena in cui Jonny Lee Miller si frega tutta la droga. Puoi controllare la data: 1998, ero ancora felicemente sposato allora».

    Credi ancora nel matrimonio?
    N: «Se volete vedere l’altro sesso trasformarsi in un mostro a quattro teste, allora scambiatevi un paio di anelli».

    Siete stati buoni mariti?
    N: «Ho un’esclusiva un po’ sgradevole nelle interviste. Nessuno chiede a Thom Yorke del suo matrimonio».
    L: «Sua moglie è probabilmente una miserabile bastarda come lui. A chi frega qualcosa di quel miserabile nano rosso e della sua miserabile moglie?».

    Cosa è cambiato nelle vostre relazioni attuali? Aiuta il fatto che le vostre nuove compagne, Sara (MacDonald) e Nicole (Appleton, ex cantante delle All Saints) vanno d’accordo?
    N: «Sì. Possiamo uscire insieme e mangiare in santa pace. Invece di doverle sputare il cibo addosso dicendo “chiudi la tua fottuta bocca”. Loro due possono parlare tra di loro, mentre noi parliamo di calcio».

    Liam, quando ti sei reso conto di aver trovato una persona speciale?
    L: «La prima volta che io e Nicole ci siamo incontrati, in Francia, c’è stata attrazione fisica. Poi, quando è iniziata la nostra storia l’ho trovata divertente. Potevamo ubriacarci insieme, come si fa tra amici. A Nic piace bere, le piacciono i pub. La mia ex-moglie non ha mai visto l’interno di un pub nella sua vita. Pensava di essere una fottuta Elizabeth Taylor. Quando le chiedevo “vieni giù al pub?” lei diceva “al pub? I pub sono merda!”. Nic è semplice come un uccellino. Non va in giro vestita con fottuti vestiti di Gucci ogni fottuto minuto. Alla fine della giornata tutte le donne puzzano e scorreggiano quando sei vicino a loro nel letto».
    N: «La differenza è che Nic non fa la girlfriend degli Oasis di professione».

    Il fatto che ci siano dei figli di mezzo rende difficile vedervi con le vostre ex?
    L: «Io non devo discutere con lei. Vedo mio figlio ogni settimana e poi le racconto come è andata. E poi devo solo assicurarmi che prenda i suoi soldi. È una cosa che mi fa incazzare ma è la vita».

    Noel, tu e tua moglie sembravate andare bene quando smetteste con la droga nel 1998. Dicevi anche che stavate ricominciando a conoscervi. Cosa è successo?
    N: «Un sacco di cose. Il fatto è che abbiamo divorziato perché era la cosa più giusta per me. Non c’è stato nessun fottuto complotto. Non voglio iniziare uno scontro di critiche e ripicche. Non ho malanimo nei confronti della mia ex moglie. Non mi trasformerò in un fottuto Robbie Williams, ok? Siamo stati insieme alla grande. Sul serio. Gliene sono grato. È solo che siamo arrivati al punto in cui non avevo più niente da dirle, così ho detto “è finita”».

    Da un po’ di tempo non suonate più “Wonderwall”, la canzone che hai scritto su Meg.
    N: «Sai cos’è? Non veniva mai bene. Era sempre o troppo lenta o troppo veloce. Ora mettiamo il disco alla fine dei concerti. Se non la suoniamo più non è a causa della mia ex».

    Il vostro rapporto come fratelli va meglio adesso?
    L: «Abbiamo dovuto toccare il fondo per poterlo migliorare. Dovevo prima essere una merda totale. In più, dovevamo darvi qualcosa di cui scrivere o avreste dovuto accontentarvi di tipi come Coldplay e Travis che vogliono essere solo belli e bravi per assicurarsi una lunga e ricca carriera. Ma non è quella la realtà. Scontrarsi, litigare e mandarsi affanculo, questo è reale».
    N: «Ora riesco ad avere a che fare con Liam perché sono diventato più tollerante. Prima pensavo “io sono il capo e vaffanculo”. E poi sono davvero convinto che nel giro di cinque anni sarà il migliore songwriter del paese. La gente pensava che stessi scherzando quando l’ho detto ma non è così, le sue nuove canzoni sono grandi».
    L: «Quale paese! Sarò il migliore in tutto il fottuto mondo».

    Ma non pensavate che i primi Oasis con Bonehead e Paul McGuigan – persino Tony Carroll – fossero la più grande band di sempre?
    L: «No. Lo siamo ora».

    Avete parlato con qualcuno dei vostri ex compagni di gruppo?
    L: «Ho ricevuto un paio di telefonate infuocate da Bonehead alle tre del mattino».
    N: «Io non ho più scambiato neanche una parola con lui. Credo che stiano preparando una complotto. Penso che Bonehead, Guigsy e McCarroll più questo coglione e gli altri due verranno a dirmi “abbiamo formato un gruppo jazz di sette elementi. Puoi andartene a vaffanculo”».

