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Viaggio in Argentina #6

di Antonio Moresco

El Atletico.jpgAndiamo a mangiare il solito bife con Nic e Laura. Raccontiamo loro quello che è successo al Boca. Lei non dice niente. È un po’ stanca, va a casa a riposare. Passiamo il resto del pomeriggio e la serata io e Giovanni da soli. A un certo punto ci viene la smania di andare a vedere il tango. Rintracciamo un locale dove Laura ci aveva detto che fanno il tango per i turisti, con le ballerine scosciate. Quando arriviamo è tardi. Io sono vestito come uno straccione, Giovanni è in mutande.

Ma i camerieri non osano buttarci fuori. Nel locale intanto tutti hanno già finito di mangiare. Ci sono sì alcuni turisti, ma la stragrande maggioranza sono argentini, uomini e donne e ragazze in abito da sera, scollate, con le belle spalle scoperte. Il cameriere è incazzato di dover servire fuori orario due burini simili, ci porta i piatti con ostentato disprezzo, nella penombra e poi al buio, perché nel frattempo si sono abbassate le luci ed è già cominciato lo spettacolo. Mangiamo al buio i nostri canelones e poi tutto il resto, golosamente, mentre l’orchestra suona in modo indiavolato. Ci sono una quindicina di persone tra orchestrali, ballerine, cantanti. Rifanno tutta la storia del tango, da quello dei quartieri poveri con le donne dalle sottane lunghe e le risse con i coltelli fino a quello di adesso con le ballerine scosciate. Io e Giovanni continuiamo a mangiare al buio, estasiati come due campagnoli in città, mentre meravigliose ballerine dalle schiene scollate e diritte passano a fianco del nostro tavolo per raggiungere il palcoscenico, ogni volta con costumi diversi. Durante il più ardito dei tanghi, mentre una ballerina si rovescia scosciata con le mutande in vista, un vecchietto seduto a una tavolata vicina emette un incontrollabile gemito da polluzione e rovescia nello stesso tempo fragorosamente un bicchiere, rimproverato con durezza dalla moglie seduta vicino, nel buio. Poi, d’un tratto, un cantante imbrillantinato vestito come un manichino viene a porsi proprio di fronte al nostro tavolo. Comincia a cantare a squarciagola, con voce tenorile, col braccio alzato. Il riflettore ruota su se stesso e ci illumina spietatamente. Tutte le teste nella sala si girano adesso verso di noi. Non so cosa fa Giovanni. Io continuo a biascicare a testa bassa quanto resta del mio budino allo stato semiliquido, con gli occhi sbarrati.

Al ritorno nel nostro hotelito, di notte, salendo su per le scale e lungo le ringhiere, ci si para di fronte agli occhi una scena incredibile: nella sua stanzetta fatiscente dalla porta spalancata, il vecchio paralizzato, gobbo, deforme, che beve sempre il mate, è completamente nudo, di schiena, col culo girato verso la porta, offerto, al termine della spina dorsale deviata, forse nel tentativo di arrapare due o tre ragazzi che stanno confabulando a poca distanza dalla porta, sul ballatoio. La scena ci passa rapidamente di fronte agli occhi, irreale. “Ho visto bene?” sussurro a Giovanni. “Sì, sì” mi risponde. Passiamo oltre, arriviamo fino alle nostre stanze. Cominciamo a ridere fino alle lacrime, piegati in due contro la ringhiera. E anche dopo, a letto, non riesco a dormire perché continuo a ridere da solo fino alle lacrime, incurante delle grida spaventose che ogni tanto arrivano da una delle stanze vicine, dove due stanno litigando selvaggiamente e sembrano sempre sul punto di accoltellarsi, un po’ rido e un po’ provo commozione e rispetto pensando a quella povera larva di vecchio esibizionista, ridotto in quelle condizioni eppure, a dispetto di tutto, ancora pieno di una simile vitalità in quel piccolo, invisibile buco fatiscente in una città sterminata in un punto cieco del mondo.

