L’Italia e il furore civile degli scrittori

di Carla Benedetti
images.jpgGli scrittori italiani non sanno raccontare il mondo in cui viviamo. Gli scrittori italiani sono pieni di intelligenza e talento ma tra di loro non c’è nessun Wallace, nessun Houellebecq, nessun Palahniuk, nessun De Lillo. Gli scrittori italiani sanno solo ricamare romanzetti. Gli scrittori italiani sono “tanti Del Piero che giocano con le pinne, tanti Mike Jagger che cantano con la caramella in bocca”. Queste cose le dice lo scrittore italiano Mauro Covacich (“L’Espresso”,15 gennaio 2004), mettendo dentro anche se stesso.
Penso perciò che la sua sia un’esternazione accorata, espressa con dispiacere, probabilmente sgorgata da un’esperienza soggettiva di frustrazione. Ma basta l’accoramento a dare forza di verità a un cliché, a un pregiudizio?

Quello che Covacich ripete è infatti il solito lamento sull’insufficienza della letteratura nazionale (alzi la mano chi non l’ha già sentito almeno una volta!), che da tempo imprecisabile non smette di inebetire molti dei nostri critici letterari, a volte anche i più intelligenti, predisponendoli alla cecità nei confronti di tutto ciò che di nuovo, importante e fuori dai codici si sta elaborando in Italia.

Nei decenni il ritornello è stato ricantato un’infinità di volte, con un certo numero di variazioni, ora accentuando il fattore del ritardo culturale rispetto alle altre nazioni, ora le deficienze dei lettori, ora il disamore degli scrittori per la realtà, ora la loro predilezione incallita per gli esperimenti sulla lingua che impedirebbe la formazione di una solida tradizione romanzesca. Pregiudizi che spesso nascondono pigrizia, rigidità di schemi mentali, e talvolta anche sudditanza a modelli letterari favoriti dal mercato.

A furia di ripetere il ritornello forse ci sarà anche qualcuno che ci crede. Ma certamente questo tipo di sguardo sulla letteratura contemporanea, così sommariamente statistico, così rozzamente astratto, che fa a meno di confrontarsi con singole opere e individualità, non ha nessun peso fuori dalle chiacchiere giornalistiche. Anche il lettore più sprovveduto ci mette poco a guadagnare un’altra prospettiva. Io per esempio penso spesso a quell’anziano signore triestino che agli inizi del Novecento aveva pubblicato a proprie spese dei capolavori, mentre c’era chi lamentava – e tuttora lo si fa – l’assenza del grande romanzo in Italia. I letterati suoi connazionali dovettero aspettare l’arrivo di un occhio straniero, l’occhio senza pregiudizi di James Joyce, per accorgersi che esisteva un grande romanzo come La coscienza di Zeno.

Non c’è quindi nessuna novità nel lamento di Covacich, se non nella provenienza. Per la prima volta a ripetere il cliché non è un critico ma uno scrittore, che quindi lo rivolge anche contro di sé. Come quel cretese che diceva che i cretesi mentono. Come dobbiamo prenderlo? Come dovremo leggere in futuro ciò che scriverà questo scrittore italiano convinto che gli scrittori italiani non sono in grado di raccontare l’epoca? Cosa c’è mai in Italia che impedirebbe a lui, se lo vuole, di confrontarsi con la realtà e di “prendere il mondo per le corna”?

L’Italia è stata spesso oggetto di riflessione amara, quasi un pensiero malinconico, per scrittori e pensatori italiani: Leopardi, Gobetti, Gadda, Gramsci, Pasolini. Ma loro non accusavano la mediocrità della letteratura italiana. Accusavano il costume, l’insufficienza etica della nazione, il suo essere dolorosamente diversa per storia e ethos da altre nazioni europee. Registravano un groppo, un termine di conflitto, se non addirittura un trauma.

