Will, Grace, Franco Tritto e la Br # 2

di Giorgio Vasta

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A questo punto diamo un’occhiata a un dialogo che si colloca sul versante opposto a quello di Will & Grace (non “migliore”: semplicemente opposto).
Tanto la sit-com americana è luminosa e siderale, tanto questo dialogo appare brutalmente basso, disorganizzato, involuto, mancante. È un dialogo nel quale le battute – fugaci o prolisse – producono avanzamenti minimi per immediatamente arrestarsi e retrocedere, dove ogni frase è vacillamento e immobilità (insomma, qualcosa che farebbe inorridire qualunque dialoghista della fiction tv).
È un dialogo che è terra, è terrestre. Una scultura di parole modellata, questa volta, nell’argilla.

Mattina del 9 maggio 1978. Le Br telefonano a Franco Tritto, amico della famiglia Moro, per comunicare dove hanno abbandonato il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana.

BR: “Pronto? È il professor Franco Tritto?”. TRITTO: “Chi parla?”. “Il dottor Nicolai”. “Chi Nicolai?”. “È lei il professor Franco Tritto?”. “Sì, sono io”. “Ecco, mi sembrava di riconoscere la voce… Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia”. “Sì, ma io voglio sapere chi parla”. “Brigate rosse. Ha capito?”. “Sì”. “Ecco, non posso stare molto al telefono. Quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente, dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro”. “Ma che cosa dovrei fare?”. “Mi sente?”. “No; se può ripetere, per cortesia…”. “No, non posso ripetere, guardi… Allora lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene?”. “Sì”. “Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N 5”. “N 5? Devo telefonare io?” (ed è preso dal pianto). “No, dovrebbe andare personalmente”. “Non posso…”. “Non può? Dovrebbe, per forza…”. “Sì, certo, sì…”. “Mi dispiace. Cioè se lei telefona non… non verrebbe meno all’adempimento delle richieste che ci aveva fatto espressamente il presidente…”. “Parli con mio padre, la prego…” (nel pianto, non riesce più a parlare). “Va bene”. “Pronto? Che mi dice?”. “Lei dovrebbe andare dalla famiglia dell’onorevole Moro oppure mandare suo figlio o comunque telefonare”. “Sì”. “Basta che lo facciano. Il messaggio ce l’ha già suo figlio. Va bene?”. “Non posso andare io?”. “Lei, può andare anche lei”. “Perché mio figlio non sta bene”. “Può andare anche lei, va benissimo, certamente: purché lo faccia con urgenza; perché le volontà, l’ultima volontà dell’onorevole è questa: cioè di comunicare alla famiglia, perché la famiglia doveva riavere il suo corpo… Va bene? Arrivederci”.

Questo dialogo avviene dentro uno degli stomaci neri dell’Italia. Uno dei tanti.
Sono parole indigeribili, che non è possibile smaltire, e questo prescindendo dall’adozione di un punto di vista politico. Sono indigeribili in sé. Sono parole che un giorno delle persone reali, in carne e ossa, hanno pronunciato dentro la cornetta di un telefono. Parole che hanno generato delle reazioni emotive – il pianto di Tritto – che hanno comunicato delle coordinate, le cifre risolutive di una patetica caccia al tesoro. Queste parole non sono state inventate da un dialoghista della fiction televisiva, sono accadute nella bocca di due persone. Non sono state pensate per intrattenere uno spettatore, sono state pronunciate per dire dove si trovava un morto. Sono quindi parole nate male, come nascono male quasi tutte le parole che pronunciamo. Non hanno a che fare con il cielo, non ambiscono a nessun empireo. Se ne stanno semisgretolate tra i denti di due uomini, senza neppure l’ombra di un’armonia. Sono loro malgrado agonistiche, producono cioè delle conseguenze concrete che le trascendono. Sono terragne, terrose, in quanto tali radicalmente umane (anche il tono di quelle parole è immerso nell’umano, nell’umano come tentativo e mancanza: si tratta di un tono sostanzialmente all’opposto di quello di Will & Grace: non c’è traccia di ironia; non c’è euforia; forse, in una maniera torva e devastante, c’è qualcosa di isterico).

Eppure, se volessimo immaginare che per tutte queste ragioni questo dialogo possedesse chissà quali pregi e privilegi, chissà quale potente espressività, sarebbe sufficiente riconsiderarlo da un punto di vista narrativo per rendersi conto che è del tutto implausibile. Le parole delle nostre bocche vive sono strutturalmente incommensurabili alle parole delle nostre penne (come il lato del quadrato è incommensurabile alla sua diagonale). Non è colpa di nessuno, è un dato di fatto, sono materiali del tutto differenti.

Senza la contestualizzazione storico-sociale che conosciamo, lo scambio di battute tra la Br e Tritto è narrativamente inservibile. Non produce emozioni, dà soltanto un senso di confusione, di inadeguatezza della struttura, quando invece, se continuiamo a metterla in termini narrativi e guardiamo a quel dialogo come a un momento decisivo della narrazione del caso Moro, ci rendiamo conto che dovrebbe essere un dialogo drammatico, venendo a coincidere con uno degli ultimi atti della vicenda che ha inizio il 16 marzo 1978 in via Fani con l’uccisione di cinque uomini e con il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, e che si conclude – se mai si è davvero conclusa – appunto il mattino del 9 maggio dello stesso anno nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani.

