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Lampi orizzontali

di Jacopo Guerriero

piazza1.jpgGreco&Greco ha recentemente pubblicato Lampi Orizzontali, un romanzo di Luigi Grazioli che a me è parso molto intenso, forte. «Nello spazio di cento metri e di cinque minuti, tra una piazza e l’ingresso di un parco, alcune persone si sfiorano per un istante e si scambiano uno sguardo. Alcune si conoscono, altre hanno già incrociato le loro vite o le incroceranno, e altre ancora non si vedranno mai più». Così recita la quarta del libro
Pubblico qui di seguito un’intervista che ho realizzato con l’autore.

Quello che mi ha spiazzato del tuo libro è una certa attitudine iperbolica. Da uno spazio e da un tempo ristretti si dipanano le storie di un numero grande di personaggi. Come mai, in parallelo, hai optato per una lingua così essenziale, scabra? Quali porte ti apre l’utilizzo di una lingua simile rispetto a ciò che vuoi far passare?

Le due cose sono in stretta relazione. Da una parte mi piace il linguaggio d’uso e preferisco non fargli violenza se non quando strettamente necessario (più che “essenziale” o “scabra”, a meno che tu non ti riferisca al ricorso parsimonioso alla figuralità, direi invece una lingua normale, banale, quotidiana). Ma non è tanto che questa lingua mi piaccia il fattore principale: è che questa lingua è quello che c’è, e quindi è su di esso che importa lavorare. I piccoli chimici del lessico in genere mi irritano, mentre il manierismo da secchioni di quasi tutti i pronipoti di Gadda o di Céline e i rabdomanti dei dizionari desueti non mi fa nemmeno sorridere (quanto invece mi fanno ridere, e ben altro, i capostipiti).
D’altra parte non volevo aggiungere inutili complicazioni e motivi di distrazione a una lettura che già richiede sufficiente attenzione sia per il numero dei personaggi che per la sintassi. E’ proprio la sintassi, infatti, il vero perno della narrazione (nonché ciò che per me è l’aspetto più importante, e mi piacerebbe poter dire anche originale, del libro). Una sintassi che ho cercato di usare in modo elaborato ma non lezioso né pedante (certe belle frasi alla Nabokov, per esempio, che, volendo, uno potrebbe tirare avanti per pagine e pagine senza che niente ne possa decretare la fine: esercizio che talvolta, leggendo sia lui che il vasto parentado – e ferma restando l’ammirazione complessiva –, non posso trattenermi dal fare, prima abbandonare la lettura a un momento meno stizzito), così da potermi muovere in una temporalità piuttosto ampia e varia all’interno di ogni singola frase e storia; ma una sintassi che resta comunque “classica”, senza forzature.

Non mi è mai stato facile raccontare storie, e per di più non intendo raccontare come se niente fosse, piegandomi a una narrazione “naturale”, spontanea, né soprattutto inchinarmi alla trama, che oggi sembra essere tornata l’imperativo categorico, con la conseguenza che gran parte dei libri anche con qualche pretesa spesso al di là di essa non riesce ad andare, con al massimo qualche insalatina o salsina ornamentale, magari da scuola di scrittura, tanto per gradire. Per mostrare quanto si è bravi e diligenti (vale anche per alcuni americani recenti).
E’ solo per aver trovato questo tipo di sintassi, per aver sentito che questo ritmo mi apparteneva (o viceversa, per essere più esatti), che ho potuto raccontare le storie: che non ho avuto resistenze a raccontarle. Anzi: che ho provato un grande piacere a raccontare senza che venisse meno la tensione, che è una delle condizioni per me imprescindibili dello scrivere. Potevo cioè raccontare storie mantenendo la tensione, ma così le storie si concentravano, né io volevo diluirle come sarebbe stato facile in un bel librone di quattro-cinquecento pagine. Tuttavia la contrazione in poche pagine di una vita corre sempre il rischio di essere troppo schematica e apodittica, anche se alcune vite non sembrano meritare nemmeno poche righe (la mia, per esempio). Non mi restava quindi che moltiplicarle; o meglio: che non resistere alla loro moltiplicazione che mi veniva spontanea. Come un tour de force erotico dopo lunga astinenza, con una buona dose di furia ma anche di pazienza.
E poi, che le storie fossero molte era necessario, e intrinsecamente legato alla varietà delle voci narranti e alla giustapposizione dei punti di vista, e dei giudizi, impliciti in ciascuna di esse. Non rinuncio al giudizio (leggi: all’interpretazione; già una descrizione ne è informata), e invece di cimentarmi nelle manfrine dell’eufemismo o del “quanto a me” penso sia opportuno assumersene il carico quando è il caso, da adulti, ovviamente senza assolutizzarli una volta per tutte e con la consapevolezza che già il semplice fatto di narrare li relativizza e li complica. Tanto valeva complicare le cose ancora di più, allora. Anche perché a me le cose sembrano tutt’altro che semplici, come dimostra il fatto che, per quanto le pensiamo, di solito è quanto è rimasto impensato che finisce per atterrarci. (Il solo pensiero a ciò che rimane impensato in quanto sto scrivendo qui, mi fa rabbrividire)
L’adozione della lingua d’uso era poi funzionale al modo di pensare dei personaggi, ai detriti di libero indiretto che non potevo non inserire nella narrazione, e ancor di più alla banalità della maggior parte delle esistenze che volevo raccontare. Perché era questo che volevo raccontare: vite comuni, anche se ciascuna con qualcosa di particolare, come del resto tutte ne hanno ovviamente. Si trattava solo di trovare il modo per dirlo senza cascare nell’elegia del quotidiano e paraggi. I piccoli drammi eccetera lo sono solo per chi non li vive; le difficoltà sono certo relative, ma non per questo scompaiono. La morte c’è per tutti. (E meno male?)
Comunque sia le vite banali mi interessano, quelle della gente che mi sta attorno e rendono la mia vita quella che è, senza attributi o specificazioni. E’ strano, ma la mia vita mi interessa.

