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Mitopoiesi e mitoclastie

di Sergio Nelli

FotoNazind.jpgLo stralcio diaristico di Giulio Mozzi, reintitolato da Tiziano Scarpa Gli Stati del romanzo e proposto sulle pagine di Nazione Indiana, smuove in più direzioni. Esso contiene come nucleo centrale uno schema sul quale Mozzi ci chiede di indugiare, presentandocelo come un’immaginazione. Lo schema, lo ricordo, è il seguente: letteratura mitopoietica (americana, capace di produrre miti e ragioni di vita, fortemente comunicativa); letteratura mitoclastica (nostrana, valorosa quando valorosa, ma fragile, anche perché incapace di produrre miti e ragioni di vita). Ciò che farebbe da punto d’appoggio alla mitopoiesi americana, è un’altra immaginazione: quella di essere quello statunitense l’attuale popolo eletto.

Che gli americani si sentano oggi il popolo eletto sembra anche a me una cosa che si avverte in modo insistente. E la loro immaginazione è probabile dipenda dall’accoppiamento del fattore potenza con la consapevolezza della universalità di alcuni valori fondamentali.

Credo tuttavia che Mozzi nel dar corpo a una sua idea, cioè mettere insieme un libro dei libri su questa elezione, una Bibbia statunitense dei nostri tempi, come lui dice, avrebbe non pochi ingombranti problemi.

Faccio un esempio. Della temperie artistica del popolo eletto, la prima cosa cui ho pensato leggendo Mozzi è il film Una settimana da Dio, che purtroppo ho visto recentemente in video. Il Messia, come dice Mozzi, gli americani ce l’hanno immortale perché eleggibile. Qui hanno anche un dio connazionale, un dio concittadino, che ha la faccia e le sembianze del nero Morgan Freeman, il quale ha già prestato peraltro il suo corpo, tra i tanti, a giudici, allenatori, poliziotti e perfino se non sbaglio a un serial killer. Secoli e secoli sembrano passati invano (povero Spinoza, povera teologia negativa!) di fronte a questa commediola della verginità, del candore finto e comatoso. Con la faccia di Jim Carrey-Giobbe che questa volta è un’autentica faccia di cazzo che si presta a questa apologia postbellica senza remissione.

Peggio per me, certo, se mi è venuto in mente questa roba apologetica, un filmetto, e non quei libri statunitensi contemporanei, “potentissime narrazioni”, “narrazioni bibliche” che talvolta “hanno tutta l’aria di essere delle Apocalissi“. Questo perché sono stato messo sulla pista della creazione e del creatore. Altrimenti magari avrei pensato a una narrazione, cioè a un romanzo. Come L’animale morente di Philip Roth, come Underworld di Don De Lillo o L’età di mezzo di Joyce Carol Oates. E ci avrei pensato, negli stessi termini coi quali penso a La scatola nera di Amos Oz, a Lo schiavo del manoscritto del bengalese e giramondo Amitav Ghosh, a La Clandestina di Lars Gustafsson (un libro che non mi è neanche tanto piaciuto, e mi ha fatto rimpiangere il meraviglioso Morte di un apicultore), a Piattaforma di Houellebecq, o a Il mio anno nella baia di nessuno di Peter Handke, uno scrittore elettivamente mitopoietico, uno che condensa perpetuamente una numinosità senza nume, senza potenze soprannaturali, uno che riesce a sfondare la propria stessa maniera e nelle cui quarte di copertina campeggia ormai (immagino con il suo concorso) il motto: “E chi dice che il mondo è già stato scoperto?”

Questo per dire, con dei pochi semplici esempi nemmeno particolarmente mirati, che se da una parte mi sfugge del tutto la traccia biblica, dall’altra la mitopoiesi (intesa magari come poiesi di qualcosaltro) la vedo appunto dappertutto, altrove, dove gli pare.

Mi sembra poi che in Mozzi ci sia una caricatura della (nostra) vocazione mitoclastica che per lui si riduce a “smitizzazione”, a “non credere in nulla”, nemmeno alla verità.

Ma come, non è per un’idea di verità che si distruggono i miti? Quale modello mitoclastico è quello che bandisce addirittura la parola “Verità”, e accusa di autoritarismo, fondamentalismo, paranoia chi la propone? Di chi parla Mozzi, di che cosa parla?

