Perversioni

di Helena Janeczek

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Perché la violenza di Abu Ghraib e la violenza delle decapitazioni sembra coincidere come mai prima con la pornografia? Perché è fotografata e filmata. Questa è la prima risposta, quella che infatti hanno dato tutti.

Ne derivano varie letture, concentrate su uno o l’altro aspetto. Susan Sonntag, ad esempio, ampliava il suo libro “Regarding the pain of others” (Davanti al dolore degli altri) con una riflessione intitolata “Regarding the torture of others. Tommaso Giartosio su questo sito sviluppava una delle più convincenti elaborazoni su come la riproduzione fotografica e la tortura fossero tutt’uno ad Abu Ghraib. Un commentatore della “Tageszeitung”, giornale di sinistra di Berlino, paragonava il video della decapitazione di Nick Berg agli snuff movies ( un pezzo recente di Wu Ming sottolinea l’aspetto di leggenda metropolitana di quei prodotti estremi della pornografia violenta, cosa che tuttavia non li renderebbe meno veri per l’immaginario).Un po’ tutti ricordavano a un certo punto come l’inizio ufficiale del cosiddetto “scontro di civiltà” fosse l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, azione spettacolare cento volte prefigurata dai film hollywoodiani. Questa battaglia, questa prima “guerra dell’era globale”, dicevano tutti, nasce per forza con le caratteristiche della guerra mediatica.
Ho riassunto per sommi capi quel che mi affiora ora dalla memoria. E’ da mesi che giro intorno alla questione, troppo stanca, troppo occupata in altre faccende, ma anche troppo frastornata dalla massa di interpretazioni altrui per mettere a fuoco un senso di insoddisfazione persistente. Spesso, in quel che leggevo, specie se si trattava di interpretazioni ampie, culturali, mi sembrava di cogliere qualcosa di troppo generico, troppo affrettato nel tentativo di chiudere il quadro, mentre restava e purtroppo resta ancora largamente incerto come fossero andate le cose nella cosiddetta realtà dei fatti.
Realtà dei fatti? E’ chi ci crede ancora nell’epoca della “prima guerra mediatica e globale?” Chiunque non ne accetti la logica.
Chi infatti non ne accetta la logica, è tenuto a cercare di stabilirne il massimo grado possibile, pur temendo che non raggiungerà mai la verità, ma solo un’approssimativa verosimiglianza.
E’ diverso pensare che le foto ricordo con tortura fossero nate dall’iniziativa spontanea dei riservisti giovinastri americani, abbruttiti e rimbambiti dalla società delle immagini da cui sono prodotti, o sospettare che all’origine di quelle foto ci fosse l’uso strutturale – imposto da più alte gerarchie militari e di “intelligence” – delle riprese all’interno degli “interrogatori speciali”, come sembrerebbero dimostrare varie inchieste come quella di Seymour Hersh sul “New Yorker” (www.newyorker.com). Umiliare soprattutto sessualmente e fissare per sempre le immagini di quelle umiliazioni, era, a quanto pare, ritenuto il mezzo più efficace sui prigionieri musulmani, cioè quello più idoneo a raggiungere lo scopo di ogni tortura: rompere le resistenze, far “cantare” (Che cosa, non si sa).
Che qui entri in gioco anche l’immaginario di come secondo gli alti comandi U.S.A. sarebbero fatti i nemici musulmani, è una precisazione che per il momento si può lasciar da parte. Basta sottolineare che tutti i discorsi che cercavano di attribuire alle foto un’assoluta, postmoderna gratuità, una banalità del male rivisitata secondo gli standard culturali dell’America mediatica, probabilmente non reggono del tutto all’esame.
Sarebbe comunque stato altamente inverosimile che i suddetti ragazzotti avessero tirato fuori le loro personali macchine digitali senza che la prassi di fotografare i prigionieri torturati fosse stata ampiamente introdotta e con questo approvata dai superiori. Manca all’aggiornamento della banalità del male – oltre al sempre classico “eseguivo gli ordini” – un più recente “quel gioco partiva dal nostro capo-animazione”. E quindi – vai col divertimento! – vien dietro tutto il gregge o tutto il branco.
“Offendere il musulmano”, i torturatori lo fanno a posta, i media liberali dell’occidente lo condannano scandalizzati e si premurano di aggiungere quanto sia pericoloso come errore politico. Non si può mettere gli slip in testa a un imam, ma a un prelato sì? Per un prete dei nostri, abituato com’è ai balletti televisivi in tanga, bisognerebbe al meno procurarsi un perizoma in latex?
Ricordo solo l’esempio meno “cruento”, perché in tutti gli altri come è possibile dubitare che si tratta di una violenza pari a quella perpetrata con i cani o col cappuccio in testa, una violenza sessuale capace di offendere, umiliare e incrostarsi nel profondo di ogni essere umano? Siamo ormai così condizionati dalla sottile alleanza fra le ideologie fondamentaliste e il pensiero multiculturalista da non riconoscere più gli elementari della dignità umana?
La cosa sconcertante è proprio questa: sembra che da noi si faccia fatica a non rimasticare sempre gli stessi preconcetti, anche se ad essi seguono poi valutazioni politiche e morali di segno oppoosto mentre certi aspetti che potrebbero, quelli sì, avere un significato distinto a ragione di una profonda differenza culturale non vengono praticamente mai menzionati.
