Il barocco inevitabile

di Riccardo Ferrazzi

picasso_corrida.jpgCarlo V (che gli spagnoli chiamarono e continuano a chiamare Carlos primero) si ritrovò a capo di un impero mondiale nel 1519, neanche due anni dopo che Lutero aveva affisso le sue novantacinque tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg.

Quelli che seguirono furono anni disastrosi, scanditi da guerre, ribaltamenti di alleanze, paci infide, massacri e saccheggi. Solo lo sfinimento e il cambio generazionale convinsero tutti ad accettare lo status quo. Nel 1545, un papa dimezzato e contestato aprì il Concilio di Trento. Dal viaggio di Colombo erano passati appena una cinquantina d’anni.

Ma dopo tanta guerra, orrori, passioni politiche e religiose, ci si accorse che qualcosa era cambiato: dalle nebbie del Medio Evo era uscito e aveva preso forma compiuta il modello dell’uomo integrale, l’homo copula mundi, l’uomo al centro dell’universo. Anche in mezzo alle guerre il rinascimento aveva continuato a progredire. Nelle arti figurative aveva raggiunto la perfezione assoluta e si spingeva oltre, verso dimensioni sconosciute, a superare se stesso. Il gigantismo e il non finito michelangiolesco aprivano la strada alle acrobazie del barocco.

Armata dello spirito tridentino, la Chiesa stroncò ogni accenno di eterodossia. Ma se scienziati e filosofi dovettero allinearsi, gli artisti furono più fortunati: il barocco divenne la bandiera artistica del cattolicesimo, in contrapposizione con l’iconoclastia protestante. Papi e cardinali approvarono la fusione di pittura, scultura e architettura, le piante ellittiche e le colonne tortili, l’esplosione di una fantasia che andava oltre l’immaginabile.

Lontana, isolata dai fermenti del protestantesimo, la Spagna teneva un occhio rivolto all’America e l’altro a Roma: il cattolicesimo in versione tridentina era merce d’esportazione nel Nuovo Mondo, giustificazione morale dell’imperialismo, collante di uno stato nazionale appena nato. L’alleanza tra la Chiesa della controriforma e lo stato assolutistico venne giustificata e teorizzata dai dottori di Salamanca. Restava da educare il popolo, e questo compito spettava agli artisti.

***

L’opera che meglio illustra l’etica del barocco è El gran teatro del mundo di Pedro Calderon de la Barca.

Vi si immagina che Dio, in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, chiami le anime dei nascituri ed assegni a ciascuna un destino terreno: a una toccherà di regnare, ad altre toccherannno la ricchezza, la bellezza, il misticismo, il lavoro dei campi, la miseria o l’ingrata sorte di morire poco dopo la nascita. Ogni anima esprime la gioia o lo sgomento per il destino che le è stato imposto, ma non c’è scelta: con i destini assegnati, le anime entrano nella vita terrena.

Il seguito è inevitabile: il bambino muore nel rimpianto di una vita mancata, il mendico si trascina di porta in porta sperando aiuto dal prossimo e disperando di se stesso, il bracciante si spacca la schiena lamentandosi del destino ma dandosi da fare, la mistica fa di necessità virtù, la bella si avvita nel narcisismo e si vede sfiorire con la vecchiaia, il ricco si vede portar via tutto dalla morte, il re si inebria di potere e resta schiacciato dalle responsabilità.

Poi la morte arriva per tutti e la scena torna a trasferirsi nel luogo puramente intelligibile dove la storia aveva avuto inizio. In una specie di seduta psicoanalitica di gruppo, Dio rivela alle anime che la vita che hanno vissuto non è altro che una “parte” nel gran teatro del mondo. Ciò che vale non è l’importanza della parte, ma che ognuno reciti bene quella che gli è stata assegnata: “Obra bien, que Dios es Dios !

La morale della favola, fin troppo evidente, pareva essere: contadini, servi della gleba e diseredati di ogni genere, state buoni e tranquilli perché il vostro destino non si può cambiare. A che serve invidiare chi è ricco, bello o potente? Prendiamo quel che ci capita: ognuno per sé e Dio per tutti. Questo modo di intendere la vita venne predicato da tutti i pulpiti, recitato in tutte le piazze. Gli spagnoli subirono un vero e proprio lavaggio del cervello.
A ben vedere, El gran teatro del mundo non è poi così consolatorio. La sua tematica è la stessa della tragedia greca: siamo padroni della nostra vita, o non siamo piuttosto burattini costretti a recitare un copione scritto da altri? Perché ci diciamo liberi, se siamo schiavi del destino e della morte?

