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Il sorriso di Hofmannsthal

di Riccardo Ferrazzi

hfmstl.gifVienna, quasi cent’anni fa. Secondo un modo di dire piuttosto in voga, in ogni strada abita un genio. E non è uno sproposito: nell’arco di una generazione, prima di sprofondare nella guerra e nel disastro, è qui, nella capitale dell’ultimo impero, che tutte le arti e tutte le scienze vengono rivoluzionate. A quanto pare, il fenomeno si spiega con una serie di coincidenze: una lunga espansione economica, un impero multietnico, un imperatore-simbolo che non muore mai, imbalsama le contraddizioni e maschera fino all’ultimo l’agonia di una civiltà.

Tra i letterati, che hanno per missione la sensibilità a ciò che nasce e a ciò che muore, soltanto Hofmannsthal si rivolge con un sorriso a un mondo che si ostina a sopravvivere a se stesso. Nel “Cavaliere della rosa” non ci sono i sarcasmi di Kraus, l’ironia di Musil o i tremori di Kafka. Hofmannsthal contempla con serenità i formalismi desueti, le fisime nobiliari che vanno in archivio. Confida nell’immortalità dei sentimenti. Sorride ai suoi personaggi con la nostalgia di ogni addio e con la vaga speranza di una metempsicosi: quei sentimenti trasmigreranno in altri corpi, in epoche nuove.

Per chi non la conosce, la storia del Cavaliere della rosa è troppo semplice o troppo complicata. In pieno Settecento, il conte Ottaviano, giovane amante di una gran dama (la Feldmarescialla Maria Teresa), deve far da compare d’anel-lo a un nobile volgare e squattrinato (il barone Ochs von Lerchenau) che im-palma per soldi la figlia di un intrallazzatore (Sophie von Faninal). Ma Otta-viano si innamora di Sophie e per screditare Ochs organizza una burla. Alla fine dovrà fare i conti con Maria Teresa, e saranno conti malinconici.

In fondo è una storia risaputa, un antico canovaccio da commedia dell’arte. Ci si traveste, ci si corteggia, ci si inganna. E tutto questo si svolge in pieno “gran teatro del mondo”: nella camera da letto della Marescialla o nel palazzo di città dei Faninal, oppure in una locanda compiacente, è tutto un pullulare di servitori in livrea, maggiordomi, istitutrici, notai, postulanti, modiste, cantanti, suonatori, osti, vetturini, camerieri, poliziotti e intriganti. Hofmannsthal li mette in scena sullo sfondo di una città settecentesca che è Vienna solo per l’uso micidiale dei dialetti, ma potrebbe essere anche Parigi o Napoli (con buona pace di chi vorrebbe ridurre il Rosenkavalier a manifesto dell’austriacità).

All’alzarsi del sipario, i personaggi sono legati l’uno all’altro in un equilibrio di sentimenti semplici: esuberanza, ingenuità, vanità, avidità, malinconia. Ma è un equilibrio instabile, che ha in se stesso i germi della disgregazione. Dopo la crisi del secondo atto e la mezza catastrofe del terzo, il mosaico si ricomporrà in un equilibrio di sentimenti altrettanto precari ma molto più sofisticati. Il finale ingombra la scena di personaggi e comparse, per poi ridurla a una stanza vuota, dove tutto sembra soffocare in un velo di malinconia. E quando sembra ormai acquisita la morale cinica di una favola farsesca, un’ultima invenzione teatrale ribalta ancora la prospettiva. Da un palco nascosto, l’autore-demiurgo sorride come sorridono gli dei nei poemi di Omero.

Cosa è accaduto? Forse niente più che una lunga serie di sorrisi. Ride sotto i baffi il commissario di polizia mentre minaccia di arresto il libertino barone Ochs. Ridono i due intriganti italiani che finalmente agguantano il successo. Sogghignano i quattro bambini prezzolati per strillare “Papà !”, l’oste con il conto in mano, i camerieri che reclamano la mancia, i vetturini che rumoreg-giano nel loro orripilante dialetto. La burla è riuscita. Ochs, sconfitto su tutta la linea, batte in ritirata e tutti sanno che il conte Ottaviano aprirà i cordoni della borsa.

Eppure il conte ha altro da pensare: è preso tra due fuochi dalla Marescialla Teresa, l’amante, e da Sophie, il nuovo amore. Non sa decidersi, e nell’inge-nuo conflitto dei sentimenti non trova di meglio che sorridere. Sophie, abban-donata/liberata da Ochs, vede Ottaviano avvicinarsi a Teresa, tanto più nobile e potente di lei. Vorrebbe sprofondare ma non può: deve far fronte, fino in fondo, e sorride per nascondere l’imbarazzo. La Marescialla sa fin troppo bene che Ottaviano la lascerà, oggi o domani o un altro giorno: il tempo passa, e fermare i pendoli degli orologi non serve a niente. Che si può fare? Nulla. Solo sorridere, e lasciare che le cose vadano per il loro verso naturale.