Avrò avuto circa dodici anni quando andai per la prima volta in Israele. A Gerusalemme, dopo aver visitato i luoghi più famosi, facemmo un giro al mercato della parte araba. Mio zio venuto dall’America stava per scattare una foto a una donna corpulenta e velata, quando questa gli si scaglia contro velocissima, mandando a terra la sua macchina fotografica. Eravamo visibilmente turisti, non visibilmente ebrei (nessuno portava la kippah), ma i tempi- metà anni settanta- potevano considerarsi di quelli relativamente tranquilli. Semplicemente, ci spiegò il parente immigrato in Israele che ci faceva da guida, una donna osservante come quella non si lasciava fotografare. Per non pensare, aggiungeva, a cosa succederebbe se uno girasse con la macchina fotografica fra i nostri ultraortodossi di Mea Shearim.
Quel episodio mi ha colpito molto, anche perché venivo da una famiglia totalmente assimilata e incontravo solo allora il concetto dell’iconoclastia. Le cose, nel frattempo, devo essere cambiate parecchio: dappertutto Al-Jazeera e Al-Arabija più altri canali più devoti che mandano non-stop commenti e sermoni piazzando le telecamere in faccia agli imam o ayatollah. E soprattutto, ovunque, le foto dei ragazzi addobbati per il martirio, sia nella case sia nelle strade, più sinistri dei più astrusi gadget con l’icona di Bin Laden o di Arafat.
Non resta più niente dei secoli di iconoclastia islamica? L’occidente ha trionfato proprio laddove lo si combatte più spietatamente? O sono io che ho capito male qualcosa in partenza? Che cosa vuol dire se degli islamisti radicali filmano e poi mostrano il filmato di una decapitazione, qualcosa che anche ai commentatori cresciuti nella civiltà delle madonne e dei santini pare un atto così raccappricciante da evocare il paragone con la più estrema pornografia?
Forse solo gli esperti militari statunitensi si sono ricordati che immortalarli con le telecamere mentre li costringi a masturbarsi potrebbe avere, questo sì, un effetto maggiore sui prigionieri musulmani.
In ogni caso, non mi è capitato di leggere neanche un dotto commento che riflettesse distintamente l’uso delle immagini sullo sfondo di una civiltà che fino all’altro ieri le aveva escluse, ma sempre solo considerazioni che partivano dalle nostre già da tempo acquisite elaborazioni sulla società dell’immagine globalizzata, cioè quella strutturata a nostra immagine e somiglianza.
Ma rinfrescare il nostri McLuhan e compagnia bella non ci aiuta ad intuire a che punto siano arrivati quelli che si dichiarano nostri nemici, come sembrano avvinghiati a noi in un abbraccio mortale perverso. Perché cos’è mai la lotta per ricreare la purezza della propria religione e civiltà attraverso strumenti ritenuti per secoli sacrilegio, se non perversione?
Perversione: mi sembra il tratto che accomuna i combattenti di questo “scontro di civiltà”, la novità della stagione. Né gli ostrogoti, né Gengis Khan e nemmeno i nazisti, l’Armata Rossa in Germania, i macellai di Pol Pot o gli sgherri di Milosevič la conoscevano come componente essenziale delle loro carneficine. La voluttà della violenza, sessuale o “semplice” o anche mista, certamente: bambini spiaccicati al muro davanti a madri stuprate, torture e supplizi crudelissimamente elaborati; tutto l’armamentario di secolari orrori che fannp impallidire gli abusi e i crimini di quest’ultima guerra. Però, per quanto mi sforzi di pensare, non trovo un solo esempio che somigli ai 120 giorni di Sodoma o a uno snuff-movie, nulla che ricordi la pornografia.
Non c’è dubbio che questo avvenga perché si tratta della “prima guerra globale” combattuta col mezzo globale per eccellenza, la comunicazione massmediatica. Ma non sono sicura che la ragione sia tutta qui.
Come il fondamentalista radicale pare perversamente – e non solo strumentalmente – legato a pratiche peccaminose mutuate dal nemico da eliminare (il suicidio-omicidio è l’esempio migliore), così anche negli americani la sessuofobia islamica sulla quale si fa leva per piegarlo pare anche uno schermo proiettivo per le ossessioni di una società di matrice puritana. Se la violenza che i riservisti di Abu Ghraib trovano “non grave” è così simile a quella delle loro patrie caserme e patrie galere, campus sportivi e ogni altra situazione di branco, questo rimanda principalmente al modo in cui quella società è ossessionata dal sesso. Non a caso, prima che arrivassero i nuovi nemici, l’incarnazione del male per eccellenza era chi uccideva a ripetizione per compulsione sessuale, il serial-killer. Più, nella variante più recente e peggiorativa, il pedofilo. Come se non ci fosse più spazio – mentre saltavano palazzi ad Oklahoma o, per mano dei loro compagni, alunni a Columbine – per il riconoscimento della violenza e della malvagità quando non si presenta sotto il manto della perversione. Ed è forse per questo sottacciuto comune denominatore – tutto è lecito purché non sappia di sesso -che lo “scontro fra civiltà” si presenta da entrambe le parti così accecante.
Due sessuofobie che si incontrano e nel loro abbraccio mortale si annullano generando pornografia. Nel nome dei valori più alti, puri, fondamentali. E’ questo che chiamo perversione.