La mattina dopo, quando andiamo da Laura, vediamo che lei è chiusa, incazzata. Non risponde quasi. D’un tratto prorompe in un’affettuosa sfuriata contro me e Giovanni, che deve essersi portata dentro da ieri e adesso sta suppurando. Ci dice che siamo degli irresponsabili, che ieri non dovevamo allontanarci dalla zona franca del Boca, che dovevamo dar retta subito agli avvertimenti che ci avevano lanciato quelle persone, che siamo stati anzi fortunati ad avere incontrato altri che ci hanno avvertito, che non ci siamo neanche resi conto che stavamo entrando nell’enorme quartiere delle Barracas, dove non consegnano neanche la posta perché i postini non ne uscirebbero vivi, dove se andava bene ci rubavano tutto e ci riempivano di botte, dove le persone spariscono e finiscono nelle discariche, la gente vive barricata nelle case, non apre le porte. Non vi siete fermati neanche al primo avvertimento, neanche al secondo, avete tirato diritto, c’è voluto alla fine qualcuno che vi ha letteralmente fermati, lo avrà fatto perché non voleva grane, c’è in giro una campagna a favore del turismo, Buenos Aires è tappezzata di manifesti dove si dice che i turisti portano ricchezza, che bisogna trattarli bene, ecc… Non li avete visti? Quando capita qualcosa ai turisti sono rogne, si mettono in mezzo le ambasciate, i governi… Dovete stare più attenti. Se vi puntano un coltello alla gola non dite niente, dategli tutto quello che avete! Ma so che voi non mi ascolterete perché siete degli irresponsabili. E poi anche il vostro comportamento è sbagliato, non tenete conto della realtà del posto, vi fate notare subito, vi sedete per terra, parlate a voce alta, qui queste cose le fanno solo i negros, e siccome non siete negros vi qualificate subito come persone fuori posto, e poi anche i vostri vestiti non vanno bene (in effetti io non mi vesto come un argentino, Giovanni va in giro in mutande e con le ciabatte infradito, nonostante abbia cercato di mimetizzare il suo prezioso carico di apparecchiature fotografiche in un sacco schifoso), questo è un paese strano, violento, traumatizzato. Vedrete alla Plata come vivono le persone, quante serrature alle porte! Certe volte attaccano anche le macchine, spaccano i finestrini, assalgono le persone, le spogliano, le pestano, le fanno fuori, gettano qualcosa di grosso in mezzo alla strada, dai marciapiedi oppure dai buchi delle finestre, un cadavere, un animale, per costringere la macchina che passa di lì ad arrestarsi per lo spavento, escono all’improvviso dalle case, le assalgono in molti, tirano fuori le persone che ci sono dentro dai finestrini sfondati. Lo vedete anche voi, di notte bisogna prendere i Remise perché i taxi non sono sicuri, vicino all’ascensore di questa casa – che pure è una delle più nuove e più belle della via – c’è un cartello con su scritto che non ci si assume nessuna responsabilità su cosa può succedere alle persone durante il tragitto in ascensore, dobbiamo venirvi ad aprire giù di persona quando suonate perché qui non ci sono gli apriporta ai citofoni, per ragioni di sicurezza…

Le diciamo che terremo presente, che le siamo grati per l’affetto, che faremo i bravi. A poco a poco si tranquillizza. Porta in tavola una di quelle incredibili torte che ci sono qui, di nome alfajor, tutte bianche per la glassa, la meringa, con vari strati geologici di dulce de leche all’interno, una merdina deliziosamente dolce simile alle vecchie caramelle mou. Ne divoro due grandi pezzi. Alla fine Laura mi fa addirittura una spremuta d’arancia, con una di quelle schifosissime arance piene di macchie e che sembrano crivellate da colpi di mitra che ci sono qui e che invece all’interno sono dolcissime. Parliamo d’altro, tranquilli. Poi andiamo nel quartiere Palermo. Per pranzo mangiamo il solito bife in un locale di legno. Sulla strada, all’esterno, si ferma un camion del ghiaccio. Scende un ragazzo con un grande sacco pieno di cubetti e lo porta dentro. Appesa al muro, di fronte ai miei occhi, c’è l’enorme fotografia ingrandita di una donna completamente nuda e col pelo pubico in evidenza, assolutamente identica alla padrona del locale che in questo momento è dietro il banco e sta riempiendo tranquillamente un paio di bicchieri ghiacciati di cerveza tirada.

“È vero, è giorno – e allora? / Ti leverai per questo dal mio fianco? / Perché dovremmo alzarci, perché fa giorno? / Siamo andati a letto perché era notte?” John Donne

Giovannetti dice che in questi giorni riuscirà di sicuro a farmi una bella fotografia, di quelle che piacciono a lui e di cui andare orgogliosi, che quelle che mi ha fatto negli anni scorsi non gli piacciono per niente, non le riconosce come sue, non le firma, erano state fatte in fretta, in luoghi non appropriati, al Salone del libro di Torino. “Non ci riuscirai neanche qui!” gli dico io. “Non riuscirai mai a farmi una foto decente! Non per pochezza del fotografo, ma del soggetto. Appena uno mi pianta un obiettivo davanti io divento un pezzo di legno, uno stoccafisso, non riesco proprio a mettermi in posa con naturalezza”. “Sì che ci riuscirò!” risponde lui. “Impossibile!” ribatto io. “Ci riuscirò! Ne sono sicuro!” “No, no, è impossibile, io non vengo letteralmente in fotografia, quella che si vede alla fine è un’altra persona, io non ci sarò comunque là dentro!”