Nei miei racconti precedenti spesso cercavo di raccontare cosa succede quando non succede niente, cosa si muove quando domina l’immobilità (il titolo del secondo libro, Racconti immobili, era già il sottotitolo del primo, Cosa dicono i morti). Facevo la cronaca di non-eventi, la descrizione di qualcosa di molto meno che epifanie (Ipofanie è il titolo di una sezione del primo libro). In Lampi orizzontali ho fatto in un certo senso il contrario: l’attitudine iperbolica di cui parli, è forse questo, non certo in ciò che dico.

Da dove trae le mosse questo libro? Che forma ha?

Lo spunto iniziale, caro Jacopo, è stato occasionale, come mi capita spesso, e l’ho raccontato in un testo pubblicato sul N. 37 di Nuova prosa, a cui mi permetto di rimandare (cfr.allegato). In esso sviluppo anche altri aspetti legati alla nascita e alla forma del romanzo; tuttavia, poiché la reticenza e l’ellissi non mi dispiacciono nella scrittura ma sono solo supponenti se si accetta di rispondere a domande esplicite, proverò a riprenderne alcuni e ad aggiungerne altri.
In genere all’origine di ciò che scrivo ci sono immagini concrete e dettagliate o un’espressione precisa che mi si ficcano in testa con forza. Non ho fretta; le lascio lì a maturare, per verificare se si tratta solo di impressioni passeggere o se hanno la capacità e la costanza di colonizzarla (la testa, intendo). In questo caso, dopo un certo tempo le loro evoluzioni si fanno sempre più frequenti e io comincio a seguirle con interesse finché mi accorgo di non riuscire a pensare ad altro anche quando ad altro, di fatto, penso, pur sapendo che di ciò che allora penso utilizzerò in seguito poco o niente.

Comincio a lavorare materialmente solo quando tutto questo rimestare prende la forma di una frase compiuta, che mi si impone per un suo ritmo che, a torto o a ragione, mi sembra ineludibile, necessario, e per il suo tono preciso e ben individuato, che non lascia spazio a nient’altro. Allora l’unico modo per liberarmene diventa scriverla. La conferma che tono e ritmo sono quelli giusti, se lo sono, è immediata: infatti mentre scrivo la frase, se ne affacciano subito altre a una velocità che, per i miei ritmi, mi stordisce, e mentre mi affanno a scrivere anche queste si delinea l’idea netta (dire la visione sarebbe eccessivo, e poi non mi va né di abusare di una parola troppo diffusa né di invadere campi altrui) di ciò che dovrà seguire, o quanto meno la forma che ciò che seguirà dovrà prendere, con gli indispensabili aggiustamenti d’accordo, ma senza revisioni sostanziali.

