Centocinque mistico

di Piero Vereni

ATAC-Bus.jpgNon sono ancora le sei di mattina, e aspetto il 105 all’altezza di Torpignattara. Ho sonno, sono come al solito un po’ scocciato per questa gestione casuale dei tempi. Vengo dalla terraferma veneziana degli anni Settanta, dove gli orari di autobus e vaporetti erano filastrocche che imparavamo da bambini (cinque-venticinque-quaranta-cinquantacinque, sei-ventuno-trentasei-cinquantuno) e che ci hanno addestrati all’idea che ci sia una correlazione tra i nostri fini (arrivare in orario) e i mezzi (pubblici) per ottenerli. Trasferitomi a Roma a metà degli anni Ottanta, ricordo lo sbigottimento irritato dell’addetto Atac cui mi rivolsi per sapere quale fosse l’orario dello zerouno: “Orario de che? Quanno ce sta, parte”.

Non mi sono mai abituato ad elargire il mio tempo alla città eterna: se è eterna, che se ne fa dei dieci minuti abbondanti che mi ruba ogni volta che devo prendere un autobus e non posso programmare in modo preciso la mia uscita di casa? Una città eterna, dalla mia ingenua prospettiva, dovrebbe coincidere con una città puntuale.

Mi consolo pensando che questo ritardo sta rendendo più probabile l’eventualità di incontrarle di nuovo. Mi immagino dall’alto via Casilina (è facilissimo: è tutta dritta) con le capoccelle delle personcine in attesa alle fermatucce degli autobussini. Vedo i miniassembramenti farsi via via più consistenti mentre si affollano i minuti tra un autobus e l’altro. Le vedo, due fermate dopo la mia: dall’alto sono solo uno spruzzetto di bianco sul marciapiede. Scendo in picchiata ma l’immaginazione non regge. Mi schianto al suolo mentre provo a ricordare quante sono le linee azzurre sull’orlo della divisa di lino bianco. Due? Tre? Non riesco a mettere a fuoco l’immagine, ma intanto il mio 105 è arrivato.

Saliamo tutti smadonnando tra i denti. Un po’ l’autobus che non passa mai, un po’ che non sono ancora le sei di mattina e a quell’ora ci si sente legittimati a smadonnare “a prescindere”, un po’ che la vita che facciamo contiene un alto tasso di smadonnabilità oggettiva. Sul 105, in qualunque orario, gli italiani sono in netta minoranza, come in quasi tutti i mezzi pubblici di Roma. La cosa che più mi dà da pensare è però che non esistono maggioranze, in questi autobus, qualunque sia il criterio usato: colore della pelle, lingua, credo religioso. Siamo tutti minoritari. Ma ho poco tempo per pensare. Eccoci alla loro fermata. Ci sono. Salgono.

Sono venti suore di Madre Teresa, forse novizie, certamente giovani (nessuna raggiunge i 25, direi). Sopra la divisa, molte indossano golfini di lana blu, o sciarpe nere, utili a proteggere gola e spalle dal pizzicore di queste mattine di tarda estate traditrice. Salgono da tutte le porte, timbrano i biglietti (le uniche a farlo, ovviamente). Poi iniziano a pregare.

Stupidamente, la prima volta che le ho sentite cercavo di ricostruire il senso di quel loro mormorare immaginandolo comunque un biascichio italiano. Certo, dicevo, dal tono generale, dal ritmo, sembra la recita di un rosario. E poi molte il rosario lo tengono in mano. Cercavo le “piena di grazia”, i “ventre tuo Gesù”, i “morteamen”. Italiano? Ma perché mai dovrebbero pregare in italiano? Nessuna di loro è italiana: molte sono nere africane e asiatiche meridionali. Altre, meno numerose, sono europee dell’Est, qualcuna sudamericana. Hanno tutti i colori del genere umano, tranne il giallo, e forse non è un caso. Sono alte e basse, bruttine e belle, tondette e segaligne: qualunque cosa facciano, riescono a scardinare sistematicamente la forza uniformante della divisa che indossano. La loro eterogeneità sfacciata, affacciata sui volti, nei colori delle mani e nelle specificità “etniche”, impedisce allo sguardo di spersonalizzarle fino in fondo, come invece sono abituato a fare con le suore “normali”.

Cerco allora di indovinare che lingua parli con Dio questa Babele in movimento. Come dubitarne? È l’inglese. Dio ha imparato l’inglese, mi pare evidente, e lo riconosce come lingua veicolare.

Mentre pregano (e alcuni di noi smadonnano ulteriormente del loro pregare, quasi la cosa ci distraesse dal nostro malumore) vedo salire al cielo dall’autobus gli sbuffi delle lodi e delle preci. Il nostro diventa un mezzo pubblico a propulsione mistica, procediamo a forza di Pater (Father) e Gloria (Glory).

Per quanto la scena mi affascini e coinvolga di suo, non posso fare a meno di pensarla anche in termini metaforici. Siamo una terra di missione, come lo sono state le terre da cui vengono queste donne. Siamo andati, bianchi, puliti e convinti, a raccontare Dio e la modernità in giro per il mondo. E oggi il mondo ci ripaga il favore, ci viene incontro, prova ancora a farci vedere la faccia di Dio. Un Dio multiforme e colored, forse poco united ma stranamente speranzoso. Non so se ci salveremo, ma se succederà non sarà perché ci siamo pentiti dei nostri peccati. Sarà per le preghiere che salgono dagli autobus delle nostre periferie.

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4 Commenti

  1. si, le ho viste anch’io “le suorine” di Teresa, io però le ho viste in metrò, ora non ricordo la fermata precisa ma ero in sub-centro romano. non le ho mai viste sull’autobus, perciò non posso paragonare. ma là sotto erano “divine”, alle sei di sera faceva un caldo sporco tipo latex, tanto era il pattume che mi portavo appiccicato, e queste signorine sembrava non sudassero neanche, sembravano felici ( non ho implicazioni religiose…..e se anche le avessi il clero non starebbe certo nella mia “top ten”), ma mi hanno riportato alla mente “il loto azzurro” (la coincidenza vuole che il bordo del vestito delle suddette sia azzurro) che nella simbologia buddista rappresenta la conoscenza che porta alla vittoria dello spirito sui sensi. quest’associazione me le ha fatte riporre per benino nel cassetto dei ricordi, le suorine. bene, ci hanno regalato pensieri “buoni” ad entrambi, credo che almeno per me e per lei, forse il loro scopo lo hanno raggiunto. Kanji.

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