Di passaggio, egli avanza questa considerazione: da noi ci sono mille romanzi discreti e uno “veramente impressionante”, uno che ti resta addosso, “uno mitopoietico”. Così sembra quasi un lapsus, se non si aggiunge: nonostante le nostre paranoie mitoclastiche.

Ovviamente, c’è e non può non esserci mitopoiesi anche nella o con la mitoclastia. Ma allora, concederà Mozzi, anche la sua immaginazione ritorna da capo, gli si spacca letteralmente la testa e si riapre.

A che ci servono dunque queste idee che prendono o troppo o troppo poco?

Infine, rilevo un’altra tesi. E’ la tesi che, non potendo provare la falsità e la verità della cosa, è paranoico credere in Dio (negli dèi), come è paranoico non credere (in nulla).

Ma c’è davvero questa equidistanza, se non in un’astratta esasperazione? Il dio del film sopra citato, per esempio (e chiedo scusa per questa momentanea fissazione), americanomorfico, in duetto col suo inerte Giobbino, non può dirci niente e siamo dentro una teatrino privo di vita, mentre la mitoclastia, anche la più ripetitiva e neutralizzata è veramente difficile che sia così insulsa e povera, così spaventosamente irreale. Personalmente non credo che ci possa essere equidistanza e non è simmetrico quello può sembrare tale. C’è una tale sproporzione tra un’affezione e l’altra per quanto concerne una lettura del mondo, per gli effetti di conoscenza e di verità, ecc. ecc. Non è proprio da un “credere” attraversato da venature di inquieta ricerca “demitizzante”, e da esigenze di verità, che ha ripreso fiato anche un’elaborazione religiosa non rispondente strettamente a dei bisogni psicologici?

Insomma, alla fine, io, carico di tante perplessità, di questa immaginazione posso accogliere soltanto quell’elemento che invita a liberarsi da ossessioni e sospetti, dalla maniera del nulla, da un autocannibalismo che ci mangia mentre stiamo facendoci. Questo sì. Mentre, per il resto, essa mi sembra piuttosto l’ennesima eruzione di quello schizzo maledettamente accecante che è oggi molto spesso la nostra riflessione sul narrare.

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14 Commenti

  1. Condivisibilissimo, questo articolo! Bello!
    Che ci si vuol fare, Mozzi deve “clasticizzare”, per fare il deserto attorno e rimanere solo soletto con le sue operazioni di cultura :))
    bellino pure il finale: ma lo schizzo è generatore, oppure è sangue che il Nostro opportunamente e metodicamente prima succhia agli amici scrittori, e poi sputa?? :))
    meno male che la nostra letteratura è mitoclastica, almeno è viva, in fermento, promettente! alla faccia di tutti i necrofori! anzi, come si diceva prima, i BECCHINI!!! :)))))

  2. Riflessioni acute in questo articolo. Non credo però che gli americani si sentano il popolo eletto. Eletta è solo la società tecnocratica occidentale che espande i suoi valori al pianeta e naturalmente finirà per conquistarlo. Il processo è irreversibile. E la grande letteratura prepara il dopo.

  3. Interessante. Pero’ a tutti voi chiedo: ma credete veramente che la letteratura (o la filosofia o ogni meravigliosa produzione dell’umana mente) possano essere mitopoietici o mitoclastici? A me (che nome ho di Dea) la sola idea fa sorridere. Dai, lo sapete bene che il mito si fa e si distrugge altrove dai luoghi della personalita’.Il romanzo (o il cinema), con alterna fortuna, raccontano, svelano, rendono sensibile il mito o la sua caduta. Cio’ che gia’ e’. Grande ruolo quello dello scrittore, ma non certo divino. Per questo falsa e’ la mitopoietica della tecnocrazia occidentale e molto incerto il suo successo colonizzatore. Vediamo cosa succede: i tempi in queste cose sono lunghi.