La forma di Lampi orizzontali è suggerita, in apparenza, già dal titolo; ma siccome mi piace far finta di dire tutto per poi nascondere altro che magari mi preme anche di più, nel titolo c’è solo l’indicazione del procedimento superficiale. Di fatto la germinazione delle storie è orizzontale (bidimensionale) per ogni capitolo preso a sé stante, mentre se si guarda lo sviluppo delle storie e l’insieme del libro c’è almeno una dimensione in più. Lo spazio e il tempo in cui si muovono i personaggi che fanno da filo conduttore a ciascuno dei sette capitoli, infatti, sono gli stessi: tutta l’azione è raccolta in pochi minuti e in un centinaio di metri (qualcosa di più solo nel primo capitolo). Il finto centro è la panchina su cui è seduta la ragazza, che nasconde il volto a tutti gli altri, che per questo sono costretti a attribuirle un’identità solo a partire dai capelli che ciascuno interpreta a modo proprio, che riflette in parte il suo peculiare punto di vista e fornisce la matrice per l’insieme figurale, peraltro via via sempre più contenuto, dei singoli capitoli.
Le storie narrate invece si dilatano nell’arco di quasi un secolo, fino a comprendere un ipotetico futuro prossimo. I personaggi sono per lo più indipendenti l’uno dall’altro, ma in numerosi casi le loro vite si sono sfiorate o si sfioreranno anche in altre circostanze, e in alcuni si sono intrecciate o si intrecceranno, direttamente o indirettamente, secondo modalità meno passeggere. Questo dà modo di moltiplicare i punti di vista e di complicare il dipanarsi di alcune esistenze e a volte di contraddire quella che nelle singole narrazioni appare come l’ineluttabilità di alcuni destini, o quanto meno della versione che ne viene allora data. Ogni storia, presa di per sé, sembra precipitare verso la propria fine in una caduta gravitazionale (con una traiettoria, mi auguro, necessaria), ma la pluralità delle voci che ne narrano le varianti complica un po’ la certezza acquisita o sbandierata.
Le voci narranti in certi casi possono arrivare a quattro, non sempre ben distinte o distinguibili: quella del narratore presunto onnisciente; quella del protagonista di ogni capitolo; quella che eventualmente certi altri personaggi assumono in prima persona all’interno della narrazione del protagonista e/o del narratore che si libra, incerto quanto presuntuoso, su tutto; infine quella, per lo più giocosa, del sedicente “narratore in carne ed ossa” che appare in alcune note.
In un primo tempo, per facilitare i collegamenti tra i personaggi e districare in parte queste voci, che comunque non volevo individualizzare troppo, come se facessero tutte parte di un flusso che si faceva da sé, avevo pensato di aggiungere un paio di appendici.
La prima avrebbe dovuto contenere degli schemi che specificassero tipologia dei rapporti tra i personaggi e rimandi precisi alle loro varie apparizioni, se non che poi ho pensato che non era così importante, e che era preferibile che fosse il lettore a istituire nessi dove e quando voleva, o che, meglio ancora, si lasciasse trascinare dalle storie magari provando un certo qual senso di vertigine (cosa che, a quanto alcuni lettori mi hanno detto, si è poi verificata).
Inoltre, poiché i protagonisti dei sette capitoli, che con il loro movimento e i loro incontri già li dotano di una forma peculiare, sono uniti dal fatto che si incrociano tutti tra di loro e, più ancora, dalla condivisione dello stesso limitato spaziotempo, è altamente probabile che producano nell’insieme una forma ulteriore, che avevo pensato di suggerire mettendo in una seconda appendice, sovrapposte con dei trasparenti, le sette cartine del luogo con i loro percorsi segnati con colori differenti (più quelle dei personaggi secondari in nero) e l’esatta indicazione dei tempi. Ma non sapevo se sarebbe servito a delineare tale forma o a delinearne il supposto significato. Di più: non sapevo se ci fossero e quali fossero, e tuttora non so se augurarmi o temere che ci siano.