Le frasi pronunciate dai due interlocutori tendono continuamente a ingolfarsi, a ristagnare. Ci sono degli impliciti che zavorrano il testo, lo inchiodano a terra. Difficilmente, decidendo di scrivere noi, senza saper niente del 9 maggio ’78, un dialogo tra un militante della lotta armata e l’amico di famiglia di un uomo politico sequestrato e ucciso, scriveremmo una sequenza di battute come quelle pronunciate dalla Br e da Tritto. Saremmo inevitabilmente più strategici, più accurati, ci preoccuperemmo di definire un climax – pur tenendo conto del tentativo della Br, non riuscito, di imporre un carattere neutro e formulare alla comunicazione; cercheremmo di focalizzare il momento nel quale il dialogo collassa e subentra in maniera riconoscibile la percezione, condivisa, del tragico, quello in cui il reale, in tutta la sua indicibilità, perfora il tessuto delle parole e si conficca tra una domanda e una risposta.

Staremmo attenti, saremmo bravi. Inventeremmo la realtà di quel dialogo riuscendo a scuotere e a commuovere chi ci legge. Non arriveremmo, è ovvio, ai livelli di Will & Grace (non mi riferisco al tono, è chiaro, ma alla perizia della composizione) ma una decenza, una credibilità di quelle canoniche riusciremmo a ottenerla.
Metteremmo in scena un dialogo espressivo, interno alla fiction, funzionale alla storia.

Adesso abbiamo questi due piccoli modelli. Da un lato il dialogo perfetto ed extraumano di Will & Grace, dall’altro quello scoordinato ed esageratamente umano della telefonata del 9 maggio ’78. Nessuno dei due, osservato nella prospettiva che ho cercato fin qui di definire, possiede una credibilità. Il primo è condizionato, nella sua ambizione estrema di fictionalizzazione euforizzante, dal suo essere così sfrenatamente narrativo: si vuole olimpico e per questo non sta nell’umano. Il secondo è invece talmente gravato dalla sua stessa terrestrità, dal suo essere imo, dal suo non voler essere qualcosa essendo stato semplicemente frammento naturale di comunicazione non strategica, in quanto tale in nulla artefatto (nel senso di fatto ad arte, a “regola d’arte”), da risultare di per sé narrativamente inutile.

Qui saltano tutte le regole, quelle della domanda di partenza o quelle altre che ognuno si dà narrando. Ogni nostro atto narrativo tende a sbilanciarsi in una delle due direzioni esemplate da Will & Grace e dal dialogo Tritto-Br. Ogni nostro atto narrativo deve essere in grado di comprendere in che punto tra questi due estremi vuole e può andare a collocarsi.

Il collidere o il mescolarsi di queste due dimensioni darà sostanza e credibilità, una credibilità non derivata da accorgimenti di verosimiglianza ma di ordine superiore, alla vicenda – brillante e tragica – di due esseri umani che parlano.

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6 Commenti

  1. avrei da fare alcuni appunti (purtroppo il tempo manca) ma, in generale… Vasta: bravo! Molto, molto, molto interessante.

    g.

  2. Mi sembra che in questo articolo Vasta faccia qualcosa di molto simile a quanto fatto da Pirandello nella “Avvertenza sugli scrupoli della fantasia”.
    Quanto alla “istituzionalizzazione” dell’ironia, mi sembra che questa stia avvenendo in Italia in maniera piuttosto evidente (comici ovunque, non solo in trasmissioni comiche – pensateci! – ma in tutti i tipi di trasmissioni, sportive, sanremo, eventi mondani ecc.). La mia chiave di lettura del fenomeno – manco a dirlo – è tutta politica: il fine, mi sembra chiaro, è quello di intrattenere e soprattutto di distrarre. “Panem et circenses”, miei cari, “panem et cicenses”…

  3. Nella vita niente dissolvenza o crescendo di musica nel finale. Collegando due tue riflessioni: la maggior parte della fisiologia umana è imbarazzante, rumorosa, ridicola a volte patetica. Come un comico che sbaglia i tempi di una battuta. Credo, come dici, che non ci sia soluzione, mai nessun dialogo inventato sarà fedele al parlato, a meno che il narrato non riporti un parlato “costruito”.____ La foto di moro in quella macchina mi tocca sempre.

  4. Nella sua “scorrettezza”, trovo interessantissimo e geniale aver messo a confronto questi due poli incommensurabili, il dialogo iperfinzionale di Will & Grace e quello iperreale di Tritto con le Br. Grazie

  5. Non sono completamente d’accordo sul fatto che il dialogo sul ritovamento del corpo di Moro non potrebbe mai “funzionare” dal punto di vista “letterario”, soprattutto se lo si voglia prendere in considerazione per una sua eventuale “messa in scena”, affidandolo quindi ad una recitazione. Visto che il paragone viene fatto, oltretutto, proprio con dei dialoghi che vengono scritti per la recitazione. In ogni caso, trovo anch’io geniale l’accostamento fra le due forme dialogiche, e illuminanti le scintille che dal cozzare dei due dialoghi fa scaturire Vasta. Mi unisco ai ringraziamenti di Scarpa.

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