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Un nuovo internazionalismo # 1

di Una città

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Riproduco qui l’editoriale dell’ultimo numero di “Una città”, una straordinaria rivista di approfondimento che vale la pena di cercare e di leggere. Questo editoriale è stato scritto prima dei tragici eventi delle ultime settimane, che non fanno che rendere più agghiacciante un quadro di prepotenza e ottusa sopraffazione imperiale comunque già evidente fin dall’inizio di questa sciagurata avventura. (A. M.)

“C’è una cosa particolarmente nauseante nella brutalità americana. Non solo perché essa si accompagna a un discorso tanto ambiguo su democrazia, libertà e pace, ma perché è così scoperta, così grossolana, in un certo senso così fine a se stessa, uno sport, un affare tecnico. Potere Potere Potere. Ma non sospettano che il potere può essere speso molto più rapidamente dei soldi?”
Con questa citazione di Nicola Chiaromonte, tratta da un articolo contro la guerra del Vietnam, Gregory Sumner a proposito dell’avventura “preventiva” irakena, nel numero del marzo 2003 di Una città, metteva in guardia dal pericolo di un “pantano vietnamita”.

Non poteva andare peggio.
L’Irak è stato consegnato all’islamismo radicale, sunnita e sciita, e probabilmente si trasformerà in una nuova repubblica islamica dove le donne saranno costrette a portare il velo. La sorte della spedizione in Irak è ormai appesa al volere di un ascetico vegliardo (e speriamo appartenga veramente all’altra corrente teologica, meno oscurantista di quella di Khomeini, con il quale ha vissuto per anni a Qom. E già questo ci dice tanto sulla grossolanità di un intervento che si confortava dei “precedenti” del… Giappone del ‘45!).
Ora si faccia tutto quello che il sant’uomo vuole, se si vuole evitare un finale catastrofico, con i cannoni dei liberatori rivolti contro la popolazione “liberata” e il personale d’ambasciata che fugge attaccato ai pattini degli elicotteri.

L’Irak è diventato terreno d’azione, e d’elezione, per le organizzazioni terroriste islamiste, e nella resistenza all’invasore presumibilmente si sta forgiando una seconda leva di brigatisti internazionali islamisti. La prima, quella afghana, poi seminò morte e distruzione in tanti paesi musulmani, a cominciare dall’Algeria.
I paesi musulmani che si avviavano con fatica sulla strada di riforme democratiche, prima fra tutte quella del Codice della famiglia, sono di nuovo in difficoltà di fronte ai “conservatori” oscurantisti, che hanno fra i loro obiettivi principali quello di mantenere le donne in uno stato di minorità e per questo fanno leva strumentalmente su sentimenti di orgoglio nazionale e religioso.
L’immagine dei barbuti islamisti che finalmente hanno di fronte, sul loro terreno, la potentissima America e riescono a tenerle testa, farà breccia nell’immaginario di tanti giovani. Il dubbio che proprio questo, “stanare l’America”, volesse Bin Laden con le Torri non è affatto assurdo. Comunque in tutti i paesi musulmani, e su questo non possiamo farci illusioni, l’internazionale islamista starà reclutando migliaia e migliaia di militanti.

Il diritto internazionale e l’Onu sono stati umiliati, e questo dopo che, a fatica, la presa di coscienza dell’orrore di Srebrenica stava portando a una nuova sensibilità dei cittadini e dei governanti di tutto il mondo sulla necessità di una vigilanza internazionale a salvaguardia delle minoranze minacciate e per prevenire i conflitti interetnici. L’America che era accorsa in difesa delle minoranze musulmane d’Europa minacciate da nazionalisti cristiani e che, per tutta risposta, aveva subito l’atrocità delle Torri, aveva raccolto la simpatia e la solidarietà di gran parte del mondo. L’America di Bush e Cheney, l’America dei fanatici cristiani e dei consiglieri d’amministrazione della Halliburton, ha il volto della prepotenza, dell’arroganza, della voglia di supremazia e si sta alienando la simpatia di tutti. C’è qualcuno alla Casa Bianca, per quanto irresponsabile e incapace, che possa ritenere questo un vantaggio nella lotta contro i rivoluzionari islamisti?