  4. Ma è poi così vero che gli americani sono capaci di creare dei miti ? Fino a cinquant’anni fa sì: c’era il Far West, i grattacieloni alti alti, c’era Walt Disney per i bambini e Elvis Presley per gli adolescenti. C’erano Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Mickey Spillane. C’era lo star system. Last but not least c’erano Hemingway e Faulkner (e anche Caldwell, Williams, Miller).
    Ma adesso ? Il Far West è stato “mitoclastato” da Soldato blu a Balla coi lupi. I grattacieli da Bin Ladin. Elvis è morto. La Disney passa da Pocahontas a Re Leone, ma un Topolino non lo trova più. Lo star system affoga nel ridicolo. Il poliziesco è finito nei telefilm e fa sempre più pena. Il posto di Faulkner e Hemingway l’hanno preso i miti di d’Orrico.
    Dove sarebbe tutta questa mitopoiesi americana ? A me l’impero americano sembra avviato all’inizio della fine. Speriamo nella Cina (perché l’Europa, questo è vero, ci prende troppo gusto a uccidere bambini nella culla).

  5. Ciò che riporto sotto, ci potrebbe stare nella discussione…solo un pezzetto, e spero di non fare cosa sgradita.
    Rimando al seguente link http://www.atopon.it/itinerari/main_itinere.html
    chi volesse leggerlo per intero.
    E’ tratto dal sito: “il filo di àtopon”,Periodico online del Centro Studi Mythos – Istituto di Psicologia Analitica e Psicoantropologia Simbolica

    una proposta: non sarebbe utile e giusto aprire una bacheca con dei links mirati e stimolanti?

    grazie per l’attenzione,
    flo.

    Sul pragmatismo americano

    Il pragmatismo di solito viene male intepretato, perché si bada più all’aspetto gnoseologico che non a quello etico-politico che invece è saliente e peculiare.
    Sotto il pragmatismo corre uno spirito immanentistico simile a quello nietzscheano.
    L’ homo americanus di cui questa corrente filosofica è la rappresentazione ha tutta l’aria di essere l’incarnazione dell’uomo che viene dopo la morte di Dio: animalesco, primitivo, senza storia, senza passato, pieno solo di futuro, desideroso di dominio. Non solo desideroso ma anche pronto e capace di esercitarlo. Capace perché non appesantito dalla tradizione e perché sgombro di fardelli che non siano il suo stesso desiderio di potenza.

    Noi europei di solito guardiamo all’America con ironia e sussiego, perché affascinati dall’individuo geniale rinascimentale italiano prendiamo in esame l’uomo singolo americano che a tale confronto può apparirci ridicolo e stereotipato; ma incorriamo in un grave errore, perché bisogna invece guardare all’americano come a un soggetto collettivo.
    In breve, l’uomo nietezscheano non è rappresentato da nessuna singola personalità quale Roosewelt o Kennedy o Ford o Rockefeller o altre eccellenti figure ma è un organismo collettivo, un anonimo superuomo.
    Il superuomo di Nietzsche non fu compreso: non doveva trattarsi di un singolo, ma di un organismo collettivo, una x che andava ben oltre l’uomo normale singolo.
    L’organismo collettivo è brutalmente e creativamente selettivo, a suo modo tragico, severo e indifferente al destino del singolo che non sa nuotare nella impetuosa corrente. […]