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7 Commenti

  1. Per quello che ho capito, Helena egregia,
    io distinguerei subito le immagini dai fatti.
    È tradizionale e normale dire che se io vedo una foto di un tale che violenta un bimbo/a io definisca quella come foto da porno/perversione;
    se io vedo una foto un filmato di torture o violenze fisiche si comincia sovente già a fare una discriminazione sul teatro, sul dove in quale situazione è stato girato il misfatto: se sia violenza pubblica o privata o immagini riprese in un teatro bellico.
    Si erigono subito dei distinguo anche perché viviamo in un’epoca dove il consumo delle immagini è rapidissimo, direi convulso e tutte le cose velocemente sovrapposte consumate bulimicamente si sfumano si bruciano in poche ore giorni settimane.
    Quanta gente, pur bene informata, si ricorda con precisione i fatti le situazioni la nazionalità dei soldati i luoghi ove furono filmati episodi di torture e di violenze avvenuti solo pochi mesi fa?
    Tutto tende a confondersi nel sovrapporsi di milioni di immagini ed ad entrare nel calderone nel minestrone della nostra memoria.
    Perché non è nemmeno ormai del tutto certo che certe violenze siano avvenute nei modi presentati dai media; si possono filmare o fare finte violenze in studio a Tortona o a Barletta e dire che sono state filmate a Najaf.
    Una parte è certamente veritiera e per me non sottrae orrore alle scene, ma io sto pensando a coloro che consumano milioni di immagini ogni giorno davanti a monitors di tutti i generi; c’è il rischio che tutto perda il suo valore di dolore sofferenza e susciti poca pietà o compassione per miliardi di fruitori di immagini che sovrappongono il video sadomasoporno della notte con il terremoto del giorno con i fucilati a Pechino con il morto sotto il camion a Cinisello con la bella che presenta il telefonino con i torturati di Abu Ghraib ed i senza tetto gli affogati del Bengala.
    Tutto sta nel sentire davvero l’impatto fisico che entra in noi solo ormai al contatto profondo con violenza con la morte vera.
    La moltitudine di immagini sta inflazionando la comunicazione ed è difficile far ormai dei distinguo seri.
    I disturbatori politici i servizi segreti questo lo sanno bene e si possono servire ampiamente di questi mezzi per creare situazioni di confusione estrema.
    Diceva un giornalista che non ricordo sul Sole-24 Ore, qualche settimana fa, che avendo ora un cellulare con macchina incorporata scatta praticamente una ventina di foto al giorno anche insignificanti e se le scarica sul pc; in poche settimane ha visto e scaricato centinaia di immagini cosa che non aveva mai fatto con la camera foto vera e propria.
    Sono lontani ormai i tempi in cui le immagini terribili delle cataste di cadaveri dei lager facevano svenire molte persone, io credo ed insieme temo che ci stiamo vaccinando al terribile con il flusso estremo di immagini e che non sappiamo più distinguere davvero chiaramente perversione da orrore verità dolore e carni straziate.

  2. Considerazioni interessanti. Dissento però decisamente da questa affermazione: “Perché cos’è mai la lotta per ricreare la purezza della propria religione e civiltà attraverso strumenti ritenuti per secoli sacrilegio, se non perversione?”. Non c’è nessun sacrilegio e perversione, perchè la guerra di religione dell’islam non esiste. E’ solo l’alibi o fantasma che copre una lotta politica. Lotta di potere. I capi del fanatismo islamico sono perfettamente consapevoli di agitare la religione come specchietto per le allodole, strumento di adesione e reclutamento. Non c’è strumento più potente della differenza di Spirito per persuadere menti povere e ignoranti con l’uso pretestuoso della religione come mezzo di persuasione. Non c’è nessuna intenzione di ricreare la purezza della religione. Più brevemente: ai capi del fanatismo islamico non gliene fotte nulla della loro religione come delle altre.

