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Cose tipo la vita e la letteratura

di Christian Raimo

albero.jpg Sono arrivato a Torino con il treno alle sette e cinquanta del mattino, con un cielo di ghiaccio. Appena sceso ho telefonato a una ragazza a Roma a cui avevo pensato tutto il viaggio, dormendo e non dormendo sul sedile allungato. L’ho trovata a casa che stava per uscire. A lei faceva piacere sentirmi ma non nel modo perentorio che io mi aspettavo. Scrivo queste cose brutalmente biografiche perché vedrete avranno un senso.

Alle 10, alla scuola Holden, Philippe Forest avrebbe parlato con gli studenti del suo testo “Il romanzo, il reale” (pubblicato, dalla collana Holden Maps della Rizzoli, con una prefazione molto curata e dialogica di Gabriella Bosco): un libretto abbastanza esile, tra il pamphlettistico e il divulgativo, una sorta di precipitato sintetico delle teorie letterarie di questo quarantenne critico/professore francese formatosi studiando il gruppo di “Tel Quel”, in un rapporto molto privilegiato con lo scrittore Philippe Sollers – che fu appunto uno dei centri di gravità della rivista.
La scaturigine di questo saggio è proprio un’occasione: una conferenza+dibattito del 1998 in cui Forest sentì la necessità di fare il punto. Ossia: di tracciare delle linee di discrimine tra una letteratura diciamo di consumo e una letteratura che fosse invece riflesso di un’urgenza non commerciale, dove questa seconda possibilità viene spesso data per morta, o meglio, considerata con l’indulgenza con cui si guarda a una reliquia culturale.
Ma la sfida più ardita in realtà sembrava già rendere legittima la domanda del sottotitolo del libro: “Un romanzo è ancora possibile?”. La verità è che i richiami d’allarme quali “È morto il romanzo” sono spesso sassi che nello stagno del dibattito affondano insieme al loro oggetto di discussione. Qualcuno vede il bisogno di parlare della potenza della pratica narrativa? Questo qualcuno non si rivelerà spesso un critico militante un po’ naïf o un romanziere sperimentale che poi alla prova dei fatti scrive dei mattoni illeggibili? La retorica della resistenza culturale non sa spesso di declaratio non petita?
Nei giorni precedenti e sul treno mi ritornava in testa qualche mia riflessione slabbrata su quali sono oggi i doveri della letteratura. Avevo pensato: prendiamo quella che forse è la più grande mitopoiesi simbolica degli ultimi anni: il crollo delle Torri Gemelle. La definizione narrativa di quell’atto, come negarlo?, fece esplodere i limiti di qualsiasi capacità rappresentativa. Quando si disse: “Sembra un film” si trattava pur sempre di un eufemismo perché quella particolare eventualità nessuno sceneggiatore l’aveva messa in conto: era sensibilmente oltre l’immaginazione. Gli scrittori chiamati in causa, come e più degli altri (in quanto rappresentanti di un’umanità ferita), ammettevano la propria impotenza, restavano in silenzio, si facevano scudo di armi un po’ moralistiche, del proprio talento scrittorio, fino a trovarsi spesso a esprimere una delle possibili versioni della retorica dell’inadeguatezza, a dar voce a un’elegia della mancanza di parole di fronte all’orrore del reale: in ogni caso, come si vede nella raccolta di interventi sull’11 settembre edita da Einaudi, ne uscivano surclassati. La narrazione creata dai terroristi, quella rappresentazione dell’apocalissi, “vinceva” su qualsiasi altro tentativo di difesa teorica, di ellissi, di resistenza simbolica.
Questa mia impressione – confermata anche da alcuni romanzi del post-11/9 come Cosmopolis di DeLillo, che dalla fascinazione fatalistica si facevano irretire – qualche giorno prima aveva però sbattuto contro un’opera fondamentale (nel senso più comprensivo che si può dare a questo termine): American Ground, un libro di William Langewiesche composto da tre reportage: uno sulla ricostruzione dell’attentato alle Twin Towers, gli altri due sui lavori di rimozione delle macerie delle torri nei mesi successivi. L’atteggiamento di Langewiesche di fronte al disastro non era quello dell’estasi afatica o dell’apocalissifilia, ma quello di colui che è chiamato a visitare l’assurdità, e che va a dar conto di quell’evento nel momento in cui non si fa schiacciare dall’imposizione di altri apparati simbolici, vuoi terroristici vuoi patriottici vuoi di morale compunzione. Gli uomini che lavorano a Ground Zero diventano portatori di una storia nuova, di una storia che finalmente riparte, in cui l’eroismo convive con la spocchia, in cui la solidarietà si mescola con la meschinità, in cui l’ostinazione è anche paranoia. E noi lettori perdiamo progressivamente interesse per la narrazione segnata dei terroristi e ci lasciamo invece coinvolgere da quella delle rivalità tra poliziotti e pompieri, dai saccheggi notturni tra i resti umani, dalla colazione lasciata a metà quella mattina dell’11/9 in un bar della Deutsche Bank e restata lì a marcire per mesi.
Dalle otto e mezza alle dieci ho girato per Torino in cerca di una libreria per rivedermi i passi di American Ground di cui ricordavo il senso a memoria, ma intorno alla Scuola Holden, a via Dante, ci sono quasi esclusivamente bar e ristorantini tipici, le uniche librerie esistenti vendono perlopiù roba scolastica, e quando ha cominciato a piovere a dirotto, sono corso alla scuola, dove la presentazione è cominciata poco dopo.