    La volontà costruisce la visione del mondo
    Per il pragmatismo, la volontà nel suo dispiegarsi e progettarsi costruisce anche una visione del mondo. Ciò non vuole dire che ogni singolo, come in un dramma di Pirandello, si chiuda in una visione diversa e separata. La volontà di cui si tratta spinge a muoversi in un sistema di relazioni che accomunano.
    L’utile a cui deve portare la verità non va inteso come quello immediato (che infatti non è il vero utile), ma come ciò che serve in generale ai bisogni profondi della vita. Le visioni del mondo, le concezioni del mondo, in altri termini il pensiero della realtà o verità, non sono – dunque – originari, non sono il principio da cui si parte: al contrario, discendono dalla creatività del volere.
    Ora, una volontà libera si progetta soltanto in un mondo non predeterminato e libero.
    Inoltre, una volontà non libera è un controsenso; la stessa esistenza della volontà comporta che il mondo in cui si muove e di cui fa parte sia compatibile con essa, e dunque che esso sia imperfetto e perfettibile.
    Se io sono libero, il mondo in cui mi muovo non può essere eternamente dato e immutabile.
    Il mondo in cui è possibile la volontà libera o la volontà tout court deve essere mutevole, indefinito, casuale, caotico. La volontà libera comporta il rischio, l’incertezza, l’ansia, e la capacità di affrontarne la sfida. La libertà comporta la responsabilità e la accettazione della tragicità del vivere. L’uomo libero non ha garanzie precostituite. Il suo mondo è assolutamente immanente. Nessuna trascendenza lo sovrasta e domina. L’unica trascedenza dell’uomo libero è la sua stessa libertà. L’unica trascendenza è la volontà stessa. La volontà si carica del problema di andare oltre la situazione data verso il suo progetto. La trascendenza è la volontà che si progetta nel rischio e si orienta nel caos-caso. […]
    Soffermiamoci ancora una volta sul confronto tra il tema del pragmatismo e Nietzsche.
    Beninteso, la questione dei loro rapporti esigerebbe ben maggiore spazio di queste note, eppure la scoperta di un punto di partenza comune ci serve per accantonare le critiche di spiritualismo che si muovono contro il pragmatismo.A nostro avviso, si tratta di un grave fraintendimento; il pragmatismo va da un’altra parte.
    Una nozione molto ampia e molto ricca di esperienza, che coinvolge con sé anche la spiritualità, viene invocata per una rappresentazione rivoluzionaria dell’uomo.
    Il punto è che sia i pragmatisti sia Nietzsche hanno entrambi gettato alle loro spalle la storia della filosofia per immettersi in un altro mare.
    Per entrambi l’uomo nuovo deve alleggerirsi del peso della filosofia nell’intraprendere la navigazione. Il mare nuovo è quello etico-politico, è quello della pratica, è quello della religione.
    Per entrambi non v’è differenza fra i termini suddetti, per loro religione e pratica coincidono.
    Dove, allora, le strade di Nietzsche e di James si biforcano? Precisamente nella religione proposta.
    Nietzsche propone il dionisismo, James e il pragmatismo propongono un approfondimento e una radicalizzazione della istanza dell’ultimo cristianesimo, il cristianesimo anglosassone, il calvinismo puritano.
    Naturalmente c’è dell’altro nel lievito del pragmatismo, però nella determinazione della essenza dei fatti culturali ciò che conta di più non sono tanto gli ingredienti quanto il cuoco.
    Un’ultima notazione. Gli americani, da eccellenti poeti quali essi sono, non hanno mai disprezzato Nietzsche, lo hanno assorbito in dosi massicce, però ne hanno diffidato.
    Andava bene il culto dell’eroe, ma non la predica dell’eterno ritorno dell’uguale.
    Royce ci può aiutare a spiegare meglio tali affermazioni: il principio di identità non conduce alla vanificazione del mondo della esperienza bensì all’esatto opposto. Se soltanto l’essere è, anche noi siamo essere a pieno titolo.
    D’altronde si interpreta che anche Nietzsche riflettendo sul principio di identità vi aveva intravvisto la proiezione dell’imperio della volontà.
    I principî logici sono principî perché hanno un’anima di acciaio che li impone. La dea di Parmenide o la spada di Alessandro?

    J. S

  6. Dunque, l’homo americanus nel suo complesso sarebbe l’incarnazione dell’Uebermensch nietzscheano. Affascinante idea.
    Ma proviamo a figurarci le cose in concreto: James e Royce hanno forgiato la mentalità del self made man alla Rockefeller (o alla Bill Gates) ? Bah. Ma, anche se così fosse, sicuramente non hanno forgiato quella di Al Capone e di Elliot Ness, quelle degli immigrati (cinesi, ebrei, chicani, eccetera), quelle degli ex schiavi, quelle di Fonzie, Richie e Potsie. E allora come è possibile che, messi assieme, e senza un partito-guida, tutti costoro abbiano formato un colossale Uebermensch ?
    Non è più probabile che l’idem sentire dell’homo americanus e la sua mitopoiesi si siano formati nella conquista del West, piuttosto che nelle università del New England ?

  7. Dove, Aparna, si crea il mito?

    Ferrazzi, mi trovi d’accordo sull’ultimo commento. E anche sulla speranza nella Cina. Filippo Laporta dice che solo il sangue fresco degli immigrati ci salverà. Ma possiamo continuare a chiamarli immigrati? A un certo punto si dovrà pur chiamarli colonizzatori. In breve, la nostra unica speranza è nella nostra stessa scomparsa. Siamo vecchi e marci, pare.

