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Sui demoni e le paste sfoglie di Michele Mari

di Mariolina Bertini

pierino_porcospino.jpgIn un saggio famoso, scritto quattro anni prima di metter mano alla Ricerca, Proust riflette sull’età d’oro delle sue letture, l’infanzia, e sulla passionale sudditanza da lui allora sperimentata nei confronti dell’autore del suo romanzo prediletto, Capitan Fracassa:

Avrei voluto che mi dicesse, lui, l’unico saggio detentore della verità, quel che dovevo pensare , in ultima analisi, di Shakespeare, di Saintine, di Sofocle, di Euripide, di Silvio Pellico, che avevo letto durante tutto un freddo mese di marzo, camminando, pestando i piedi, correndo per le stradine…

Attribuirà più tardi un analogo atteggiamento al narratore adolescente di Du côté de chez Swann, smanioso di possedere su tutto- dal teatro di Racine ai paesaggi alle cattedrali- l’opinione prestigiosa e imprevedibile del romanziere Bergotte. Smania votata allo scacco: non sulle opinioni dell’autore, per Proust, devono appuntarsi le nostre interrogazioni, ma sul mondo della sua opera, sulla sua oggettivata visione, sui tratti ricorrenti e rivelatori del suo stile.

Eppure le idiosincrasie, i giudizi, il canone personale (implicito o esplicito ) degli scrittori che amiamo non cessano di incuriosirci e, come dicono i francesi, di “interpellarci”. Non ci è indifferente che Perec preferisse Agatha Christie a Robbe-Grillet, che Proust testimoniasse in ogni occasione la sua ammirazione per Stevenson, che Benjamin fosse bloccato dalla palpitazione, per eccesso di empatia, quando scorreva le pagine del Paysan de Paris. Affascinati dalla critica dei creatori, cui è sotteso lo scheletro di una poetica a tratti visibile, leggiamo volentieri Stendhal con gli occhi di Balzac , Balzac con quelli di Hofmannsthal, Dickens con quelli di Chesterton : certi margini frastagliati in cui il mondo dell’uno sembra debordare o prolungarsi in quello dell’altro , certi miraggi momentanei, certe illusioni ottiche , ci attraggono e ci turbano, offrendoci una via di fuga dalle formule periture e dagli schemi, quasi sempre ideologici , della teoria letteraria. Non manca , certo, qualche inconveniente: letta da Hofmannsthal, la Commedia umana si carica di sospette ombreggiature decadenti, mentre la Certosa di Parma risulta, per i gusti di Balzac, troppo lunga e confusa. Deciso a migliorarla, il critico-romanziere non esita a suggerire al suo confrère Stendhal di buttarne via un buon terzo, amputando senza pietà tutto quel che precede il racconto della battaglia di Waterloo. Piccoli incidenti di percorso. Non bastano a convincerci che lo scrittore trasformatosi in lettore per un paradossale e miracoloso rovesciamento non meriti tutta la nostra attenzione , tutta la nostra simpatia. Quali che ne siano i risultati, la sua metamorfosi ci delizia, ci incanta: come quella del leprotto di Pierino Porcospino che, rubati al cacciatore la carabina e gli occhialetti rotondi, dritto sulle zampine posteriori, si trasforma a sua volta in infallibile tiratore.

I demoni e la pasta sfoglia (Quiritta, Roma 2004, 469 pp., 19,00 euro) attesta questo genere di metamorfosi in Michele Mari che d’altronde, anche nelle sue prove di narratore, non aveva mai rinunciato ad intrecciare al racconto un suo peculiarissimo discorso sulla letteratura: si pensi alle pagine sugli scrittori di mare in Tu, sanguinosa infanzia o agli ammirevoli pastiches di Gadda e di Céline disseminati in Tutto il ferro della tour Eiffel.

Già la spiegazione del titolo del volume ( titolo che sembra riecheggiare, in forma di chiasmo, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, di Campanile) mette in primo piano l’assoluta continuità dell’estetica che informa l’opera tutta di Mari, senza steccati tra riflessione critica e narrazione:

(…) Molti dei nostri scrittori prediletti sono degli ossessi. Ossessione è da assedio, ma il suo nome scientifico, anancasma, è da destino, ananke. Scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa, sì che nessuna interpretazione mi pare fuorviante come quella che ne riconduce l’opera a un intento salvifico, quasi la scrittura sia solo un surrogato della pratica psicoanalitica. Al contrario, è proprio scrivendo che essi finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni.

Negli anni Settanta si sarebbe parlato, a proposito di questa immagine , di “dialettica del demone e della pasta sfoglia”: il demone ispira, attraverso l’ossessione, il lavoro stilistico dello scrittore, lo pungola e lo incalza a trasformare in pregiata , esilissima sfoglia gli ingredienti a volte banali della sua esperienza vissuta. Ma proprio perché d’ispirazione demoniaca, la lucida sfoglia burrosa non uscirà fragrante d’innocenza dalle mani del suo fattore: quale che sia la sua destinazione (strudel, vol-au-vent, torta salata) recherà l’impronta del rovello che l’ha generata, restituirà al demone, ben rifinito e assottigliato, il suo dono opprimente e mortifero:

Questo significa che lo scrittore-ossesso parlerà della propria ossessione anche quando non ne fa un tema esplicito, anche in àmbiti insospettati: il Gadda delle norme radiofoniche, ad esempio. Come sa chi ci sta, l’ossessione è soprattutto una forma, come lo schema molecolare di un cristallo o un retino ottico. A quella forma soggiacerà tutto, dalle “cose di cui si vuole scrivere alle parole con cui scriverne alla sintassi alla punteggiatura (i tre puntini di Céline, “l’invention du siècle”, certo la più necessaria che io ricordi.)