***

In pieno Seicento El gran teatro del mundo non poteva essere letto in prospettiva laica. Ma si verificò un curioso fenomeno. Le chiese, i teatri, i palazzi da cui questa Weltanschauung veniva predicata e ai quali veniva mentalmente associata, erano barocchi. Alzando gli occhi alle navate, ai retablos, agli affreschi, il popolo vedeva immagini titaniche, vertiginose fughe prospettiche, contorsioni architettoniche che sembravano sciogliere la materia. L’incitamento a “recitare bene la parte che Dio ci ha assegnato” si fondeva con l’anelito di superamento, la voglia di sovrumano che costituisce l’essenza del barocco.

È ormai un luogo comune considerare Seicento e Settecento come secoli vacui, dominati dal gusto della ridondanza. Ma barocchi furono anche Galileo, Leibniz e Kant, con le loro parrucche e con le loro intuizioni rivoluzionarie. In realtà fu lo spirito barocco a porre le basi di ogni rivoluzione, compresa quella del 1789. Anche la testa di Robespierre, prima di cadere, portava la parrucca incipriata.

In Spagna, a partire dal Seicento, non bastò più “recitare la parte”, bisognava recitarla “bene”, e cioè superandosi, tentando di fare le stesse cose come nessuno le aveva mai fatte. Il barocco era un punto di arrivo e non si poteva andare oltre. Non restava che applicarlo a tutto, alla vita intera.

Questo modo di intendere l’esistenza ricuperava l’ideale cavalleresco e lo met-teva alla portata di ciascuno. La maggior parte del conquistadores che sottomisero le Americhe erano contadini analfabeti, ma come i cavalieri della tavola rotonda potevano pensare che ogni uomo d’animo nobile è tenuto a entrare nella foresta, ad affrontare il mistero, a dominare la paura. In premio avrebbe avuto il Graal, un feudo, o la morte. In ogni caso, un’avventura che gli avrebbe permesso di evadere dalla banalità della vita quotidiana. In questo brodo di coltura entra anche don Chisciotte. Il cavaliere dalla triste figura, che scientemente decide di credere a un sogno, è più cavalleresco o più barocco? Sincerità, disperazione, autoinganno: in don Chisciotte c’è l’uomo e il superuomo.

E così il barocco, l’imperialismo e la fede si intrecciarono per formare un popolo devoto alla chiesa, sottomesso al re e ai feudatari, forte in battaglia e sfrenato nell’avventura. Uno stato così compatto e così ardito sembrava invincibile. E invece la Spagna pagò la pace sociale con l’isolamento politico, e l’imperialismo con il collasso dell’economia.

Ma non se ne accorse. Rimase barocca anche dopo la rivoluzione francese. Seguitò a combattere, non per conquistare territori ma per difendere la sua identità. Per essere se stessa rinunziò a una a una alle provincie del suo impero con lo stesso spirito con cui i romani avevano abbandonato le isole britanniche: se non ci apprezzano non ci meritano.

Le passioni civili rinacquero nell’Ottocento, ma furono parentesi: l’alleanza di Stato e Chiesa ebbe sempre buon gioco a risuscitare la filosofia di vita che il Seicento aveva stampato nel codice genetico della Spagna. Passarono le repubbliche e le dittature, ma la Spagna restò chiusa nel suo mondo barocco. Inseguì il sovrumano nelle architetture oniriche di Gaudi, nel surrealismo di Dali, nelle metafore di Garcia Lorca, nelle astrazioni di Picasso. Oggi la Spagna è democratica. Ma fino a che punto è cambiata?

Nel parco del Retiro, Paco Umbral si ferma a contemplare il gruppo marmoreo di Lucifero sconfitto dall’arcangelo Michele e ne conclude di trovarsi davanti a un monumento al Demonio.

Sulla bandiera del Tercio c’è ancora il motto “Viva la muerte! “.

Attraverso il paradosso, la ricerca del sovrumano sfocia inevitabilmente nella morte. Eccola, la Spagna che non cambia: anche la fiesta nacional è una paradossale festa di morte.