    Ma non sono del tutto d’accordo sull’abbattimento dei miti: Soldato Blu e Balla coi lupi non sono ALTRI miti? Ho l’impressione che quelli riescano a mitizzare anche l’iconoclasatia. Bin Laden ha abbattuto il mito della potenza e della globalizzazione? E loro creano il mito Ground zero, il mito dei pompieri. Tu ce lo vedi uno scrittore italiano che mitizza i pompieri?

  8. gli scrittori italiani mitizzano i pompini!
    (scusate la battutaccia, ma proprio non riuscivo a trattenerla!), G.

  9. Elio Paoloni mi chiede dove nasce il mito se non dai luoghi della pesonalità (altri direbbero “schizzi” ma a me, scusate, non piace). Una bellissima domanda (già da un po’) per la filosofia dell’occidente.Io, pur se con nome di Dea, non so. Là dove nascono gli archetipi? o nei concretissimi spazi sovrapersonali a cui tutti, anche gli scrittori, hanno accesso? Ovvio, solo per chi ci crede.
    Il tema mi interessa. E Grande Biondillo.

  10. Dal fondo della mia ignoranza chiedo lumi: che dea è Aparna ? Di quale mitologia ? Ma se la mia ignoranza non l’ha irritata, vorrei pregare Aparna di non essere così manichea. Anch’io credo che il mito si formi là dove si formano gli archetipi, e che la mitopoiesi non faccia che rintracciare archetipi nella leggenda o nella fantasia. Ma l’artista dà all’archetipo un’immagine affascinante e la propone a tutti, altrimenti Eschilo, Sofocle e Euripide non avrebbero avuto motivo di scrivere tragedie. Il che ha reso necessario l’intervento di altri artisti: gli interpreti. Al punto che perfino Platone, che pure non amava gli artisti, ma credeva agli archetipi, non ha potuto esimersi dal dedicare un dialogo agli attori, che quando recitano bene “sono invasati dal dio”. Direi che la stessa cosa vale, a maggior ragione, per Omero, Cervantes, Tirso de Molina e i creatori di Dracula, Superman, King Kong, ecc.
    Insomma, cara la mia dea, gli archetipi sono quello che sono e chissà dove stanno, nell’iperuranio o nella ghiandola pineale, ma Pinco Pallino non si disturba ad andarli a cercare. Se qualcuno glieli presenta in modo accattivante, e solo allora, li riconosce.

  11. Aparna è una Dea dell’infinito e mobile pantheon Hindu. Aparna è uno dei tanti nomi di Parvati, compagna di Shiva il distruttore. Aparna significa colei che non mangia “neanche una foglia” e si riferisce al periodo di terribile ascesi passato dalla Dea nella foresta, nel lungo e tormentato processo di congiungimento al grande Dio (Shiva= Mahadeva).
    Caro Riccardo Ferrazzi, lei ha ragione. Forse e’ questo nome di Dea a rendermi manichea o forse solo “rigida”. Mi dispiace perchè grande è il ruolo dell’arte e dell’artista, in rapporto al mito e lei cosi’ gentile. E se è vero che Pinco pallino gli archetipi non li va a cercare e soprattutto spesso non li riconosce, è altrettanto vero che sono gli archetipi che abbandonando la ghiandola pineale continuamente si muovono a visitare Pinco pallino (sogni, patologie, esperienze estetiche e altro ancora -lo sa molto meglio di me, non voglio offenderla). La frequentazione dell’arte o della filosofia allena al riconoscimento “quotidiano” della dimensione mitica, degli archetipi, così che qualche volta anche pinco pallino (pallina, nel mio caso che né artista né filosofa sono…) arriva a sperimentare lo stato “invasato dagli Dei”. Solo dura poco, non crea niente che resti se non nella composizione e nell’estetica delle oscure storie personali- non è poco comunque.
    Niente di più, sembra anche a una Dea, può esservi dell’arte. L’archetipo incarnato, persistente.
    Mi ribello solo un po’ (e non lo farei se fossi veramente Hindu) ad includere Topolino e King Kong nel pantheon. Sento che ci sarebbe da approfondire…

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