Una piccola storia partigiana

di Sergio Baratto

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Così, nel Partigiano Johnny, Fenoglio descrive l’arrivo sui colli sopra Alba di un gruppo di trecento alpini disertori:

“Non avevano ufficiali, ed erano condotti da sergenti, come loro fratelli maggiori. I sergenti fecero formare quadrato e ordinarono il presentatarm. Poi vi fu la fusione e l’abbraccio. Johnny con Pierre si tuffò nel vortice, e vennero salutati, paccati, baciati e smorfiati tutto in reciprocation; commisurarono, in quel gorgo, le loro armi e divise, i disertori offrendo tutto di sé per aver di che cambiare in loco ed all’istante le loro vergognose assise fasciste, offrendo addirittura per spogliarsi anche parzialmente di quell’onta le loro stupende semiautomatiche tedesche per le toy-weapons della maggioranza partigiana. Parlavano e gridavano in schietto veneto, la dolcezza dell’inflessione violentata dall’altitudine del grido, ed un urlo di indignazione e vergogna scoppiò quando seppero che alpini veneti come loro presidiavano per i fascisti la città di Alba. Pregarono d’esser mandati istantaneamente addosso a quelli e di ucciderli, ucciderli tutti. – Tedeschi porci e repubblica anche più porca! – urlava un biondo di loro, incredibilmente giovane e massiccio, aerando la sua divisa come per sgombrarne il lezzo segoso e ferale delle baracche tedesche. – Semo fradeli, ostia! Come potevamo venirvi contro, fradeli! – Avevano uno strano stile d’insulto, non pareva insultassero, ma solo recriminassero e recriminando uccidessero. L’inflessione non gli consentiva il supremo insulto; pieni e maturi e perfetti erano, come voce, nell’esprimere amore”.

Tra quei trecento alpini veneti c’era il mio prozio Enrico. Veniva dalle campagne di Treviso – il mio ramo materno è uscito da lì, da quelle famiglie contadine assurde, di tredici o quattordici figli. Era finito negli alpini, gli alpini erano finiti nella guerra.
Nel 1943 lo zio Enrico aveva all’incirca 25 anni. Dopo l’8 settembre si trovò a dover scegliere. Poteva darsi alla macchia, tornare di soppiatto a casa e nascondersi in quella terra di nessuno in cui era cresciuto, tra il Livenza e il Piave, aspettare tranquillo che altri facessero il lavoro sporco, scommettere sul vincente, accodarsi. Poteva andare a ingrossare le fila dei repubblichini, magari approfittarne per darsi alla pazza gioia macellatoria sulle Apuane.
Decise altrimenti. Disertò e si unì alle Brigate autonome del colonnello Martini Mauri – il comandante Lampus del romanzo di Fenoglio. Partigiani badogliani. Probabilmente partecipò alla presa di Alba. Sicuramente si trovava su quelle colline, nel piovosissimo ottobre del 1944.
Lo zio Enrico, mi hanno detto, era un ragazzone allegro, gioviale, uno di quei “bellissimi ragazzi, sani e diretti, settentrionali ma accesi”, per dirla ancora con Fenoglio. Un contadino veneto, uno semplice, non istruito, senza retroterra ideologico. I campi, la grappa, la polenta, la mona, Maria Vergine. Eppure seppe scegliersi la parte, dietro la Linea Gotica.

Io non l’ho mai conosciuto, lo zio Enrico. È morto due anni dopo la Liberazione, in maniera banale e assurda, per una specie di beffa atroce del destino – di quelle proprio da manuale, che solo il fato porco o gli dei anche più porci sanno architettare.
Si era trasferito con suo padre e sua sorella – mia nonna – in provincia di Milano, aveva trovato casa, un posto in fabbrica. Un giorno un suo collega è arrivato sul lavoro con una rivoltella. Chissà, forse voleva farsi bello con i propri compagni, forse voleva solo prezzarla. Capire se era ancora buona. In questi casi cosa fai? Vai da uno che di armi ne ha usate, ne ha dovute usare, che se ne intende. Ad Abbiategrasso non è che si fosse sparato più di tanto, gli uomini s’intendevano probabilmente di più di donne e biciclette. Forse quel tale si è solo messo a giocarci come un coglione. Di sicuro non ha pensato che un proiettile potesse essere rimasto in canna. Il proiettile ha fatto inaspettatamente il suo dovere di proiettile. È partito, ha centrato lo zio Enrico dritto in pancia.
Mia mamma dice che era un bel ragazzo. Dice che era il fratello prediletto di mia nonna. Sulla foto, lo zio ha i baffetti e le stesse irresistibili orecchie a sventola del mio bisnonno.

Come si vede, è solo una piccola storia partigiana, non di quelle particolarmente mirabolanti o degne di chissà quale onorificenza ufficiale. Però secondo me dice molte cose, dice già quasi tutto. Avevo voglia di raccontarla perché – a furia di dibattere su commemorazioni datate, stalinismi garibaldini, superamento di vecchi valori e altre amenità – si finisce per dimenticare i piccoli, sconosciuti eroi di sessant’anni fa, grazie ai quali oggi possiamo non vergognarci totalmente della nostra storia, del nostro paese.

(Grazie a Strelnik per l’immagine)

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2 Commenti

  1. Bel racconto Sergio. Una piccola storia di una Italia che sembra allontanarsi per sempre.
    Una storia viva, dignitosa, forte. E’ stata una scelta azzeccata quella di raccontarla e poterla rendere oggettiva. Anch’essa ora è in qualche testa ed in qualche retinosa sensibilità è divenuta un patrimonio di memoria capace di fare a meno di decreti ministeriali e beni culturali. Raccontare, ricordare, almanaccare, è forse l’ultima atea religione che possiamo praticare per non soccombere all’inerzia della volontà ed inutilità della ragione.

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