***

Madrid. Le sei di un pomeriggio di primavera. Ventimila persone colte da un’improvvisa frenesia si affrettano a infilarsi nel metro, a prendere al volo un autobus, un taxi. Mezz’ora dopo, con un cuscino sotto il sedere, una lattina di birra in una mano e un sigaro avana nell’altra, affollano gli spalti della Plaza Monumental di Las Ventas.

Alle sette in punto, due cavalieri in abito settecentesco entrano nell’arena, ricevono le chiavi del recinto dei tori e guidano la sfilata delle cuadrillas in una specie di trionfo multicolore. La banda suona un paso doble. La folla applaude.

Il corteo attraversa l’arena, i matadores accennano un inchino verso il palco del presidente, tolgono le pesanti cappe di seta ricamata, impugnano le cappe di percalle e provano i lenti movimenti della veronica. Il vociare della folla cala di tono. Poi, nel silenzio generale, uno squillo di tromba, l’addetto si affaccia dal toril, controlla che la plaza sia vuota, apre la porta sbattendola con un colpo sordo e un buco nero si spalanca davanti all’arena inondata dal sole.

Entra la morte.

Cosa passa per la testa degli spagnoli quando, dall’utero del toril, sbuca correndo nel sole il mostro nero, il drago, il babau?

Giù nell’arena un omino dal volto teso, ingabbiato in un incongruo costume luccicante, si è precipitato in una corsa suicida verso il toro, si è inginocchiato con la cappa bene in vista, l’ha sventolata in un ampio giro. E la folla si è identificata in lui: tutti hanno capito. Mi metterò sulla strada del mostro perché non possa evitarmi. Lo aspetterò in ginocchio per essere ancora più inerme. Mi verrà addosso come una locomotiva, ma io non mi muoverò. Guarderò la morte negli occhi e le sputerò in faccia.

Retorica? Istrionismo? Può darsi. Ma lo spirito barocco insegna che il terrore va sublimato con un’overdose di medicina omeopatica: per vivere bisogna impaurire la paura, uccidere la morte. Questo è ciò che passa nella testa degli spagnoli seduti a bere birra al sole di maggio, quando sentono schioccare la porta del toril e la tragedia ha inizio.

Entra il protagonista, ed è la morte. È un’onda emotiva che fa quasi scricchiolare le ossa del torace sotto l’impatto di colpe, rimorsi e castighi che piombano tutti insieme dall’alto del nulla, addosso e dentro le costole. È un attimo snaturante, ingigantito dalla consonanza della folla: l’essere percepisce il non essere che porta dentro di sé, l’odio-amore per il padre e la madre che l’hanno tratto dal nulla, la paura del tempo, l’inafferrabile presente che eternamente corre verso il buco nero dal quale è uscito e nel quale rientrerà.

L’uomo arriva sempre fino ai suoi limiti estremi, come fu per il barocco, e quando li raggiunge vorrebbe superarli, sbatte contro il paradosso e il teschio del non essere gli ricompare davanti.

Gli spagnoli hanno umanizzato la morte, le hanno prestato sentimenti antropomorfi. Il toro simboleggia la morte, ma è vivo e vuole vivere. Per questo combatte, alla maniera di chi non possiede armi difensive: attaccando. Il toro ideale non ha paura di niente, carica in linea retta tutto ciò che si muove e non si stanca mai di caricare. Prende la picca così come un lottatore teso nello sforzo incasserebbe un graffio nei bicipiti, le banderillas gli fanno il solletico, la stoccata gli annebbia la vista senza scalfire la fiducia nella sua forza immensa. Cade con la bocca serrata, senza aver mai cessato di combattere, quasi incredulo di una sconfitta che sembra attribuire più al destino che all’avversario.

Per poco che riesca a dominare la paura, l’uomo potrebbe deviare la carica con la muleta e, appena passate le corna, conficcare la spada nel fianco del toro. Ma non lo fa, non lo farebbe mai. La logica del barocco esige che l’uomo attacchi di fronte, esponendo il corpo alle corna per tutto il tempo necessario ad affondare la stoccata. La tauromachia riproduce il duello di Turno e di Enea: la forza bruta deve essere sconfitta dalla virtus. Per questo il combattimento dell’uomo e del toro è regolato da una legge: l’uomo deve fare tutto ciò che è necessario nel modo più pericoloso.