Lì Forest si è seduto e ha ripreso il discorso del libro: i suoi obiettivi polemici erano ben chiari. Primo: “l’utopia dell’avanguardia nelle sue forme ingenuamente teleologiche”, ossia quelle parabole di ricerca letteraria che immolano la propria ispirazione a un’ideologia del “nuovo”, del “diverso”, dello “scandaloso”, e che così si proiettano verso una purezza della scrittura idiosincratica, che altro non è che una fatamorgana, un’illusione liberatoria e snobistica. L’appello a una scrittura romanzesca secondo Forest nasce invece da quello che lui definisce “l’impossibile” sulla scorta di Bataille. Essenzialmente: una sfida alta se non vertiginosa: la “rappresentazione dell’irrappresentabile”. Obiettivo che oggi viene spesso sostituito da una sfida esclusivamente condizionata da intenzioni futili, che appaiono necessarie solamente nell’agenda del mercato editoriale, delle “crisi” interne ai dibattiti tra scrittori. L’idea di letteratura all’altezza di questa proposta per Forest è una idea quasi autocontradditoria o quantomeno sovversiva rispetto a ciò che si intende per romanzo stesso.
Ecco allora che mentre parlava, mi pareva di sentire l’eco esatta delle parole della postfazione di Guido Neri a un libro di Sollers, Numeri, che avevo trovato nella mia biblioteca e mi ero portato nella borsa. Sollers, oggi scomparso del tutto dai cataloghi degli editori italiani, era uno dei nomi cardinali della collana argentata che Einaudi stampava negli anni ’70, “La ricerca letteraria”, e Guido Neri lo presentava nel 1973 al pubblico italiano così: “Giustamente Sollers non ha rinunciato al nome di romanzo neppure per questo libro che più che opporsi al genere romanzo, intende disfarne sistematicamente i meccanismi sotto i nostri occhi, mettere in vista la funzione di condizionamento (non solo estetico ma mitologico, quindi economico-politico) cui la forma romanzo risponde di fatto in questa società, in quanto finzione mistificata…”
La massa critica, la massa di testi di quella stagione, occorre ammettere, non è riuscita a tramandare un principio di resistenza, né di autoriflessione, di cui la scrittura può rendersi capace. Molti compagni di collana di Sollers, più che diventare classici, sono stati quasi del tutto dimenticati: Claude Simon (un Nobel), Monique Wittig, Helmut Heissenbüttel, Vera Linahrtovà, Jean Thibaudeau…. a quanti di noi dicono (ancora) qualcosa? Il discorso che compone Forest destava in me lo stesso sospetto di donchisciottismo. Ma seguiamolo.
Il primo esempio che cita nel libro per ribadire la sua fiducia nella possibilità del romanzo è un testo appunto poco paradigmatico, Histoire(s) du cinema di Godard. Il desiderio di sconfinare nelle definizioni ne Il romanzo, il reale va di pari passo allora alla volontà di non abiurare da questo «reale». Che si intende per «reale»? Tutto quello che non è il fasullo «realismo» a cui la letteratura d’intrattenimento ci ha abituato (“sedimentazione di sogni fatta da altri, pesante accumulo di finzioni fossili”). Il secondo esempio che si adatta a questa visione è il surrealismo di Breton. Oppure: quella metaletteratura che – costruendo e al tempo stesso mostrando l’artificio della finzione che è il realismo, e annullandolo tramite questo raddoppiamento – permette di giungere a quel punto di «reale» nel quale “si rinnova e attraverso il quale ci comunica il vero senso della nostra vita”. Questo doppio passo della finzione che si autoproclama finzionale come una specie di anticorpo di se stessa, questo è sicuramente uno dei lasciti importanti del periodo delle avanguardie e del romanzo postmoderno. E in questo caso è possibile rintracciare, se non una tradizione, almeno una continuità, una filiazione.
In questo senso mi pareva indicativa la prospettiva di un David Foster Wallace che tempo fa confessava in un’intervista di esser riuscito a superare il suo seriamente sclerotico blocco dello scrittore – la sua personale crisi di fiducia nelle potenzialità della scrittura – dopo aver letto The baloon di Donald Barthelme. Un paio di anni fa mi andai a scovare questo racconto artefice di tale vocazione. Si tratta della vicenda di un uomo che accompagna la propria donna all’aeroporto, torna a casa, e vede apparire in cielo un enorme pallone aerostatico, del quale tutti si chiedono l’origine e il significato. Il pallone invade l’intera città e poi in modo altrettanto misterioso si ripiega su se stesso e scompare. Il protagonista va a riprendere la donna di ritorno dopo una settimana, e confessa al lettore che quel pallone (e in definitiva l’intero racconto) altro non era che un modo per compensare la mancanza della donna con la quale si era salutato con un rancore inespresso: “La rimozione del pallone fu facile, i camion trascinarono via il tessuto sgonfio, che adesso giace in un magazzino in West Virginia, in attesa della prossima occasione infelice in cui saremo arrabbiati l’un l’altro”.