Lotte di liberazione nazionali come quella palestinese e quella cecena sono state sospinte, per disperazione e abbandono da parte di tutti, verso ideologie islamiste. Non vedere le differenze fra il giovane benestante saudita che si getta nelle Torri di New York e la giovane vedova cecena o il giovane palestinese che si fanno saltare in aria è un errore nefasto, gravido di conseguenze. Da quando è stata proclamata la guerra santa contro il terrorismo, con il beneplacito silenzioso degli Stati Uniti, il “democratico” Putin ha potuto portare avanti il suo genocidio in Cecenia, e il Milosevic del Medio Oriente ha avuto via libera per distruggere ogni possibilità di uno stato palestinese degno di questo nome. Israele si annetterà altre parti della Cisgiordania, Gaza diventerà “la pattumiera dell’Anp”, i palestinesi verranno confinati in aree-ghetto del tutto dipendenti da Israele. (E anche sui metodi spietati di Israele vanno ricordate verità elementari -e ovviamente non si parla di soldati che sparano a bambini armati di pietre, di bulldozer che demoliscono le case dei familiari dei terroristi o di uliveti sradicati, perché questi sono metodi di stampo fascista e basta, ma delle “eliminazioni” dei dirigenti di Hamas: se si fosse accettato il piano saudita oppure il piano messo a punto a Ginevra e i palestinesi avessero avuto soddisfazione, uccidere un Rantisi che avesse continuato a fare attentati perché per lui Israele va distrutto, sarebbe stato comprensibile e, anche, giustificato. Farlo mentre è in corso la costruzione del Muro, la pulizia etnica a Gerusalemme est e nel centro storico di Hebron prosegue incruenta ma inesorabile, e si sta pregiudicando ogni possibilità di accordo di pace onorevole per i palestinesi, è politicamente un crimine. E’ la stessa differenza che corre fra l’intervento in Afghanistan dopo le Torri e la guerra all’Irak).
Va così. Prima o poi, casomai al prossimo attentato, sarà ucciso Arafat, cesserà ogni “autorità” dei palestinesi che torneranno a essere “profughi in casa loro” e chi vivrà vedrà se tutto questo tornerà bene per Israele. Per intanto la sua reputazione è distrutta. Se Israele resterà quello di Sharon e del Likud finirà per essere lo stato più odiato del mondo e questo c’entrerà molto poco con l’antisemitismo e, tanto, con la ripulsa, radicata ormai nel cuore dei più, di ogni forma di apartheid. Così la memoria della shoà, usata in modo irresponsabile e cinico per alzare un muro di silenzio e indifferenza attorno all’esistenza di una popolazione di “sottouomini”, sarà pregiudicata nella coscienza dei giovani di gran parte del mondo.

L’immagine della democrazia, infine, è nel fango. La democrazia che piace ai vari Bush, Sharon, Putin è una democrazia slacciata dal rispetto dei diritti umani universali. E’ la democrazia di Guantanamo e di Bolzaneto, una democrazia che agisce in modo extragiudiziario, che può arrivare a torturare, uccidere, fare leggi razziali, segregare; è una “democrazia etica” (oltre che etnica, a volte) che ha sempre una ragione superiore cui obbedire ed è sempre minacciata. Per questa strada si può arrivare a uccidere il proprio premier o a fare brogli elettorali: i colpi di stato diventano qualcosa di accettabile, di impercettibile quasi. Se dovessimno usare il loro linguaggio dovremmo dire che sono “democrazie canaglia”. Milosevic ne è stato un alfiere. Se fosse per questa gente la democrazia sudafricana bianca sarebbe ancora in piedi e agenti dei servizi sarebbero ancora in giro la notte a torturare e a fare a pezzi “terroristi” neri dell’Anc.
Alla fine, poi, nessuna democrazia che non rispetti i diritti umani può sopravvivere perché libertà di stampa, trasparenza delle decisioni, discussione libera diventano insopportabili. Un ministro del governo fantoccio irakeno ha protestato contro la “punizione collettiva” inflitta dagli americani alla città di Falluja. La sola espressione fa rabbrividire qualsiasi democratico e antifascista. E infatti non ci stanno facendo sapere nulla.

***

Una città, 119, marzo 2004 – Continua

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