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Evviva l’Italia!

di Benedetta Centovalli
ghostpic.jpg Dicevamo strano periodo, questo. Nei primi tre mesi del 2004 un significativo numero di raccolte di racconti italiani, e sottolineo italiani, ha inondato le librerie. Si vede che lo stato di salute della nostra narrativa non è poi così malandato. Si vede che sono in tanti a pensare che valga la pena misurare la temperatura della nostra capacità di rappresentare il Paese e noi stessi.
Seconda tappa di questo viaggio nello stivale che scrive è Viva l’Italia, a cura di Oscar Iarussi, sottotitolo Undici racconti per un paese da non dividere (Roma, Fandango, 2004), e cioè testi di: Massimo Carlotto, Roberto Cotroneo, Giancarlo De Cataldo, Luciano Doddoli, Lisa Ginzburg, Edoardo Nesi, Lidia Ravera, Giampaolo Rugarli, Luigi Serafini, Emanuele Trevi, Sandro Veronesi. Un manipolo consistente e eterogeneo di scrittori che testimoniano il loro impegno verso quella cosa che non possiamo non chiamare patria. Ritratto secco e non indulgente del Paese, a tratti lieve a tratti fosco, con sguardi che provengono da generazioni diverse.

C’è un’equilibrata presa di posizione politica nei riguardi dell’attualità, e ci sono da parte del curatore preoccupazioni che corrono più svelte di altre, come quelle per i localismi della Lega nord, o per il difficile rapporto che abbiamo con la storia nazionale, oggi aggredita da continue forme di revisionismo in molti casi intollerabili. Certo è che la patria resta un concetto da maneggiare con cura, a rischio continuo di scivolare verso il fascismo o il nazionalismo che di rado indossa i colori della ragione. Abbiamo lo scorso anno assistito a momenti di vero trionfo patriottico che si sono sempre coagulati intorno alla retorica del lutto: dai funerali di Giovanni Agnelli a quelli di Alberto Sordi, fino alla tragedia dei carabinieri di Nassiriya. Ed è un peccato che ci debbano essere sempre dei morti per recuperare le spoglie di un sentimento nazionale, per elaborare un’idea di patria che non sia solo quella dei professionisti del dolore. Sono invece in disaccordo sull’affermazione che i racconti siano poco «militanti», «anzi, talvolta, – prosegue il curatore – con i tratti del ricordo o del presagio, insomma dell’estraneità al presente, sempre con quelli del sentimento e dell’emozione. Ma questo era l’intento: un promemoria italiano».
Perché sentire il bisogno di prendere le distanze dal presente, di mettere le mani avanti come per dire che tutto questo non ci riguarda da vicino, di usare il filtro della letteratura per attutire il disagio che sentiamo? Un libro di testi sull’Italia di oggi è naturalmente un lavoro militante, perché negarlo? Che senso dare alle paternità – da Federico Chabod a Carlo Ginzburg – dichiarate? Paura dell’impegno travestito da lupo?
Ma occupiamoci dei racconti. Carlotto scrive una storia, Tanos, di emigrazione italiana in Argentina e ritorno nella provincia veneta. C’è la tragedia di chi se ne va in cerca di fortuna, poi il balocco si rompe ed è costretto a tornare. Allora non è più italiano né argentino, non è più nessuno: «Quando ci ritroviamo tra argentini commentiamo l’ignoranza che ci rende difficile vivere in questo nordest… In Argentina eravamo tutti emigrati, nessuno si sentiva straniero. Il tango era il ponte tra il passato e il presente ma qui nessuna musica ha senso». Riaffiorano le storie di Laura Pariani e una in particolare dedicata al nonno, Lo spazio, il vento, la radio, pubblicata nella raccolta Il pettine (Palermo, Sellerio, 1995): «Questa sensazione di spazio, di libertà immensa, è qualcosa che ti cambia la testa. A volte la riprovo ascoltando un vecchio tango: è l’America, l’esser soli in una terra straniera, cambiamento, rischio di perdere la propria identità, desencuentros, sradicamento…».
All’eccentrico nonno della ragazzina che deve scrivere un tema sulla patria nel racconto di Rugarli, La patria sotto la pioggia, è affidato il compito di difendere la memoria: «Perdio, solo il passato ha speranza di durare, di resistere…»; mentre nel racconto di Lidia Ravera, Sopia Sorrento, il Paese si ricompone nell’amicizia ritrovata a distanza di anni per la compagna «meridionale» amatissima e capofila delle più sciagurate e povere della classe di chi narra.
In Possagno Emanuele Trevi mette insieme la Paolina decapitata, una vecchia leghista con il naso aquilino, una telespettatrice in cerca di un futuro più affettuoso in una trasmissione sui tarocchi e un autoritratto del Canova a espressività zero che si affaccia sullo stesso buio che ha alle spalle. È l’immagine di qualcuno che aspetta nel buio. Mentre Prato di Sandro Veronesi è un reportage sulla fine del paese delle stoffe e sulla città cinese dove forse la via d’uscita è un’economia di turismo e magari d’arte.
C’è questo e c’è altro in questo libro di storie sul Paese del c’era una volta.
Poi sull’essere italiani, italiani veri, Edoardo Nesi ci regala un post-it:
«L’Italia è il più bel posto del mondo. / In Italia c’è la mafia. / La pizza è italiana. /La Ferrari è italiana… / Il campionato di calcio è il più bello del mondo. / La pasta è italiana. /L’Italia è uno stivale. / Viva l’Italia!».

Pubblicato su Stilos del 30 marzo 2004

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