Approfondiamo la coppia luogo/personaggi. I fili narrativi di Lampi orizzontali provengono dal luogo della loro azione, allo stesso tempo il luogo non è un luogo che c’è già ma babelicamente si origina dagli eventi che lo tengono in gestazione…

E’ esattamente così: il luogo esiste in quanto qualcuno lo esperisce e vi transita, e il modo in cui lo esperisce gli dà forma e esistenza. Di questa modalità è parte essenziale l’incontro che ciascuno dei personaggi fa con gli altri, sia che egli imponga loro la propria tonalità, sia che questa sia modificata dall’imposizione altrui. Alcuni sono in grado di lasciare che gli altri gli vengano incontro sorprendendoli; altri non sono capaci che di sovrapporre a ciò che viene incontro lo schema di ciò che già sanno o credono, adattandovelo.
La piazza cioè prende forma dalla molteplicità dei percorsi dei personaggi, che vengono a costituire altrettante matrici del luogo. Come ho detto in altro modo nel testo succitato, mi sono trovato in testa Piazza Cavour (e poi l’ho accettata, lavorandoci sopra) per il suo essere insieme centrale, come si conviene a una piazza, e senza forma, cioè tutto il contrario di una piazza: uno spazio che è solo di transito, in cui la sosta è accidentale e disagiata, provvisoria, e da cui quasi tutti non vedono l’ora di uscire, pur dovendoci per forza passare. I pochi che vi consistono, che la vivono con continuità, ne stanno ai margini e ne sono segnati in modo non certo positivo. O forse è la loro immobilità, il loro essere inchiodati a una singola ossessione, che rende invivibile la piazza, più stretta e soffocante di una segreta.
Quanto all’avverbio “babelicamente”, forse questa è l’impressione che suscita al lettore il susseguirsi degli eventi e delle vite narrate, e certo non è facile sottrarsi alla tentazione di vedere in essi l’insensatezza confusa di Babele; e tuttavia in molti dei personaggi, e in chi scrive, questa tentazione è respinta fino alla fine. Anche la scrittura più confusa, o che più alla confusione si inchina, inizia dal desiderio di ridurla e di in qualche modo organizzarla. Chi scrive tenendo conto di cosa è stata (o è) la modernità, inoltre, sa sempre di scrivere almeno in modo doppio, dicendo in ciò che dice anche qualcosa su ciò che dice e sul modo di in cui lo dice, che è un’altra forma di organizzazione della confusione. In particolare io so di farlo anche quando non ci penso (anche se in genere penso ciò che faccio), e quando non ne faccio l’oggetto esplicito del discorso. Anzi, evitare di farne l’oggetto esplicito del discorso è mia massima cura, nonostante talvolta finga di squadernare tutto (ma si tratta di false piste: in questo libro quasi tutte addossate alle peraltro fragili spalle di Flavio, lo scrittore). Non mi voglio dilungare sulla dimensione del metadiscorso o della teoria, della quale personalmente non so, né voglio, fare a meno; segnalarne la presenza mi sembra però doveroso. Già che ci sono mi allargo, e dico che la teoria è in tutto ciò che scrivo, che tutto ciò che scrivo è anche, bene o male, teoria. Ma forse sto proiettando desideri destinati a rimanere tali.

Che tipo di realismo c’è in Lampi Orizzontali? Il tono della prosa, spesso, riporta direttamente a un’idea di reportage. ma poi c’è sempre come un senso di apertura infinita, una moltiplicazione del possibile che pure non rimanda mai a un’idea di meraviglia..