Anch’io l’anno scorso passai un periodo di sospetto totale nelle potenzialità della letteratura (catartiche, simboliche, rappresentative…) finché non mi capitò di leggere un racconto di Rick Moody, “Demonology”: una short-story per quadri che è il resoconto dell’ultimo giorno di vita della sorella del narratore. Moody alla fine dello straziante racconto scopre impudicamente le carte della sua costruzione letteraria fino al limite dello scrivibile: “Dovrei renderlo più distaccato, dovrei nascondere la mia figura. Dovrei prendere in considerazione le responsabilità della caratterizzazione, […] dovrei romanzare il tutto, […] dovrei fare in modo che l’artificio creasse una superficie elegante, dovrei disporre ordinatamente gli eventi, dovrei aspettare e scriverne più in là, dovrei aspettare che mi passasse la rabbia, non dovrei appesantire di frammenti il flusso narrativo, di mere rimembranze dei bei tempi, di rimpianti, dovrei rendere la morta armoniosa e persuasiva, non brusca e disgiuntiva, non dovrei dover pensare l’impensabile, non dovrei dover soffrire […]”. La dichiarazione di fallimento della costruzione narrativa può valere come soluzione alla crisi di una letteratura che non riesca ad essere incisiva? Forse sì, se si sincera questa crisi nella pagina stessa. Forest sembrava d’accordo: la crisi va appunto accolta nel romanzo. La crisi nel romanzo, e non del romanzo: questa è la possibilità.
Ma continuando a parlare di crisi, avevo idea che Forest lasciasse implicito un passaggio. Quando indicava questo «reale», questo «fondo», questo «mondo dell’impossibile» (citando Bataille), questo «ombelico dei sogni» (citando Freud), questo «centro di sospensione vibratoria» (Mallarmé), insomma questa vertigine linguistica e di senso dove “l’esperienza nuda del testo è anche l’esperienza nuda del reale”, dove “ogni spiegazione si sottrae”, gli ho chiesto se il nome che stava cercando non fosse più semplice: la morte.
Forest è stato nuovamente d’accordo. L’impenetrabilità, l’inobliabilità della morte è la forma principale di questo «resto»: d’altronde lo tiene presente anche nel libro, facendo suo l’interrogarsi di Jean Allouch, quando afferma che, oltre il mistero della differenza tra i sessi l’altra questione che ci accompagna per la vita è: “dove vanno i bambini che muoiono?”
Alla fine siamo arrivati al nodo: il pudore che avevo nell’avanzare un contraddittorio alle tesi di Forest derivava dalla drammaticità della sua esperienza privata. All’inizio mi irritavano un po’ i suoi arbitrari giudizi di merito che dava su questa o su quell’opera, i suoi strali contro il melodramma – sintomo di una “società che fa un discorso fondamentalmente mistificatorio e alienante” sulla morte e sul lutto –, le sue stroncature livide nei confronti dell’Ottavo giorno e delle Onde del destino, considerati romance di bassa lega.
Non mi convincevano soprattutto perché erano discorsi che parevano volersi liberare dalla funzione testuale, sintattica, per andare a trovare legittimazione altrove. Agli studenti della Holden, e a Forest, bastiancontrariescamente, ho letto la postfazione che Busi ha scritto per la nuova edizione di “Seminario della gioventù” (riedito da Adelphi a vent’anni dall’originale): in cui si rivendicava, sostanzialmente, una necessità della letteratura per la vita e non della vita per la letteratura. Lo scopo: quello di mettere in guardia da decostruzionismi facili che rischiano di far cadere la stessa possibilità di costruire.
Detto questo però, alla fine non sono stato meno persuaso dalla retorica di Forest, quando raccontava di aver deciso di dedicarsi alla scrittura creativa – per cui: L’enfant éternel, il suo primo libro – e cioè chiariva l’origine della sua fede nella letteratura. Ha perso sua figlia quando aveva quattro anni. Mi sono sentito con le spalle al muro. E non mi sembrava di essere il solo. La possibilità di veder morire un figlio piccolo è in quell’ordine di idee che – da noi – non pensiamo giustificabili in nessun modo: come Hiroshima, come le Torri Gemelle. E se era vero quel che diceva Busi, che “Con le esperienze, e massimamente con le infanzie e le vecchiaie, per quanto ben speziate e acconce, non si fa Letteratura”, mi sembrava altrettanto condivisibile la sicurezza di Forest: “La collera è quello che spinge più direttamente alla scrittura. Si diventa romanzieri solo se ci si vuole in guerra contro il mondo”. E allora il diaframma tra le due prospettive si restringe, e la scelta sarà (siamo d’accordo no?) semplicemente quella del campo di battaglia, ovverosia: la lingua.
La cogenza del ragionamento di Forest, la consequenzialità della sua teoria letteraria di cui in controluce si scorgeva la ferita di quel lutto, non era da ridimensionare nell’ambito delle prospettive soggettive, ma assumeva ai miei occhi un valore di paradigma. Ogni storia che scriviamo non riflette il peso del mondo che attraversiamo?
Ho ripreso il treno la sera alle sette e un quarto: il colore del cielo si era piombato e aveva ripreso a piovere. In poche ore, consideravo, avevo capito diverse cose: a) che la Holden è una buona scuola, che i pregiudizi sulla “leggerezza” dell’impostazione formativa vanno a naufragare nel momento in cui tutto questo viene compensato da un’abbondanza reale di stimoli diversificati, da un modello vagamente americano di laboratorio-classe che sembra fruttuoso; b) che quel che diceva Forest andava a legittimare molta della ricerca letteraria oggi praticata anche in Italia: quegli scrittori così consapevoli della propria ambizione poetica che cercano di svicolare dalla commessa editoriale del “nuovo romanzo di”, e di perseguire strade non troppo agevoli e forme spurie (Trevi, Voltolini, Moresco, Magrelli…); c) che il ruolo di colui che racconta è quello di uno che è testimone in quanto è superstite; d) che il mio continuo cercare motivi di contrasto con Forest non era poi scollegato dal fatto che volevo sbrigarmi a tornare a Roma: quella ragazza mi era mancata davvero.