Gadda parlò persino di “ambiente-palude” quando, nel 1924, da poco rientrato dall’Argentina, decise di tentare la via della scrittura e mise mano a un romanzo, intitolato Racconto italiano di ignoto del novecento, che poi non portò a termine, ma di cui ci resta una grande quantità di appunti. In una delle prime “note compositive” di questo romanzo il tema che subito emerge è l’Italia: “Uno dei miei vecchi concetti è l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano. Mio annegamento nella palude brianza”. E ancora: “Tragedia delle anime forti che restano impigliate in questa palude… E’ questa una caratteristica della storia sociale d’Italia: (Foscolo andato a male, Scalvini suicida, etc. Rinascimento; Risorgimento: migliaia di esempi. Dante stesso)” .

Così molti scrittori italiani, persino qualcuno di quelli a cui Covacich rimprovera di non far risuonare la realtà del nostro tempo, si sono trovati in un conflitto strano, sconosciuto a altre nazioni europee: non con un potere dittatoriale, apertamente repressivo, ma con cecità, schematismi, retorica, semplificazioni, ipocrisie: un nemico informe che sta dappertutto, forse radicato nel costume stesso degli italiani, per usare l’espressione di Leopardi, ma comunque un nemico interno, che fa capolino anche in quella che Pasolini chiama la “scienza italianistica”, cioè nella collusione innocente col potere, e anche in quello che per snobismo o altro si ostina a non voler vedere ciò che si produce in Italia. Perciò in questi scrittori non trovi semplicemente una passione ma quasi un furore civile.

Invece nelle parole di Covacich non c’è furore. Ce n’è così poco che il suo disagio di essere scrittore italiano può persino esprimersi attraverso il luogo comune proprio della palude, quello che continua a derubricare le voci “diverse”, non conformi ai codici dominanti, che per fortuna comunque ancora si alzano in lingua italiana. E che, per fortuna, riescono anche a trovare ascolto, da qualche parte, per vie imprevedibili, nonostante ci sia sempre qualcuno che dice che non c’è proprio niente da ascoltare.

Temo poi che Covacich abbia un’idea schematica, e quindi repressiva, dei modi in cui si può raccontare la realtà. Un’idea cronachistica, o sociologica, forse vagamente lukacsiana, in cui basta mettere dentro i terroristi, le guerre, il “reality show” della vita teletrasmessa, e tutte i terribili e strabilianti ingredienti di cui sono fatti i telegiornali. Ma la realtà del mondo non è così in vista, sopra gli scaffali del supermercato, a portata di mano e di carrello, e talvolta per esprimerla si deve passare per postazioni strane (Pasolini sosteneva addirittura che “solo chi è nel mito è realistico”), per mutamenti di prospettiva, per sfondamento di convenzioni consolatorie, e magari anche per la scelta di “raccontare storie di paesaggi”, come ha fatto uno degli scrittori a cui Covacich rimprovera di non far sentire il mondo, proprio perché racconta paesaggi. A volte c’è persino bisogno di parlare delle ferite delle piante nei giardini, di uomini trasformati in insetti, di colli invasi da ville e villule e dal fogliame del banzavòis, di visioni, di corpi che si sdoppiano, e persino di donne dalla testa espansa.

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Pubblicato su “l’Espresso” del 6 febbraio 2004

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4 Commenti

  1. Condivido ogni parola. Dovremmo tutti evitare di soggiacere a quello che Savinio chiamava “il ricatto del presente”. Che non significa, va da sé, rifiutare il presente.

  2. Un articolo che dice la verità. Anch’io come Riccardo penso che Covacich si sia trovato a scrivere in un momento di sconforto. Capita a tutti.

  3. aria fritta, non avevamo gia’ dato ? (blog di giuliomozzi). Ci si sporcasse le manine un po di piu’, suvvia. Vorrei leggere di quella donna che ha tentato di uccidersi con le forbici, a seguito dell’andata in fumo di tutti i suoi risparmi (bond parmalat)…Steinbeck ha scritto cose degnissime raccontando di quello che vedeva nel ’29. (poi arrivo’ postumo-’62- il nobel)…

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