    Liam, ti sei pentito di aver detto che avreste giocato a golf con la testa di George Harrison quando criticò gli Oasis?
    L: «Per niente. Le sue critiche mi fecero incazzare, perché non mi conosceva. E quando verrà il mio turno di salire al piano di sopra ci incontreremo e gliene dirò quattro. Ma ciò non toglie che fosse uno dei più grandi songwriter del mondo e che ami la sua musica. Era proprio un bel tipo».
    N: «L’ho conosciuto una volta ad un party. Questo tipo in giacca di jeans è seduto vicino a me con due lattine di Heineken in mano e mi dice “Vuoi un po’ di birra?”. Mi giro ed è George Harrison. Abbiamo parlato di chitarre per mezz’ora. Era molto fico, poi si è alzato e mi ha detto “è stato un piacere parlate con te, ora devo andare”».
    L: «L’altra notte l’ho sognato».
    N: «Cosa succedeva?».
    L: «Giocavo a golf con la sua fottuta testa».

    Gli Oasis seconda versione sono una band davvero democratica? Ad esempio, Gem e Andy vi hanno detto quando il materiale non era buono?
    L: «Tu che dici? È ovvio che non lo farebbero».
    N: «Non penso che loro volessero entrare nella band e dire “ci starò per poco ma non mi piace la musica che fanno”. Quello che ha detto Liam non vuol dire che non abbiano avuto delle opinioni».
    L: «Non mi sento come se fossimo una vera e propria band al momento. Ci stiamo arrivando».

    Chi ha la parola finale?
    L: «Noel».
    N: «Il vecchio cane bastardo mette sempre il naso nella scodella per primo. È così che funziona. I barboncini devono aspettare che abbia finito».

    Liam, nella tua “Better Man”, colpiscono i versi “I wanna love you/Wanna be a better man/Don’t wanna hurt you/Just wanna see what’s in your hands” (“Ti voglio amare/Voglio essere un uomo migliore/Non voglio farti del male/Voglio solo vedere cosa hai nelle mani”). Hai cambiato la tua visione della vita?
    L: «Sono ancora una testa calda, ma dopo un paio di figli sono cambiato. Per i primi tre album non ho voluto scrivere canzoni. Volevo solo cantare e cazzeggiare, attirando l’attenzione e mandando affanculo la gente, e l’ho fatto. Avrò trent’anni a settembre. Non voglio che i miei figli vedano il loro padre fare il coglione in un pub. Ho delle responsabilità, ma ogni tanto voglio anche divertirmi alla grande».

    Hai chiuso con la droga?
    L: «No. Mi sono solo calmato un po’. Non mi faccio ogni giorno e notte. I giorni che mi faccio mi sveglio, mi guardo allo specchio e penso “cazzone che non sei altro!”. La droga manda a farsi fottere la mia routine che è: sveglia alle sette del mattino, a letto alle dieci di sera. Se ho ancora una faccia di merda alle dieci del mattino, penso “stronzo!”».

    Noel, tu dici che Alan White (il batterista degli Oasis) non ha mai preso droghe e che anche Gem e Andy sono puliti. Senti mai la necessità di convincere anche Liam?
    N: «No. In famiglia non discutiamo di nessun argomento. Io ho prima smesso di usare droghe e poi gli altri se ne sono lentamente accorti, non c’è stata una riunione per decidere e comunicare la cosa. Non siamo una congrega di Cristiani. Non voglio certo iniziare a vestirmi con tonache arancioni, radermi la testa e picchiare su un tamburello. Ho smesso perché farsi di coca con sette altri rimbambiti su un bus in tour per diversi mesi non giova allo spirito».

    Noel, nel 2000 Liam saltò gli show allo stadio di Wembley e la diretta televisiva davanti a 70 milioni di persone annunciando ubriaco con una lunga filippica che Patsy se n’era andata e lo aveva lasciato “con una busta di tè”. Pensavi fosse la fine?
    N: «È stato il mio incubo personale. Rimarrà con me per lungo tempo».
    L: «Avevo avuto un anno di merda. Eravamo appena usciti da un tour. La mia donna mi aveva lasciato. Quando sono tornato a casa, lei se ne era andata affanculo e mi aveva lasciato con una busta di tè. Ero incazzato e depresso. Fine delle storia».

    Ma la gente aveva pagato bei soldi per vederti…
    L: «Noi non siamo gli U2, gli INXS o i Simple Minds! Quei coglioni tengono tanto ai soldi che si trascinano dietro qualsiasi cosa. Per me, se hai qualcosa di meglio da fare, qualcosa di più importante, va fatto, cazzo. Se vuoi indietro i tuoi soldi te li ridarò io personalmente».
    N: «Posso solo dire, per ragioni legali, che non ci sarà nessun risarcimento?».
    Allora, quanto siete stati vicini allo scioglimento?
    N: «Non lo siamo stati. Ci siamo seduti e ho detto “ascolta, io voglio bene a te e tu a me, quali sono le cose importanti? 1) la musica, 2) il cantante, 3) quello che scrive le canzoni. Così abbiamo deciso di liberarci di quel fottuto entourage di quattrocentocinquanta coglioni intorno a noi, lui ha ridotto drasticamente il consumo di alcool e scritto delle canzoni fantastiche, abbiamo incominciato a lavorare con due grandi musicisti ed eccoci qua».

    Con chi siete in competizione oggi?
    N: «Tutte le nuove band come gli Strokes o i Travis e i Black Rebel Motorcycle Club… Noi facevamo questa musica quando loro erano ancora a scuola. Inni di guitar pop. Oggi non c’è nessuno in Gran Bretagna che mi faccia dire “Ooh, questo è nuovo!”».

    Ti è piaciuto l’ultimo album dei Travis?
    N: «(ampio sorriso) Mi piacciono i Travis».

    Dài, ti piace l’ultimo album dei Travis?
    N: «Sono tipi fottutamente simpatici».
    L: «Mi è piaciuto. Non c’è niente di sconvolgente. Ma vedi, se ti piacciono i Beatles, i Sex Pistols, i Pink Floyd e Neil Young, non hai bisogno di ascoltare nient’altro».
    N: «Onestamente ritengo che nessuna band britannica abbia fatto un album migliore di Definitely Maybe».

    I Radiohead non sono male però, no?
    N: «No!!! I Radiohead dicono: non guardateci, non fotografateci, non intervistateci. In pratica, non ascoltate la nostra musica. Dove porta tutto ciò? Si finisce con Thom Yorke che dice “ho scritto il pezzo di musica classica più fantastico di sempre ma la sola maniera di ascoltarlo è infilarmi un jack nell’orecchio. Sembra che si rompano i coglioni di essere una band e questo non stimola i ragazzi a prendere in mano le chitarre. Si lamentano del marketing, dei video, ecc. Se avessi quindici anni penserei: preferisco lavorare in un autolavaggio. Per quanto ci riguarda noi amiamo essere una band. È la cosa migliore al mondo. Peraltro, certe cose in Amnesiac sono davvero brillanti, The Bends è forte, “Karma Police” è grande. Ma loro non vogliono che gente come me ami la loro musica e quindi possono andare a farsi fottere».

    Prima della sua uscita avete fatto commenti tiepidi sul nuovo album. Dite che è il vostro “secondo miglior album di sempre”. Perché?
    N: «È una mia prerogativa»
    L: «Amo l’ultimo album. Noel sottovaluta sempre ogni cosa. La gente che compra i nostri dischi è abbastanza grande da farsi una propria idea».
    N: «Se hai scritto “Live Forever”, ” Rock ’N’ Roll Star”, ”Some Might Say”, “Champagne Supernova”, “Cast No Shadow”, “The Masterplan” e qualcuno ti chiede “come sono le nuove canzoni?”, beh… non dirò bugie. Metà delle canzoni su Standing On The Shoulder Of Giants non regge neanche il paragone con le cose vecchie. Lo stesso per Be Here Now. Specie se li paragoniamo con il primo album. Se la gente lo vuole, fantastico, vada a comprarlo. Si trova alla “O” vicino ai fottuti Osmonds. Ma la mia opinione, dato che non sono uno che dice cazzate, è che il nuovo album è il nostro secondo miglior disco».
    L: «Per me Be Here Now era grande e Morning Glory un cumulo di merda».
    N: «Morning Glory è stato ampiamente sopravvalutato e trovo Be Here Now davvero disgustoso. L’ho risentito sei mesi fa e ho dovuto mettermi il cuscino sulle orecchie. Non dico cazzate, con quel disco abbiamo mandato a puttane tutto quello che avevamo fatto fino ad allora».

    La follia del britpop e la rivalità con i Blur non vi sembrano distanti e ridicole oggi?
    L: «La rivalità Oasis-Blur è stata ridicola ma divertente. Pensavo davvero ogni cosa che ho detto. Sono ancora un mucchio di coglioni»
    N: «La cosa che mi fa incazzare ancora oggi è che il fottuto coglione disse che noi avevamo fatto la guerra al suo gruppo di mezze seghe. Gli Oasis non hanno bisogno di competere con un mucchio di coglioni che fa musica di basso livello. Sono degli ipocriti».

    Siete ambedue padri ora. Vi piace?
    L: «Lo adoro. Sono veramente bravo a fare il padre. Aspetta di vedere i miei due figli a venti anni, faranno rumore, amico. Devi scavare a fondo, devi insegnare loro cose che tu stesso non hai mai imparato. Sto sempre a dire “fuori di lì”. E poi mi chiedo “perché non parli così anche a te stesso ogni volta che è necessario”? Mi terrebbe fuori dai guai».
    N: «Il giorno che Anaïs verrà a dirmi che drogarsi è come prendere una tazza di tè la mattina, dovrò discuterne con lei. Cosa farò? La chiuderò a chiave in una stanza per sei mesi? No. Devi solo dire: la vita è così. Fai tu le tue scelte e amale. È questo tutto ciò che puoi fare».

    Avrete ancora figli?
    L: «No. Il cazzo è mio e lo gestisco io. Nic probabilmente vuole dei figli, ma io ne ho già due e ora mi voglio concentrare su quello che ho. (A questo punto Nic telefona sul cellulare di Liam, che la saluta chiedendo “ascolta, sei incinta?)».
    N: «Chi lo sa? Se succede succede».
    L: «Non sono una fottuta macchina per fare figli, anche se sono grande nel farli. Lei potrebbe volerli e, chi lo sa? Tra cinque anni forse, ma non al momento».

    Hai detto chiaramente di non avere un’idea molto buona dello stato del rock oggi. Il vostro nuovo album la scuoterà un po’?
    N: «Non dobbiamo provare niente a nessuno. Alla fine della giornata puoi andare ad uno show dei Radiohead, e guardare quel fottuto miserabile lamentarsi, o puoi venire a vedere noi, abbracciare la tua compagna e godertela. Cosa vuoi di più, cazzo! Dimmi cosa vuoi da noi».

    Progresso?
    N: «C’è qualcuno che sta facendo più musica per il cervello? Siamo un gruppo rock’n’roll, non i fottuti Blur».
    L: «Non siamo fottuti stregoni, solo degli sfigati di Manchester cui è capitato di essere la migliore band del mondo».

    Ed è quasi vero. Le canzoni di Heathen Chemistry che abbiamo potuto ascoltare in anteprima sono pervase da un potente spirito. La “Hung In A Bad Place” di Archer è un grezzo blues cantato da Liam con la sua voce più sporca. Sembra a stento credibile che la amabile quanto esile “Song Bird” sia stata scritta dallo stesso autore della ordinaria “Little James”. Certo, ci sono anche segnali infausti. “Force Of Nature”, cantata da Noel, è quella specie di ridondante lagna pub rock, che avrebbero già davvero dovuto mettere da parte prima.
    Ora bisogna sperare che un angelo custode continui ad indicare loro la giusta via.
    Lo scorso anno nel backstage dello show degli U2 a Manchester Noel Gallagher sarà forse stato un “bastardo ubriaco”, ma non abbastanza da far dirottare altrove lo sguardo del “vicario onorario del rock” Bono.
    N: «Ero un po’ scoglionato così ad un certo punto gli ho detto: “hai fatto 150 milioni di sterline quest’anno, ma credi ancora in Dio. Come si fa?” Lui disse che non me l’avrebbe spiegato ma mi diede un paio di libri. Tutto dipende da te, che tu sia credente o no. Non credo che ci sia un dio che dice: se bevi, se ti fai di droga, se spergiuri o fai furti non siederai sulla mia nuvola. È tutto cazzo. È tutto fica. Siamo tutti pagani. Pochi tra di noi praticano una fede ma siamo tutti alla ricerca di qualcosa. Io sono alla ricerca di qualcosa. Ma non dirò nient’altro altrimenti incomincerò ad assomigliare a Thom Yorke».
    L: «E quello, amico, sarà il giorno in cui la band morirà».
    Prego notare: arduo a credersi, 129 oscenità sono state rimosse dalla
    trascrizione di questa intervista prima della pubblicazione.

  11. Scusate se mi inserisco qui.
    Volevo dire che in fondo ai commenti del pezzo di Scarpa “Il pianeta dei fantablog”, che ho potuto leggere solo oggi, c’e’ ora il mio racconto di come sono andate davvero le cose tra me e gli Zibaldoni delle meraviglie.
    Un saluto
    Carla Benedetti

  12. Continuando sul Discorso di Raimo. Le librerie Mondadori, Feltrinelli.
    Le cose intelligenti, frutto dell’osservazione critica di Raimo li percepisco anche io, non posso che constatarle.
    Come combatterle?
    Aprendo altre librerie che lavorino diversamente.
    Stanno scomparendo i vecchi librai.
    Ma questo accade anche con i piccoli rivenditori di alimentari, con le drogherie.
    Oggi ci sono le grandi catene.
    Oggi vince il macro!
    Per il Superficiale. Leggerò dopo ciò che hai postato.

  13. Scusa Superficiale, non potevi postare l’intervista a quei due sottosviluppati mentali in edizione integrale? Tanto, 129 bestemmie più, una meno…

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