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L’oltre, l’altro e l’altrove

Intervista ad Alessandro Bergonzoni

Bergonzoni1.jpgdi Federica Fracassi e Jacopo Guerriero

Con geologica velocità continua la nostra serie di incontri con i Comici (da notare la “C” maiuscola). Buona lettura

Una definizione di Alessandro Bergonzoni su Alessandro Bergonzoni.

Un abusatore del pensiero ossessionato dell’immaginario, desideroso di assassinare la retorica e di non usare più la parola assassinare; anche un comico anche uno scrittore anche un anche.

Quali sono stati gli incontri (di ogni genere: libri, persone, etc.) che ti hanno formato?

Sicuramente i fratelli Marx sicuramente, i fratelli Coen, andrebbero bene anche gemelli o figlio unici e allora sicuramente posso dire il mio regista Claudio Calabrò, molti pittori contemporanei, mio figlio, mia figlia Peppe Lanzetta Wim Wenders, ma soprattutto gli altri io.

Qual è il luogo da cui il comico oggi parla? Il comico si valuta con i criteri dell’estetica televisiva?

Tristemente per la maggior parte della comicità sì, come dico fino alla noia per colpa di certi palinsestisti, un pochino anche per colpa di certi autori attori, tantissimo, e voglio sottolineare tantissimo, per colpa della connivenza marcia e putrebonda dello spettatore audience, della clak passivo-numerica, dei “siamo tornati dal lavoro non vogliam pensare”. Vero è che esiste anche una sub, non tanto sub, situazione di comicità altrove: teatri, certa stampa, certa radio puntiamoci.

Nel contesto odierno il teatro, come luogo del comico, può giocare ancora un ruolo politico?

Sì lo dimostrano i Benni, i Paolini, i Rossi, i Luttazzi con molte riserve e idee personali forse anche certi Guzzanti, ma tutto questo dipende e mi dispiace ripetermi dalle capacità captatorie dei riceventi e questa volta non mi riferisco solo alla gente comune, ma molto anche agli addetti ai lavori, a così detti intellettuali, alla critica in genere, ai pensatori mi auguro ancora esistenti. Comincino loro a far vedere che vogliono cose diverse piuttosto che aspettare gli eventi dicendo dove siamo andati a finire, aumentino l’attenzione su chi vuole andare a incominciare.

Molti comici sostengono che i politici rubano loro il mestiere. Quali sono i perché della satira, oggi?

Ho sempre odiato questa frase anche in epoche non sospette, ora la trovo tra le più tristi e volgari esistenti sulla terra e perché è lapalissiana la lapalissianità dell’enunciato e perché si fa un favore ai suddetti politici che si sentono inevitabilmente protagonisti attivi e non più solo bersaglio civile, poi perché la comicità non è frutto solo di errori, amministrazione, politica, pacchianità, volgarità e mancanza di idee, ma la comicità sta proprio nel contrario e cioè nell’inventare un altro mondo (i fessi credono che inventare un altro mondo sia fuggire da questo per paura o per incapacità). Quando parlo di un altro mondo parlo di quello della creatività, del mondo dell’invenzione e dell’originalità del potere delle idee, della fantasia e dell’immaginazione uniche dittatrici dello stato mentale.

Esiste un serio lavoro critico sui comici? Cosa ne pensi?

Come ho già detto poc’anzi e approfondisco non esiste un serio lavoro della critica sui comici, ne è stata una palese dimostrazione il salone del Libro di Torino edizione 2004 (tema proprio la comicità) dove si aveva un bel da fare incontri contro la tendenza al vuoto di pensiero dei testi a cui spesso la comicità attinge. Nessun giornale decentemente, fattivamente e con voglia ha saputo raccontare, intervenire, additare, denunciare e sollecitare; la critica oggi sul comico è solo capace di fare quello che fa la maggior parte dei comici che criticano: ironia, battutine di parole, gossip di basa lega (vedasi scrivere sul giornale che Luttazzi non rilascia più interviste e che la Littizzetto gira con la scorta). Se l’intellettuale o il critico, che era bello pensare fossero la stessa persona, cominciassero a prendere sul serio quello che non hanno mai reputato serio cioè la comicità, ci sarebbe uno splendido tavolo delle trattative su cui se ne vedrebbero finalmente delle belle.

In un’intervista che gli abbiamo fatto qualche tempo fa, Daniele Luttazzi
ti ha citato come un comico con la vocazione, uno che sta a casa a fare i compiti. E’ vero? La comicità è una vocazione? Puoi parlarci di questi compiti a casa?

Avendo anch’io a mia volta citato tra i pensatori più acuti lo stesso Luttazzi penso, spero e credo che lui con vocazione intendesse la nostra comune spinta al pensare appunto e al creare continuamente anche a casa intendendo con compiti il compito naturale di non riuscire a farne a meno, io con la violenza dell’immaginario lui con la forza della denuncia.

E’ più difficile far ridere o far piangere?