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Pubblicato sul numero di marzo della Rivista dei libri

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4 Commenti

  1. … “perché vedrete, avranno un senso” …
    Potrebbe essere che la scrittura sia proprio questo, la promessa di un “senso” che deve inverarsi, però, in un futuro anteriore: per cui avresti dovuto scrivere “avranno avuto” un senso. La sola promessa è messianismo. Il futuro anteriore dice che – in aprés coup – il senso (alla fine della scrittura) sarà stato. Magari perché avrai raggiunto il “reale” che “è ciò che non cessa di scriversi”. Lui, non noi.

  2. sì, la soluzione è tutta in quel cambio di preposizione: “nel” al posto di “del”. hai beckettianamente ragione.

    ps: bel pezzo, comunque.

  3. A margine: mai sottovalutare gli sceneggiatori (un film con le torri che crollavano – mi sembra con Willis – l’avevano in lavorazione, o in uscita).

    Molto a margine: su cinema e torri in due articoli su un quotidiano avevo scritto tra l’altro:

    Bellissime. Altro che la tirchia oscurità nebbiosa dei bombardamenti su Bagdad. Ettari di cristallo riflettono il blu ad alta definizione e il cherosene si riveste degli stessi colori dei migliori film di genere. Queste immagini sono splendide anche al quarantesimo replay. La penetrazione del secondo aereo è uno spettacolo grandioso. Una lama nel burro. No, uno scalpello nel ghiaccio…

    Il carattere cinematografico dell’attacco alle torri è stato abbondantemente sottolineato: antefatti similari, qualità degli effetti “naturali”, ritiro di pellicole potenzialmente allusive in uscita, possibilità di trattamenti cinematografici in futuro.
    Io, intanto, mi sono proiettato un altro film, autarchico e virtuale, con i terroristi che lanciano l’attacco due ore prima con aerei vuoti (rubati, non dirottati), una serie di coincidenze superbamente fiction che evitano altri morti e con finale alternativo di attentatori salvi pure loro col paracadute — o col parapendio. Forse Bin Laden, invece della guerra, avrebbe ricevuto applausi, e pure tre Oscar: miglior soggetto, miglior sceneggiatura, miglior regia.

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