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Qualcosa che viene da lontano #1

di Piersandro Pallavicini

muin1.jpgViene difficile anche solo definirli, tanto le etichette sembrano tutte inadeguate se non, in qualche caso, persino sottilmente offensive: scrittori migranti, scrittori allofoni, stranieri che scrivono in italiano, scrittori (e qui, francamente, sale un brivido d’orrore) “extracomunitari”… E ulteriore incertezza c’è sui confini di questo recinto, poichè di sicuro vi rientra chi è nato altrove, si è spostato in Italia ed è riuscito a padroneggiare abbastanza la nostra lingua da saperci scrivere racconti e romanzi, ma anche, per una specie di contiguità culturale, chi è figlio dell’immigrazione e ha l’italiano come prima lingua. E ancora: con quale metro giudicare i libri di questi scrittori? Occorre considerarne il contenuto in connessione alla biografia dell’autore (e dunque tener conto, se del caso, del valore aggiunto che viene dalla testimonianza sociale), oppure cancellare nome cognome e quarta di copertina e leggere, per farsi un parere sul libro come tale?

In ogni caso, questo sfuggente insieme di scrittori emana fascino ed esercita attrazione: un po’ per la possibilità che offre di esplorare un fenomeno dei nostri tempi (l’ibridazione, il mescolamento) attraverso lo strumento privilegiato della scrittura, un po’ per il desiderio di rinnovamento della narrativa italiana che sopra gli viene proiettato, e un po’ anche per la curiosità, tutta da lettori, che ci fa chiedere se sia possibile trovare finalmente in libreria l’equivalente italiano dello sguardo obliquo e multiculturale di un Hanif Kureishi o di un Salman Rushdie.

UN PO’ DI CRONOLOGIA. Si può andare indietro fino al 1990 per trovare le prime uscite inscrivibili nell’insieme “scrittori migranti”. Uscivano, in quell’anno, due libri che hanno riscosso una certa attenzione: il romanzo di Pap Khouma Io venditore di elefanti (Garzanti) e quello di Salah Methnani, Immigrato (Theoria). L’attenzione veniva dal fatto che entrambi i romanzi colpivano duro per forza testimoniale. Erano gli anni in cui l’immigrazione cominciava ad avere un impatto realmente visibile ed erano, anche, gli anni in cui con agghiacciante leggerezza, e persino in occasioni istituzionali e nei media, si usava l’orrendo appellativo vù cumprà, e ogni arabo, se non ogni africano, lo si chiamava semplicemente marocchino. Ed ecco arrivare un libro scritto proprio dal “vù cumprà” Pap Khouma (senegalese, passato attraverso l’esperienza di ambulante) e uno scritto dall’arabo (tunisino) Methnani, che gli squilibri, le umiliazioni e le sofferenze dell’esperienza migratoria ce li mettevano chiari davanti agli occhi, dentro lo strumento cristallizzante e accreditante che è il libro. Ed erano libri ben redatti, ben confezionati, capaci di suscitare l’indignazione e l’empatia del lettore, magari anche di quello politicamente schierato nella fogna delle nuove destre e delle leghe. Libri, però, scritti a quattro mani con, rispettivamente, il giornalista Oreste Pivetta e lo scrittore Mario Fortunato.

Con questo esordio, allora, già si sono rese evidenti tre delle caratteristiche che continueranno ad appartenere a molti dei testi pubblicati dai “migranti”: la testimonialità autobiografica, la valenza politica di denuncia, e la scrittura incerta, che necessita di editing o addirittura co-scritture o che, se lasciata “libera”, non funziona bene. In quegli stessi anni ecco infatti libri simili: Chiamatemi Alì di Mohamed Bouchane (Leonardo, 1990), La promessa di Hamadi di Saidou Moussa Ba (De Agostini, 1991), Volevo diventare bianca di Nassera Chohra (e/o, 1993) e Lontana da Mogadiscio di Shirin Razanali Fazel (Datanews, 1994). Ed ecco il nodo: l’urgenza, la famosa “necessità di scrittura”; la spremitura nei propri testi dell’essenza speciale e indefinibile e personale che dev’essere propria del vero scrittore; la ricerca di uno stile, l’essere insomma scrittori anche attraverso l’invenzione di una propria lingua, di un proprio suono… ebbene: in questi libri medicati e filtrati, in buona parte mancano. Eppure, questi libri, ancora oggi, a distanza di oltre dieci anni dalle vicende di cui sono stati testimonianza, meritano una lettura. E la meritano non solo perchè continuano a metterci nudi di fronte alle nostre coscienze (giacchè, come italiani, non molto siamo cambiati in quel viscido razzismo che ci ostiniamo a negare), ma anche per come oggettivamente generano empatia verso i loro protagonisti, che si sovrappongono ai loro autori. Quanti libri riusciamo a leggere, che ci scuotono talmente da voler chiedere scusa o mandare un abbraccio a chi li ha scritti? E se anche questi libri non sono letteratura, e se anche questo trasporto può sembrare ingenuo e buonista, quante esperienze di lettura così intense riusciamo a provare, pescando nel catalogo delle novità italiane e straniere?

(continua)

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[PUBBLICATO SU PULP LIBRI – SETTEMBRE 2003]

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