Non fu sempre così. I toreri del periodo classico, da Pedro Romero a Joselito, credettero in buona fede che “fare tutto ciò che è necessario” contenesse già il massimo del pericolo. Ma no, si poteva andare oltre. Per dimostrarlo, lo spirito barocco si incarnò in Juan Belmonte.

Guardate: il toro è in mezzo alla plaza. A dieci passi da lui Belmonte è immobile, con la cappa stretta nelle mani. La linea ideale che va dal toro all’uomo divide l’arena in due terrenos. Entrare nel terreno del toro sembrerebbe un suicidio. Belmonte scoprì e dimostrò che era possibile deviare il toro durante la carica; dunque, era possibile entrare nel suo terreno e restare vivi.

Guardate: Belmonte vuol far passare il toro alla sua destra. Agita la cappa. Il toro carica. Belmonte stende il drappo e sposta il piede destro di quasi un metro: entra nel terreno del toro. Il lembo esterno della cappa sventola davanti all’occhio sinistro dell’animale: inseguendolo, il toro devia l’angolo di carica, non colpisce nulla, si ferma, si volta, e vede Belmonte che torna a provocarlo con la cappa. Ad ogni passaggio Belmonte è avanzato nel terreno del toro, ed è ancora vivo, illeso.

Per quasi trent’anni Juan Belmonte continuò a toreare in questo modo: con un piede oltre l’orlo della morte. Osservate bene la sua immagine, in qualche vecchia fotografia sgranata: quella faccia da lupo, quel ghigno inquietante e un po’ sghembo, non li avete già visti? Provate ad affiancare una foto di Belmonte a una di Nuvolari. Hanno la stessa fisionomia.

Belmonte continuò a toreare finché lo ressero le gambe: sfidare la morte era di-ventato una droga. Quando non fu più in grado di scendere nell’arena la vita senza sfide si trasformò in una insopportabile agonia. Il colpo di pistola con cui si bruciò il cervello disse al mondo che un popolano andaluso era salito ai vertici dello spirito barocco e si era rifiutato di tornare indietro.

Print Friendly, PDF & Email

4 Commenti

  1. Bellissimo pezzo. Grazie a Ferrazzi. (Ed è pertinente il suo mettere in relazione Belmonte con Nuvolari).

  2. Ferrazzi ha il coraggio di essere inattuale, almeno in apparenza.
    Un vero respiro! Complimenti a lui e a chi lo ha postato.

  3. Quelli devoti vengono uccisi più spesso. Quelli cinici sono i migliori compagni. Ma i migliori di tutti sono i cinici ancora devoti; oppure dopo, quando essendo stati devoti e poi cinici, ritornano devoti per cinismo. Juan Belmonte è un esempio di quest’ultimo tipo.
    Lo stile decadente, assurdo, quasi depravato di Belmonte… lavorava a quel modo a causa della bassa statura, della forza scarsa, a causa delle gambe fiacche. Non accettò nessuna regola stabilita senza provare se si poteva infrangerla e fu un genio e un grande artista…
    (Morte nel pomeriggio)

    “Barocco è il mondo” sbottava Gadda quando lo accusavano di barocchismo.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

In uscita

Condivido in pieno il messaggio di Antonio. Anch’io ho deciso di uscire da Nazione Indiana. Non descriverò qui le...

Busi: 4 sì ai referendum

di Flavio Marcolini A sostegno della campagna referendaria per i sì alla consultazione del 12 e 13 giugno...

Tutto su sua nonna e molto altro

Giuseppe Caliceti intervista Silvia Ballestra Con Tutto su mia nonna, da pochi giorni nelle librerie per Einaudi Stile Libero,...

I leoni

di Beppe Sebaste All’incontro torinese sulla Restaurazione dello scorso 9 maggio, Beppe Sebaste aveva inviato questo brano tratto da un...

Il male dell’America

Intervista a Emmanuel Todd L’ultimo numero di Una Città si apre con questa intervista allo storico e antropologo francese Emmanuel...

“Guadagno più di te e quindi ne so più di te”

di Aldo Nove Leonardo ha più di 30 anni e dirige una piccola e agguerrita casa editrice. Per vivere, dopo...
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: