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L’affermazione della libertà

Intervista a Mauro Curradi

di Roberto Saviano

ps013.jpg La riscoperta di Mauro Curradi (Pisa, 1925) è stata una piacevole nota dell’editoria italiana. Scrittore di grande qualità, Curradi è uno dei rarissimi narratori italiani ad aver analizzato e conosciuto il continente africano. In questa intervista avvenuta nella sua confortevole casa romana, Curradi passa in rassegna la sua esperienza africana ma non soltanto. Parla del mondo borghese in cui è nato, del suo rapporto con Aldo Palazzeschi, delle leggi razziali degli anni Trenta. Un affresco completo della sua vita di uomo e soprattutto un’immersione nella sua opera letteraria.

La voce di Curradi è calma, precisa, a volte commossa da avvenimenti cruciali che la sua vita ha incontrato. Non rinuncia però mai all’ironia, e tutto il suo peregrinare in diverse parti del mondo, tutto il suo viaggiare non assume una caratteristica di epica moderna, piuttosto è una continua ed assidua sedimentazione d’esperienze non incanalate in un progetto. I romanzi di Curradi sono parti di vita, emblemi di una prassi empirica che riconosce nel viaggio e nell’incontro con l’Altro la possibilità di rivelare a se stesso, ed al lettore, la parte più nascosta, cablata, del proprio essere, cullato altrimenti nelle sue certezze e nei suoi faticosi privilegi.

Mauro Curradi, la tua trilogia africana Via da me (L’obliquo, 2000), Cera e oro (Meridiano zero, 2002 ) e Persona non grata (Meridiano zero, 2003 ) sta generando attenzione sia nel pubblico che nella critica. Potresti descriverci il tuo incontro con l’Africa?

Il primo contatto col mondo africano lo ebbi in Marocco, trascorsi cinque estati ospite di un amico marocchino ad Al Hoceima, sublime città mediterranea. Qui mi venne voglia di scrivere un libro e così nacque Via da me [1970]. Questo testo dedicato al Marocco l’ho scritto in parte ad Al Hoceima, in parte in Italia ma la stesura definitiva è avvenuta in Svezia dove ero andato a lavorare come vicedirettore dell’Istituto di Cultura Italiana. Il libro all’epoca fu pubblicato da Mondatori, l’editing me lo fece il mio amico d’infanzia Cesare Garboli, ed ebbe un discreto successo. Certo, il successo esiguo che possono avere i miei libri, non avendo scritto Via col vento, purtroppo…
Accadde poi che mi stufai della Svezia. Stoccolma è una città stupenda ma gli abitanti sono insopportabilmente…

Freddi?

…scemi, piuttosto. Ci vuole un’ora per estrarli dal loro silenzio, cinque minuti per rimpiangerlo. Tornai così ad insegnare nella mia scuoletta di Roma. Mi telefonarono poi dal Ministero degli Esteri e mi offrirono il lettorato di Addis Abeba, accettai subito nonostante mi dissero che in Etiopia sarei stato soltanto lettore, mentre a Stoccolma ero vicedirettore dell’Istituto. A me non fregò nulla. Non ho mai voluto fare il burocrate culturale. Qui, in Etiopia nacque Cera e oro, e per vent’anni non scrissi più una riga. Volevo esser sicuro di quello che avrei scritto e poi non ne avevo voglia. Volevo soprattutto vivere, vivere nei paesi dove mi sarebbe capitato di vivere. Vivere e basta. In Etiopia sono stato tre anni. Persona non grata è una sorta di continuazione di Cera e oro avendo gli stessi personaggi, ed è il frutto di un mio appassionato viaggio nello Yemen. La mia esperienza africana quindi è basata su due sedi, Marocco ed Etiopia, anche se poi alla fine della mia carriera ho lavorato all’istituto di cultura di Tunisi, ma io snobisticamente vivevo a Cartagine…

Sei uno dei pochissimi scrittori italiani ad aver capito qualcosa della cultura araba…

Della cultura araba si sono occupati in molti. Io non sono un arabista. Io ho conosciuto, amato, detestato gli arabi. Ho vissuto tra gli arabi e ho scritto di questa esperienza. Proprio la sedimentazione del mio rapporto con il mondo arabo ed africano mi ha portato a scrivere i miei libri.

Nell’attuale situazione politica una certa parte di mondo occidentale considera il mondo arabo e la cultura islamica come un pericoloso monolite fondamentalista. Sembra essersi concluso il dialogo tra civiltà mediterranee?

Non c’è più nei paesi arabi quel clima d’amicizia che ho trovato trent’anni fa in Marocco. All’epoca vi ho trovato degli amici veri, tra arabi e berberi, amici di grande umanità. Persone che son state necessarie alla mia formazione di uomo. Io la parola fondamentalismo negli anni in cui frequentavo il Maghreb, alla fine degli anni ’60, non l’ho mai neanche sentita. L’Islam è come la religione cattolica. Il cristianesimo è una cosa e la Chiesa ne è un’altra. Se Cristo tornasse sulla terra e vedesse i flabelli, gli ori, gli altari ne rimarrebbe inorridito, lui che ha predicato la povertà, l’umiltà, la via degli ultimi. Allo stesso modo l’Islam. Certe cose che sono attribuite all’animo arabo non sono vere, sono invenzioni dei loro preti, del loro clero. Molti dei miei amici arabi non hanno mai imposto il velo alle loro mogli, figlie, sorelle. Mai. Oggi in Italia, e forse più allargatamene in Occidente, un pregiudizio anti-arabo esiste. Per respirare realmente la loro cultura bisognerebbe avere degli amici arabi e amarli.

Per Huntington lo scontro tra civiltà occidentale e islamica è impossibile da evitare. Cosa ne pensi?

Non credo che riuscirò a vedere le due culture vivere in pace così come un tempo è stato. Almeno non nel tempo della mia vita. Mi rimangono ancora pochi anni da vivere e non riuscirò neanche a vedere i segnali e le volontà di convivenza e comprensione tra le due civiltà. Il laghetto del Mediterraneo temo per lungo tempo continuerà a tingersi del sangue degli immigrati affogati e dei conflitti generati dal fondamentalismo economico della borghesia occidentale contro il fondamentalismo del clero e di certa alta borghesia islamica. Eppure io ho vissuto anni in cui sembrava materializzarsi la soluzione alla crisi.

Quando? Dove?

Negli anni ’70, proprio in uno dei posti più roventi della storia contemporanea: Israele.

Racconta.

Parto da lontano. Quando il consigliere d’ambasciata italiano fu trasferito da Addis Abeba in India, siccome era contento del mio lavoro, propose al Ministero degli Esteri di mandarmi come direttore dell’ufficio di cultura dell’Istituto di Nuova Delhi. Io accettai. Lì, in India, sono stato cinque anni. Da Nuova Delhi mi trasferirono a Tel Aviv in Israele. Lì sono stato quattro anni. Ho vissuto in un Israele dove arabi ed ebrei ancora frequentavano le stesse scuole, le città erano un mescolio di culture e di tradizioni, gli arabi lavoravano a Tel Aviv liberamente. A Gerusalemme c’era un night club dove si incontravano studenti ebrei e studenti arabi. Soprattutto le ragazze ebree frequentavano il night e per vincere la proverbiale timidezza araba erano loro ad invitare i ragazzi a ballare. Da lì nascevano conversazioni infinite e molteplici amori. Di lì a poco infatti avvenne il miracolo.

Il miracolo?

Sì, il miracolo, che io ho vissuto in prima persona ed è stato uno dei più bei giorni della mia vita. Sadat, il Presidente dell’Egitto, dichiarò ad Israele la sua disponibilità ad andare alla Knesset, il parlamento israeliano, per discutere del problema palestinese. Il giorno dell’arrivo di Sadat io mi trovavo all’aeroporto di Gerusalemme come rappresentante del corpo universitario assieme a diplomatici, politici, militari. Fino all’ultimo momento non sapevamo se lo sportello dell’aereo si fosse aperto e Muhammad Anwar al-Sadat sarebbe uscito. Lo sportello si aprì e uscì Sadat in persona. Lo ricevettero Golda Meyer, Ytzhak Rabin e tutto l’establishment glorioso della politica israeliana. Con un corteo di auto Sadat si diresse verso la città ma lungo il tratto di strada che porta dall’aeroporto a Gerusalemme, per circa trenta chilometri ai lati della strada, centinaia di giovani padri e giovani madri israeliani si erano radunati spontaneamente. Quando passava Sadat alzavano i loro bambini e dicevano “salvaceli”, “non farli diventare soldati di un’altra guerra”. Tutti noi piangevamo di commozione. È stato un giorno che mai ho dimenticato nella mia vita e mai dimenticherò. Iniziarono così le trattative tra Sadat, il presidente americano Carter ed il primo ministro d’Israele Begin. Nel 1978 a Camp David fu firmata la pace tra Israele ed i suoi vicini. Purtroppo però di lì a poco Israele iniziò a commerciare come in un suk arabo, i territori, i confini… Lì purtroppo cominciò la rovina. Ricordo che all’epoca il sindaco di Nazareth era un arabo d’Israele che era anche deputato alla Knesset, si batteva perché anche agli arabi della città fosse concesso di utilizzare un po’ dell’acqua con cui gli ebrei innaffiavano splendidamente i giardini. Non riuscì a ottenere nulla. Come sempre però la ragione non è da una parte sola, gli errori non furono ovviamente solo di Israele. Oggi i kamikaze palestinesi si fanno saltare in aria nei ristoranti, sui bus, vicino le scuole. I miei amici israeliani sono disperati. L’opinione pubblica d’Israele ha dato carta bianca a Sharon, un militare duro e poco intelligente, nella speranza che possa far cessare la paura. Arafat dall’altro lato ha portato avanti una politica ambigua ed è pur sempre colui che condivise e rivendicò l’uccisione degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del ’72. Un referente politico inaffidabile. Confidavo molto in Rabin ma l’hanno ucciso. Non c’è un israeliano, a quanto mi giunge voce, che sia d’accordo con Sharon, votano per lui perché c’hanno paura.

Sei molto affezionato ad Israele ed alla cultura ebraica?

Gli ebrei mi hanno molto affascinato. Ho parenti ebrei. Avevo uno zio Bemporad che da ragazzino non sapevo neanche fosse ebreo. Mi accorsi che esistevano gli ebrei a Torino quando vennero le leggi razziali del ’38 ed il mio compagno di banco Lauria non me lo trovai accanto quell’anno scolastico. Pur non potendo più partecipare alle lezioni veniva a prendermi a scuola per amicizia ed affetto, avevamo 14 anni, ma ogni volta che passava riceveva sassate dagli altri ragazzi. Mi son vergognato d’essere italiano. A casa di mio zio vedevo dei candelabri strani, il pane azzimo che lui, infrangendo le regole, mangiava con il prosciutto ed una volta gli chiesi: “Zio, ma è vero che sei ebreo?” Per me la risposta da allora definì l’ebraismo: “che altro ti hanno detto?”

Della cultura africana ed araba cosa ti è rimasto?

Cultura è una parola complicata. Ogni cosa è cultura. Non c’è elemento della vita degli individui che ho incontrato che non possa essere definito culturale e che quindi non mi abbia influenzato. Ricordo che ad Addis Abeba chiesi ai miei studenti con molta cortesia di evitare durante la lezione di mettersi le dita nel naso. Un ragazzo alzò la mano e mi rispose: “professore non è contro la nostra cultura”. Capì quindi che anche mettersi le dita nel naso è elemento culturale…

A proposito di Addis Abeba. L’Italia, paese che colonizzò l’Etiopia, non ha mai dedicato particolare attenzione a questa nazione, come mai?

L’Italia non ha capito nulla dell’Etiopia, soltanto Flaiano ha scritto un libro, Tempo di uccidere, ambientato in Etiopia, ma non è un libro sull’Etiopia, non riesce a comprendere l’animo etiope, il mondo umiliato ed affamato dei contadini etiopi, la nobiltà di tratto e d’animo della millenaria civiltà africana. L’Italia non ha voluto capire, non si è nemmeno proposta di capire. Non si è mai posta il problema di comprendere la cultura etiope. L’Italia si è comportata come un paese coloniale della peggior specie. Ha depredato, sottratto, conquistato e nulla più.

Altro elemento fondante della tua letteratura è il ruolo dei bambini. In Persona non grata, vi è nella parte finale del testo un bambino che con una piccola erezione tenta l’americano Brad. Questa scena è scandalosa ma tu affermi che: “Lo scandalo esiste solo se serve a qualcuno”. Cosa intendi dire?

Persona non grata tratta di pedofilia prima che la pedofilia divenisse un problema diffuso e diffusamente affrontato. Il protagonista Michele sente Brad una persona non grata ma Brad insegna a Michele che anche lui contiene una persona non grata. Quel bambino che Brad forse violenterà rappresenta una colpa, una sofferenza, anche per Michele. L’abuso sessuale è soltanto uno dei diversi scandali che è possibile incontrare. Il vero e principale scandalo del libro si trova nelle ultime righe, quando Brad registra il dialogo di due viandanti arabi che per un’intera giornata parlano di una macchina rossa che è passata dinanzi ai loro occhi. Un’umanità che parla così, soltanto di ciò che accade, incapace di dire e pensare altro, spinta soltanto a riempire in modo idiota il proprio cervello: questo è lo scandalo più atroce. L’abuso sessuale è certamente un’aberrazione, ma è l’unico scandalo che viene decodificato dall’Occidente con più facilità e viene stigmatizzato con ardore proprio perché non mette in discussione il proprio essere. Non lascia emergere la parte non grata di se stesso.

Nei tuoi libri tratti di occidentali che vanno in Africa, mai di africani ed arabi che vanno in Occidente, seppur quest’ultima è cosa più diffusa. Come mai?

Ho raccontato la mia esperienza. Mi interessava poi raccontare di un intellettuale europeo che si scontrava con un mondo altro, della cui miseria in quanto occidentale ne era in qualche modo artefice seppur non colpevole. Gli arabi immigrati restano ciò che sono, è molto resistente l’animo arabo. Mantengono la loro identità. Non tentano neanche di mutarsi. L’occidentale invece è più permeabile, siamo più affascinati e tentati a modificare la nostra cultura. Sono molti i casi di conversione di italiani all’Islam, mentre sono rarissimi gli islamici che si convertono al cristianesimo…

Perché c’è questa resistenza?

Gli occidentali come base culturale hanno… gli elettrodomestici: basta una réclame ben fatta e tutti cambiano marca di elettrodomestici, gli arabi… che amano molto gli elettrodomestici, sono meno invogliati ad abbracciare un’altra cultura. Hanno tempi diversi, più lenti. Gestazioni infinite, prima di mutare strada. Non mi ricordo di nessuno scrittore africano o arabo che appaia singolarmente attratto, almeno in un’opera, verso la cultura occidentale.

In questo continuo movimento, Marocco, Svezia, Etiopia, India, Israele, Tunisia, c’è stato forse in te un desiderio di fuga?

Andai in Etiopia in cerca di verità e di un libro da scrivere che, dopo Via da me, approfondisse la mia esperienza africana. Trovai la paura di quello che aveva affascinato la mia infanzia e di quanto stava accadendo allora nel 1970, mentre la contestazione giovanile entusiasmava le capitali europee. Con l’idea di scrivere un instant book presi centinaia di appunti, ma sentivo che per qualche ragione dovevo scrivere quel libro in Italia al cospetto di una società che voleva dimenticare. Sono semplicemente andato ovunque, e ovunque mi sono sempre sentito libero. In ogni luogo e in ogni viaggio non sono scappato ma ho affermato la mia libertà.

Gli autori che più ti hanno influenzato nella tua fase “africana” quali sono stati?

Sicuramente non André Gide, non lo sopporto, risulta essere un visitatore osceno. Degli arabi vede i culetti quando si arrampicano sulle palme. Jean Genet sicuramente sì. Genet ha compreso sino in fondo il mondo arabo e l’ha amato e detestato con la ragione ed il cuore, senza esotismi o romanticismi del testosterone. Di Paul Nizan ho seguito la sua ideologia. Mi riconosco in Aden Arabia, nel viaggio come scoperta dell’altro per svelare lo scandalo di se stessi. Ed infine Albert Camus. Lo straniero lo rileggo almeno una volta all’anno. Tutto è già detto lì!

Non rimane che parlare dell’altra tua produzione narrativa, quella attenta al mondo borghese.

Mi accorgo ora che son giunto ad un’ età anziana, che il mio lavoro si svolge in due tempi. Il tempo dei romanzi sulla borghesia italiana ed i romanzi africani di cui sino ad ora abbiamo parlato. Nel mio “ciclo” borghese i libri Gli ermellini [1954] Città dentro le mura [1957], Schiaccia il serpente [1964] e Interni borghesi [1966] analizzano il mondo borghese cui io stesso appartengo. Mentre la narrativa italiana osservava il mondo operaio e contadino in romanzi qualche volta bellissimi, io racconto della borghesia anni Cinquanta-Sessanta. In Passato prossimo (Meridiano Zero, 2003) scritto dopo il mio ritorno in Italia, narro la vicenda di un’alta borghesia, vissuta negli anni che vanno dal ’45 ai primi anni ’50. Lo scrittore Fran?ois Mauriac mi ha molto influenzato in questa produzione, sopratutto come modo di narrare e come attenzione alla borghesia cattolica. Nei miei romanzi descrivo la naturale disumanità della borghesia. Odiavo la crudeltà della competizione borghese per raggiungere un certo livello di vita, disprezzavo la loro ideologia religiosa che confortava il loro agire. Sarà forse che io son sempre stato un pigro ….