Se c’è un problema che non mi pongo è quello del realismo, anche se sapessi cosa si intende con questo termine. Quanto ho scritto finora mi sembra lo dimostri sufficienza. Se con realismo si intende il riferimento, che può prendere varie forme, a quello che c’è, o a quello che si suppone che ci sia, bisognerebbe definire tutto ogni volta e trovare un punto d’intesa per capirsi. Non so se sarei in grado di farlo, però so che non mi interessa. L’unica cosa (l’unica realtà) che c’è quando si scrive è il linguaggio, e il linguaggio che c’è quando si scrive è quello che si ha nella testa e che ci passa, provenendo da ciò che si è letto, sentito, detto e (se e quando ci si riesce) pensato. Non esiste altra realtà che quella a cui la narrazione dà forma: ogni tipo di corrispondenza con un’altra presunta realtà è una corrispondenza con la realtà che ha in testa qualcun altro, per esempio chi legge. Con ciò che chi legge chiama realtà. Che peraltro già si modifica mentre legge.
Il tono della prosa più che a un reportage a me faceva pensare a quello di una chiacchiera elaborata, o a un sovrapporsi e a un amalgamarsi di chiacchiere. Un dire le cose in modo diretto, in apparenza, senza equivoci, come a esaurire l’argomento, per far passare anche altro (cfr. risposta 1), che a sua volta richiama altro ancora ecc. L’apertura infinita di cui parli forse questo? Quello che so è che a me infinita sembra già ogni parola, che, soprattutto quando scrivo, in ognuna di esse mi sembrano risuonare tutte le volte e tutte le circostanze in cui l’ho incontrata (detta, sentita o letta) e persino quelle che mi sono ignote. Il che, a ben pensarci, è una bella fregatura, perché spesso si traduce in una forma di paralisi (o di completo disorientamento, di assoluta vertigine), a meno che non sia la forma di cui di si fa scudo mia personale propensione alla paralisi. Viceversa però questo mi impedisce di dimenticare che le parole non sono oggetti a mia disposizione, un docile strumento da manipolare come e quando voglio; mi ricorda ogni momento l’irriducibile molteplicità che risiede in ciascuna di esse, la resistenza che oppongono a ogni mio sacrosanto impulso al loro controllo, nonché la resistenza che io devo opporre loro, per quanto mi è possibile, per non soggiacere alla tirannia, o alla tentazione, della presunta naturalezza e semplicità con cui ti blandiscono. Allora capisci che la moltiplicazione del possibile non sono io a deciderla: c’è già, e a me non resta che accettarla proprio mentre, scrivendo, faccio di tutto per arginarla e organizzarne una parte, disincantato.
Ciononostante non vado esente dalla meraviglia, mi pare, perché anche il disincanto ha la sua parte di meraviglia, una parte sottile ma non per questo meno intensa. Quanto meno se il disincanto non è il pedestre cinismo oggi tanto diffuso (in particolare nei cosiddetti noir: l’illusione dell’assenza di illusioni, che è un’escrescenza della paura) o la delusione radicata nel presupposto che ogni passione è spenta, che è la forma preferita della resa incondizionata. Le vite che ho raccontato sono state per me ogni volta fonte di meraviglia, non ultima la meraviglia che sia possibile e doveroso raccontarle. Sarò ingenuo, ma io ho una passione forte, la letteratura, che resiste a ogni sua marginalizzazione o svalutazione, e me la tengo ben stretta.
Del resto qualche pistola che la condivide con me, per fortuna in giro è rimasto ancora. Anche la loro sopravvivenza è per me fonte continua di meraviglia. E di gratitudine. E di ammirazione. Quando qualcosa o qualcuno scoperchia il mio candore, mi meraviglio di averne e sono felice.

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7 Commenti

  1. In “Lampi orizzontali” di Grazioli ho visto qualcosa di Perec, nel senso catalogatorio e nel senso di impietoso chiudere i destini. E c’è qualcosa di molto libero nel romanzo di Grazioli, già per il fatto di pedinare le mille diramazioni delle vite banali che non sono mai fino in fondo banali, in quanto tutte attese dalla fine, o dai preliminari della fine (morte e vecchiaia). La fine ci attende, con più o meno impazienza. E per via di questa fine è possibile miniaturizzare e giudicare, e Grazioli fa entrambe le cose nei confronti dei suoi personaggi. E c’è da ammirare l’andamento precipitoso e nel contempo tortuoso della frase di Grazioli, capace di gerarchizzare gli eventi fondamentali di una vita in una pagina. Come è vario il nostro banale destino, e come è maledettamente rigido, da un certo punto in poi, irreversibile. Questo, tra molte altre cose, ci permette di vedere “Lampi orizzonatli”. Non poco.

  2. che c’entra la pistola? perché uno dovrebbe condividere la passione della letteratura con una pistola? è una metafora?

  3. Non credo di essere la persona più adatta a dare delucidazioni in merito. Comunque «pistola», in molti dialetti lombardi, è sostantivo maschile che sta per scemo, deficiente, persona sciocca..

  4. Confermo. Pistola, maschile, ovviamente:
    “Ueh, pistola, va a scuà il mar.”
    [“Eilà, sciocco, vai a scopare il mare” (vai fuori dalle palle, vai a fare una cosa senza senso)]

    g.

  5. ah, ora capisco. grazie, grazie a tutti. io veramente avevo capito che l’autore voleva condividere la sua passione per la letteratura con una pistola. ma veramente veramente…

    ps: che tordi…

  6. Don Giovanni, ma dai, ci sei cascato?
    A Milano “pistola” vuol dire proprio “pistola”, mica tonto. Non fare il pistola.

    bang, G.

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