Un po’ stufino anche di questo tormentone credo che a prescindere dal ridere o dal piangere sia difficile far credere alla gente che la testa, l’anima e lo spìrito del creare, dello scrivere, del teatrare abbia un valore assoluto artistico da non sottovalutare mai, cosa che invece la maggior parte del pubblico pensa, dato che non sa più scegliere tra cacca e fiori, tra il tragico e il comico (vedasi audience barzellettiere, rive ombrose, sceneggiati, giallismi itterico isterici, sabatate serali, piagnistei isolani e fratelli che dovrebbero essere orfani).

Che ruolo ha, nella tua comicità, il gioco di parole, inteso in un senso sociale, politico o sessuale?

Nel passato sicuramente è stato origine di molte cose da me fatte, nel presente e nel futuro il gioco di parole il calambour il nonsense saranno solo lontani parenti di quello che secondo me è comunque sempre stata l’origine del mio lavoro e cioè il gioco mentale, la perversione della sorpresa, dell’impossibile, dell’inaspettato, dell’oltre, dell’altro e dell’altrove.

Sei tu che scegli di giocare con le parole o le parole che ti giocano e ti mettono continuamente in gioco?

Nessun dei due fa squadretta come può sembrare di primo acchito, loro, le parole, fortunatamente sono ben più brave, belle e importanti di chi le relega nei vocabolari o solo negli scioglilingua. Io le uso, e dico grazie, come mezzo e mai come fine se no sarei con tutto il rispetto e la stima un enigmista.

In politica giocare con le parole è una strada per arrivare alla verità o un valido aiuto a mentire?

Tutti coloro che credono che chi sa parlare bene o giochi col dire abbia più possibilità di fregare prendere in giro o comandare non si rende conto che per avere un altro tipo di potere, quello vero, servono idee, energia, anima e che anche quindi un muto, se tutto ciò possiede, può conquistare la fiducia propria o altrui. Vero è anche che chi parla poco non è detto che pensi, può anche darsi che non abbia niente da dire così come chi “stra-parla” abbia da dire delle cose
“stra-ordinarie” (ve lo ricordate Carmelo Bene?).

La parola deve inseguire la realtà o può creare una realtà alternativa astraendosi da essa?

Se sei giornalista saggista storico od alto satirico e ripeto alto satirico puoi anche permetterti di seguire la realtà, se sei un romanziere, un pittore della parola, uno scultore della poesia, un attraversatore diagonalista a se stante puoi e devi strafottertene dell’attualità, della realtà, del contemporaneo, della storia che non potranno mai insegnare a sognare od obbligare ad avere gli stessi incubi.
Smettiamola di credere che l’artista debba avere delle radici delle appartenenze delle categorie questo lo lasciamo agli sportivi, agli eroi con la e minuscola, agli accademici, ai vip e chi più ne ha più ne ha.

La comicità ha il potere di Matrix?

Se si intende con potere di Matrix un certo abbindolamento modaiolo o bene che vada dell’immaginario comune, credo tristemente di sì avrei preferito avesse più il potere di Monty Python.

Ti è mai capitato di essere vittima di episodi di censura?

Censura in quanto tale no perché non frequento i luoghi della moda censurabili che sono soprattutto la televisione e certa stampa, come autore di radio e comunque scrittore, quindi anche uomo spero di altra stampa, a memoria d’uomo posso dire che quel tipo di censura politica, volgare di parte e così sporca non mi è mai capitata, al massimo sono stato oggetto di tagli tristi banali tendenziosi sul concetto di difficoltà e di stranezza di pensiero, mi spiego peggio: in certi incontri col pubblico qualche giornalista parvenue o alcuni capetti pagina di certe testate hanno pensato bene di addolcire o mitigare pensieri o idee un po’ impegnative per favorire la così detta facilità di comunicazione. Trovo tutto ciò umiliante detestabile soprattutto da parte del pubblico ricevente.

Quanto conta il tuo corpo in scena?

Essendo un corpo di bacco non per motivi etilici ma perché mi son bevuto il cervello sicuramente conta come le labbra per la bocca, le narici per il naso, l’ombra per il sole, il gatto per Titty.

Come incontri i gusti del tuo pubblico? Certe volte sembri mirare a farli perdere in un labirinto. Parlaci del labirinto…

Evviva evviva evviva forse è arrivato il segnale da me dagli esordi lanciato che è quello dell’odio spropositato del tener conto dei gusti del pubblico. Solo certi autori cinematografici, certi pistoleri televisivi, certi presentatori corretti ed educati, certi editori e certi disc jokey o pubblicitari di livello credono, poveri quaglioncelli, che si debba dare al pubblico andandogli schifosamente incontro quello che il pubblico vuole.. ahi loro, poveri noi…..
Meglio molto meglio portarli in quell’ovunque labirititico ossessivo ma passional-original-ascensional e tutto quello che finisce per al, che è l’orto di chi inventa per far conoscere carote nuove, patate diverse, quasi non fossero né carote né patate. Sarebbe ora che i fruttivendoli sotto la casa del niente cambiassero attività, la gente non è così scema come si crede forse ha voglia di essere stupita, sorpresa, affascinata e portata dove non è mai stata, i villaggi turistici dell’arte forse è ora che vengano chiusi per cattivo gusto banalità volgarità e viltà.
Altri devono essere i turbini per diventare occhi del ciclone e far vedere pianeti diversi.

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