Sorride anche il padre di Sophie, che non ha capito granché, ma sa che sua figlia sposerà un gran signore (e poco importa se l’amore in poco tempo se ne andrà, questo lo sa anche lui, non è così per tutti?). Oggi tutto è bene quel che finisce bene, dunque possiamo sorridere.

Ecco: tutto crollerà. Il mondo dei borghesi come quello dei nobili. Le illusioni degli amori di gioventù e le malinconie degli amori di mezza età. Il frenetico dibattersi degli avventurieri e i falstaffiani bluff dei nobili strapelati. Ma anche quando gli osti, i camerieri, i vetturini saranno diventati classe dominante, il conflitto tra vitalismo e melanconia riavvierà lo stesso eterno ciclo: innamoramento / fine della passione / sofferenza / tradimento / nuovo amore. Il progresso sociale non può spostare neanche una virgola nei sentimenti.

Cambia solo il punto di vista. In ogni storia, in ogni momento di crisi, c’è un giovane (una classe sociale emergente) che ha il futuro davanti e lo guarda con una speranza così ingenua da far tenerezza. E c’è anche una persona di mezza età (una classe sociale avviata a un inarrestabile declino) che vede più in là del futuro ed è quasi atterrita dal suo stesso cinismo.

“È stata solo una farsa” dice la Marescialla pensando alla sua ultima illusione, “È stata solo una farsa ?” si domanda Sophie, tremando al pensiero che Ottaviano si sia preso gioco di lei. In realtà, dice Hofmannsthal, è sempre una farsa e finisce sempre con un sorriso amaro.
E Ochs ?

Che fine ha fatto il libertino cacciatore di dote, Priapo impenitente, sboccato, volgarotto, allegro e fanfarone? L’hanno cacciato via, come succede nelle farse, smascherato e sconfitto. Ma non del tutto. Ochs, come Falstaff non può morire in scena: è un carattere immortale. E così, quando Ottaviano e Sophie tenendosi per mano corrono verso una fugace felicità, la scena resta vuota. Ma la musica continua. C’è dell’altro. In mezzo al palcoscenico è rimasto il fazzoletto di trina che Sophie ha lasciato cadere. Una porta si apre, il servo negro della Marescialla fa capolino, si avvicina al proscenio, agguanta il fazzoletto e saltellando se ne va.

È adesso, sulle ultime note dell’orchestra, mentre il sipario cala in fretta, che riappare il sorriso di Ochs, il sorriso di Hofmannsthal, il sorriso di chi sa che questa è la storia e doveva essere così.

Pubblicato su “La mosca di Milano”.

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6 Commenti

  1. In nome e per conto (?) del decadentismo più cinico e baro, oltre a fare i complimenti a Riccardo Ferrazzi per il suo bel pezzo sul vecchio Hugo, mi permetto di ripostare qua sotto un omaggio poetico del Nostro, un regalino post (?)pasquale per i lettori:

    CANZONE DI VIAGGIO

    Le acque precipitano, pr ingoiarci,
    crollano i sassi per abbatterci,
    calano già con ali robuste
    su di noi uccelli di rapina.

    Ma a valle si stende un paese
    che nei laghi senza età
    specchia frutti senza fine.

    Fonti di marmo e bordi di fontane
    emergono dai campi fioriti,
    e soffiano venti leggeri.
    (H.v.H.)

  2. Ottimo Ferrazzi, il pezzo è d’alto livello. Mi permetto di segnalare un percorso critico-comparativo: Hofmannsthal-Landolfi.

  3. Volevo farti i miei complimenti, caro Riccardo, ma pare che il mio proposito fosse davvero poco originale.
    Pero’, con Musil, anche solo per quella frasetta, sei stato un cattivo, quanto Musil non credo si meritasse. Ma un pezzo serio cosi’ ti perdona ogni leggerezza.

  4. Caro Marco, come si fa a polemizzare con un editore ? Comunque grazie per i complimenti, e vediamo di intenderci: ho forse detto qualcosa di men che rispettoso nei confronti di Musil ? Se l’ho fatto, giuro, non me ne sono accorto. Musil è l’ironia più intelligente del secolo scorso (almeno per me), l’uomo che chiamava kakania l’impero austro ungarico (Kaiser-Koeniglich) e ne diceva quanto segue: “si spendevano somme enormi per l’esercito, ma solo quanto bastava per rimanere la penultima delle grandi potenze”.
    Se questa non è ironia intelligente…
    Hofmannsthal non ha di queste battute, come non ha i feroci sarcasmi di Karl Krauss, ma ha una partecipazione così profonda alle malinconie dei suoi personaggi da riuscire a ricostruire mondi, archetipi, filosofie. Caro Marco, quando rileggo le opere di certi signori non posso fare a meno di domandarmi se non sono un presuntuoso a scrivere le mie povere cose.

  5. Ok, non ci eravamo capiti sul punto Musil. Credevo che in qualche modo considerassi l’ironia di Hofmannsthal “superiore” a quella di Musil. Tutto più chiaro adesso. Ancora complimenti.

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