L’ultimo romanzo che hai scritto, Junior, riprende il “ciclo borghese” della tua scrittura?

Junior racconta l’ascesa di una giovane borghesia provinciale avida e sensuale, nemica delle memorie paterne, ambientata dal 1947 fino agli anni ’90. Il libro uscirà per Meridiano Zero, come anche gli altri romanzi del ciclo borghese.

Parlami di Rossellini…

Rossellini è il regista che più amo. Molta mia letteratura deve al suo modo di girare i film. Non bisogna dimenticare che una delle scene più belle di Roma città aperta, dove la Magnani si divincola e corre verso il camion di prigionieri tra cui c’è il suo uomo, io la vidi svolgere sotto i miei occhi. Rossellini riprese una vicenda che io vissi in prima persona. Mia madre era tra le donne che presenti al rastrellamento tedesco tentavano di divincolarsi per correre verso il camion. Mia madre e decine di altre donne furono malmenate dai tedeschi. Una scena che Rossellini ha eternato nel suo capolavoro.

La tua produzione borghese è stata amata molto da Aldo Palazzeschi, vero?

Aldo Palazzeschi è l’unico che mi ha amato. Gli altri scrittori del tempo mi hanno del tutto ignorato. Conoscevo per ragioni mondane, anche se è un orrida parola, Leda Mastrocinque che era frequentata da tutti, Pasolini. Moravia, Morante. Io ero troppo bello per essere preso sul serio da loro. Gli scrittori non hanno diritto d’esser belli, io ero bello e ciò mi bastava… Ovviamente queste sono sciocchezze.

Hai conosciuto Palazzeschi?

Certo. Palazzeschi mi diede il Premio Roma per inediti. Premiò il libro Gli ermellini. Stavo sotto la doccia, mia madre bussò al bagno dicendomi “Mauro, c’è Palazzeschi che ti vuole al telefono”. Se mi avesse telefonato Greta Garbo sarei stato meno stupito. Palazzeschi mi annunciò che avevo avuto il Premio Roma e aggiunse “io non vado in genere alle cerimonie ma per conoscerla sarei disposto a venire”. Ci demmo appuntamento sotto le scale del Campidoglio. Arrivai carico d’ansia e vidi questo pappagallino ormai vecchio che mi si appoggiò al braccio.

Prima hai elencato Gide, Genet, Nizan, Camus. Gli scrittori italiani ti sono indifferenti?

Tozzi e Palazzeschi sono gli unici grandi scrittori che ho amato. Nessuno è al loro altissimo livello.

Di tutti i tuoi viaggi, del tuo nomadismo reale e culturale, cosa ti rimane ora, sommando tutto?

Beh, innanzitutto un figlio. Ho adottato un ragazzo indiano, e ora ho due splendidi nipoti. Poi mi rimane una qualche spiritualità. Io non mi sento ateo ma partecipe di ogni cultura. So di avere una religione, non so quale. Io mi lascio molto influenzare. Per esempio in India sentivo i motivi della religiosità indiana, in Maghreb la sensuale cultura islamica mi ha conquistato e la cultura ebraica mi ha toccato moltissimo. Il cattolicesimo l’ho detestato.

Il posto in cui ti saresti fermato a vivere?

La costiera amalfitana! Ci sono andato una prima volta e lo considerai il posto più bello del mondo. Credevo però che tale giudizio fosse dato dal fatto che ero giovane e non conoscevo nulla. Ci ritornai con Irene Brin dopo aver viaggiato per mezzo mondo e frequentato isole e coste stupende. Confermai a me stesso che la costiera amalfitana è il posto più bello in assoluto.

Pubblicato su Pulp nel Maggio 2004

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4 Commenti

  1. Ho letto per la seconda volta quest’intervista ed ho avuto l’identica reazione della prima volta.
    Allora mi era sembrato banale dirlo, ora lo faccio: secondo me quest’intervista è bellissima

  2. Assolutamente d’accordo. Ciao Vins, ciao Robbbertoooo! (Come la Loren con Benigni alla premiazione degli Oscar);-)

  3. Grazie ragazzi! Curradi è davvero uno scrittore interessante, un grande vecchio dalla giovanissima e vigorosa prosa.

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