  3. negli ultimi mesi ho affrontato questo argomento, senza arrivare però ad avere una visione e una versione lucide. sono d’accordo con chi afferma che l’obiettivo del fanatismo islamico non sia quello di una ridare purezza al proprio credo e alla propria civiltà, a meno che questa purezza non venga letta come sinonimo di affermazione politica, come valore strumentalmente temporale. ma l’immagine dell'”abbraccio mortale perverso” che lega, paradossalmente, due parti avverse, la trovo azzeccatissima. un’immagine molto significativa. mi sono chiesta più volte quanto tutto ciò che è stato fatto (rapimenti, decapitazioni, minacce) sia stato fatto solo, solo per poterne dare notizia? qual è il valore assoluto di quei gesti? perché si confeziona un prodotto d’informazione, un filmato, se non per alimentare l’ossessiva e infettiva mania voyeuristica. I nostri modelli di reality trovano adepti che li radicalizzano, brutalmente. e, a cominciare da questo www che ci fa leggere, scrivere, comunicare in assoluta libertà, il quarto potere si trova a essere causa dell’abbraccio mortale. non so se parlare di abuso è di per sé argomento abusato; certo mi pare che nella dipendenza massmediatica è la perversione, diabolica. rimedi? mezzi di cura? su questo poi si potrebbe aprire un bel capitolo. chissà le proposte, a cominciare da quella più semplice, forse reazionaria del boicottaggio: che siano spente tutte le telecamere in faccia agli imam, o che quei filmati non passino… forse sì, ma, mmmhh, il sapore d’abuso però pare lo stesso.

  4. Se Milošević dalla sua cella di Scheveningen leggesse questo pezzo, si strapperebbe quei pochi capelli che ha in testa. Lui, che ha avuto quella “brillante” idea di usare stupri di massa per piegare le musulmane e i musulmani bosniaci in un’irreversibile sensazione di umiliazione che in un essere umano annienta ogni volontà e resistenza – non si è ricordato di farlo filmare! Meno male… Tra i musulmani bosniaci e il resto del mondo islamico ci sono enormi differenze, dovute non solo alla “tarda” conversione dei primi, ma anche al loro continuo contatto con cristiani cattolici e ortodossi e dunque anche con l’arte figurativa cristiana, per cui la loro iconoclastia nella maggioranza dei casi riguarda da sempre solo gli ambienti religiosi (moschee, medresse e simili). Ma lo stesso, se gli stupri di massa fossero stati filmati, certamente avrebbero avuto un effetto ancora più devastante.
    A Helena complimenti per questo straordinario articolo e grazie per avermi indotto a vedere le cose in un modo nuovo.

  5. Io invece penso che quelli che portano avanti il progetto di una rivoluzione islamista (che è, ovviamante, un progetto politico) credono sì alla loro ideologia religiosa. Credono però anche – come molti rivoluzionari, in primo luogo quelli comunisti le cui pratiche hanno studiato – che il fine giustifica i mezzi. Ma questo non è puro cinismo e semplice brama di potere: è invece quella contraddizione che ha strangolato le rivoluzioni come l’ombelico avvolto intorno al collo di un nascituro. Anche Stalin sognava a suo modo il sol dell’avvenire, e immaginate che l’ayatollah Khomeini, dopo anni di esilio, non volesse davvero ristabilire una società migliore ai suoi occhi e più gradita ad Allah? Poi ci sono le variabili umane, gli abissi dell’anima ignara a se stessa, quelli shakespeariani.
    Grazie Snjezana dei complimeti, anche perché temo che ne sai più di me. Non è che abbia studiato la questione dell’iconoclastia nel mondo islamico che come tu ricordi è (o era) vasto e variegato, ma credo che seppure in vari momenti e luoghi fosse meno rigido dell’ebraismo ortodosso nel bandire ogni rappresentazione della figura umana, fosse comunque in un rapporto molto diverso con l’immagine di quello cristiano.
    Grazie comunque a tutti e mi dispiace non poter più approfondire con voi questi argomenti ( o quelli molto attigui del pezzo di Andrea), ma domani parto anch’io per una decina di giorni di vacanze.

  6. “ai capi del fanatismo islamico non gliene fotte nulla della loro religione come delle altre.”

    E’ verissimo ma il punto è che le mandano in giro le televisioni arabe, in teoria estranee al terrorismo (anche se Magdi Allam ha chiarito molto bene la natura dei redattori di Al Jazeera) e le autorità religiose (quelle vere) non protestano neppure.

  7. Beh, Elio, le nostre nazioni democratiche vanno per il mondo a ammazzare e torturare con la benedizione di parecchia gente.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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