E’ proprio il carattere multiforme dell’ossessione a preservare questa raccolta di saggi , compatta e coerente come più non si potrebbe , da ogni sospetto di monotonia. Potocki e Gadda, Hoffmann e Canetti, Melville e Maupassant sono egualmente ossessi al congeniale sguardo di Mari: ma il mondo “posseduto e stuprato” del primo non può esser confuso nemmeno per un attimo con la “bamboccesca inanità della cosiddetta storia” esperita dal secondo; l’intima scissione degli eroi hoffmanniani non ha nulla a che fare con il “pietrificarsi” dell’eroe di Auto da fé ; il mostro abissale con il quale si confrontano Achab e la sua ciurma ha in comune con lo Horlà di Maupassant soltanto la natura di mostro, in contesti sotto ogni aspetto antitetici. La categoria dell’ossessione non diventa mai nelle mani di Mari un docile e inerte passe-partout atto ad aprire le porte dei più diversi mondi immaginari: conserva sempre, invece, una sua sfuggente, dispettosissima indipendenza e costringe il critico a braccarla negli angoli più riposti , a riconoscerla nei travestimenti e nelle forme più impensate, anché là dove dispiega le illimitate capacità di appiattimento e di mimesi dell’elastico Tiramolla. E’ il caso , già citato, delle Norme per la redazione di un testo radiofonico , in cui un serissimo Gadda, funzionario della RAI, finisce per attribuire a un supposto ascoltatore standard la propria “segreta suscettibilità” , trasformandolo in un fantasmatico doppio su cui proiettare le proprie idiosincrasie; è il caso di Stevenson e di London, apparentemente dispersi nel dilatato spazio dell’avventura, ma inchiodati all’implacabile ricorrere delle proprie personali mitologie; è il caso, infine, del Piccolo principe di Saint-Exupéry, di cui Mari ci offre la prima lettura rigorosamente depurata di ogni traccia di sentimentalismo. Che cosa possiamo immaginare di più sadico dell’apologo dell’accattivante esserino che per tutto il romanzo cammina verso la morte, verso il suicidio , oppresso da un insostenibile senso di colpa e di responsabilità? Forse soltanto le immagini inquietanti che lo accompagnano:

… elefanti inglobati in un serpente visto in sezione, asteroidi completamente occupati dalle radici di tre baobab o completamente fasciati dal manto d’ermellino del loro sovrano, lampionai costretti a spegnere e accendere il loro lampione senza posa…

All’insegna della “luttuosa dissonanza” ( che emerge nei temi della mancanza, della rinuncia, della perdita), quella che ci è stata spacciata come la favola più consolatoria ed edulcorata del Novecento, riconquista nella lettura di Mari un’insospettata dignità: senza la goccia di vetriolo versata dai démoni, la sfoglia di Saint-Exupéry rischiava di restar consegnata per sempre all’ammirazione dei lettori di Coelho e del Gabbiano Jonathan Livingstone.

Possiamo dire che manchi qualche cosa, in queste pagine che spaziano da E.A. Poe a Pierino Porcospino, da Henry James (duramente bacchettato per gli aspetti “estenuati” e “leziosi” del Giro di vite) a Stephen King, da Salgari a Gadda, toccando decine e decine di altri autori, che tutti in qualche misura hanno sollecitato l’immaginazione di Mari e arricchito la sua collezione di mostri e mostrini? Forse sì; manca, in calce ad ogni pezzo, la data di stesura (molti testi sono inediti) o di pubblicazione. Ha un aspetto positivo, quest’assenza di punti di riferimento cronologici: accentua la coerenza solidissima dell’insieme, ne esalta la compattezza, in un’illusione di contemporaneità che ricorda il mitico istante in cui , nella Vita Istruzioni per l’uso, tutto il palazzo che è oggetto del romanzo diventa improvvisamente visibile agli occhi del narratore. Ma ha anche un aspetto negativo: ci sottrae per esempio la possibilità di datare le pagine 127-128, su Benjamin e Céline , pagine in cui Mari accenna ai propri pellegrinaggi nei passages del II arrondissement , sulle tracce ad un tempo del benjaminiano “mondo sottomarino” e del venefico inferno céliniano. E se fossero, quelle due pagine , il primo embrione di Tutto il ferro della torre Eiffel? Se racchiudessero in potenza l’intero universo formicolante di quel romanzo vertiginoso, come il fagiolo di Topolino racchiudeva l’altissima pianta destinata ad arrivare sino al cielo? L’assenza di date frustra sul nascere ogni nostra illazione. Non ci resta , per consolarci, che cercar di tracciare l’inventario di tutto quel che circola tra i saggi di Mari e i suoi romanzi, instancabilmente: nani canettiani e automi hoffmanniani, esserini, mostri, doppi, fantasmi, golem … Ma il genio perecchiano dell’esaustività rifiuta di ispirarci: meglio lasciare ad ogni lettore la sua caccia al tesoro, i suoi inseguimenti, le sue agnizioni. A ciascuno le sue ossessioni, i suoi demoni, i suoi vol-au-vent.

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