Incontro con Dal Masetto alla Recoleta. È un quartiere residenziale, elegante, con poliziotti a cavallo in giubbotto antiproiettile e grandi viali, aiuole verdissime, luce accecante, alberi rigogliosi, anche qui un enorme gomero, il palo borracho con la sua pancia da ubriaco nel mezzo, una chiesa bianca piena di grandi retablo ad ogni cappella e statue dipinte, la Dolorosa, un Gesù ricoperto di ferite e con la corona di spine in testa, seduto tristemente e con la testa appoggiata al pugno come nella “Melancholia” di Dürer, un’immagine della passione di Gesù che non mi era mai capitato di vedere prima in Italia e che pare invece sia abbastanza comune qui in sudamerica. Giovanni fotografa Dal Masetto. Io mi diverto a fotografarli entrambi durante gli scatti. Dico a Giovanni che le fotografie buone sono qui, dentro la mia piccola macchina da schiacciabottoni, non nella sua professionale, che io lo porto in giro facendogli credere che sia lui il fotografo mentre in realtà sono io. Lui dice di rimando che i miei libri li ha scritti lui.
Andiamo a bere una cerveza con Dal Masetto. C’è con lui anche la figlia, una bella ragazza dal viso morbido, mobile. Dal Masetto ci racconta che una volta era stato mandato a Mendoza da un giornale, per scrivere degli articoli sulla stagione sciistica e sull’efficienza di impianti e alberghi appena inaugurati sulle Ande. Ma quell’anno non era caduto un fiocco di neve. Lui stava in albergo a Mendoza, mangiava e beveva a spese del giornale, andava ogni giorno a telefonare sulle Ande per chiedere se c’era neve ed essere pronto a salire per scrivere gli articoli da mandare al giornale. Dall’altra parte gli rispondevano sempre di no, che la terra era asciutta come un palmo di mano. Lui richiamava il giornale e diceva che la neve non c’era. È rimasto là per un po’, in quella città-oasi in mezzo al deserto, ai piedi delle Ande, mangiando e bevendo a sbafo, senza fare niente, finché la cosa non è stata più sostenibile e l’hanno fatto tornare.

Visita al cimitero monumentale della Recoleta. Quante cose si capiscono di un paese entrando nei suoi cimiteri! Tutta una rete di strette strade sigillate dalle muraglie delle cappelle di famiglia, le barriere dei caseggiati fino a ridosso delle tombe, tutt’intorno. Grandi tombe come palazzi in miniatura di marmo nero, riproduzioni in scala di templi greci, accostamenti kitsch, riprese dalle architetture del paese di origine di ciascuna potente famiglia che se ne è fatta costruire una parodia funeraria, targhe che esaltano le virtù militari dei generali sepolti, la loro difesa dei valori, della cristianità, il loro patriotismo, la loro hidalguia… Accidenti, che virilità, che coraggio militare, che patriotismo, che hidalguia ci vuole a prelevare di notte persone inermi dalle loro case e ragazzini dalle scuole e dai bar e stenderli sui tavoli di tortura! La statua della sepolta viva, la tomba in marmo nero di Evita. Una piccola, spettrale città dei morti delle famiglie potenti dell’Argentina, dichiarata monumento nazionale ed elemento di status, una mortuaria arroganza fiabesca, una grottesca Disneyland funeraria. E, anche qui, stradine disselciate, tombe abbandonate, dai vetri sfondati, loculi dalla lastra di marmo spaccata e invasi da erbacce, da cui fuoriescono bare, grandi ossa annerite, allo scoperto dietro cancelli con la vetrata sfondata e di fronte alla quale hanno staccato le targhe di bronzo, femori, tibie, il rigonfiamento nero delle articolazioni… Bisognerebbe bombardare i cimiteri! Bisognerebbe bombardare queste grottesche case dei morti fatte a immagine e somiglianza dei cosiddetti vivi!

“Tutto è in frantumi, ogni coesione è svanita, ogni equità e ogni relazione; principe suddito, padre figlio, di cose simili non si ha memoria”. John Donne

C’è un locale dove si mangia, in una traversa di Corrientes, dove uno dei vecchi camerieri ha la faccia uguale identica a quella del poeta Giovanni Giudici. Un paio di volte – dice Laura – lei e Nic avevano pagato il conto con una banconota. Giovanni Giudici l’aveva portata via normalmente. Ma dopo un po’ era tornato sostenendo che era falsa. Loro se l’erano ripresa senza fiatare e gliene avevano dato un’altra. In realtà probabilmente la banconota era buona, Giovanni Giudici l’aveva scambiata con una falsa, che aveva poi riportato a loro, mentre lui si era tenuto quella buona. E il gioco era fatto!

Per questo, stavolta Laura, prima di pagare, palpa un attimo la banconota, come un’usuraia, la guarda con espressione da intenditrice consumata, come per dire che la verifica l’ha già fatta lei o che ha capito il gioco e che quindi non si provi a rifarlo…

(continua)

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Pubblicato su “Fernandel” n. 2, luglio-settembre 2003. Le foto sono di A. Moresco.

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