IVAN LINS: UN ARTISTA “SEMPLICE”.

di Franz Krauspenhaar

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Ivan Lins è un grande musicista e, credo, un’ottima persona. Nato a Rio De Janeiro nel 1945, è stato influenzato dalla bossa nova fin dagli inizi della sua carriera (primi anni settanta) ma anche dalla musica americana. Un autodidatta figlio della media borghesia, con una faccia da bravo ragazzo. Che da piccolo studia in un collegio militare e più tardi chimica all’università. Intanto suona il piano con un trio e ascolta musica con curiosità vorace; e inizia a comporre. Va in televisione, ha un certo successo, è un cantante di musica “leggera”. Incide il suo primo LP, ”Agora”, nel 1971.

Intanto continua a studiare per conto suo: il tempo per farsi una cultura, se lo si vuole, lo si trova. Il suo metodo è semplice: ascoltare, ascoltare, ascoltare. Musiche tra le più disparate. E’ influenzato prima di tutto dal suo idolo Jobim, e difatti ne diventerà a pieno diritto l’erede; ma è sedotto (e non abbandonato) anche da Dori Caymmi, dal grande compositore-vocalist Milton Nascimento e, last but not least, da Caetano Veloso. Parallelamente si forgia, come compositore, sul jazz: nella sua musica sono chiare le influenze di artisti come Bill Evans e di jazzisti-compositori di canzoni e colonne sonore per il cinema come Henry Mancini e Michel Legrand. Ama enormemente Miles Davis, Bill Evans, Chet Baker, Duke Ellington. Tra gli americani viventi la sua ammirazione incondizionata va soprattutto a musicisti quali Keith Jarrett, Herbie Hancock, Pat Metheny, Michael Brecker, George Benson, Stevie Wonder.

Come compositore il suo primo successo è “Madalena”, scritta assieme al paroliere Ronaldo Monteiro per Elis Regina. Nel 1973 inizia la sua collaborazione, da allora mai interrotta, col paroliere, poeta e scrittore Vitor Martins, personaggio schivo, curioso, versatile, fantasioso: la loro è una salda amicizia, un sodalizio artistico permeato dalla simbiosi, una “premiata ditta” alla Battisti-Mogol senza crisi del decimo anno. Abbastanza spesso il paroliere batte il calcio d’inizio, scrive i versi in una metrica appropriata alla forma-canzone e il musicista, se vi ritrova se stesso, ci mette sopra le sue melodie e la sua interpretazione inimitabile: ecco, dunque, “il pezzo”; tre, quattro minuti che scivolano via come acqua di fonte tra rocce morbide. In realtà la struttura armonica di quei pezzi è non di rado complessa, ma l’importante è che questa complessità non la si noti all’ascolto.

Lins è un uomo emotivo e viscerale, e questo lo si può capire semplicemente ascoltando la sua musica raffinata ma orecchiabile, accompagnata dalla sua voce molto particolare fatta di appassionata dolcezza, modulazioni continue, vibrazioni gioiose. Alti e bassi mai sopra – o sotto- le cinque righe del pentagramma. Malinconia e voglia di vivere. Affetto che diventa, anche, effetto.
Ricordo il suo concerto del febbraio del 2002 al Manzoni di Milano; era un “matinée” degli “Aperitivi in concerto”, e per un cantante il mattino non ha esattamente l’oro in bocca. Respirava a fatica, all’inizio, anche a causa dell’emozione; sudava, era proprio impacciato, quasi come un debuttante – lo si notava chiaramente. Il pubblico lo incitava pezzo dopo pezzo, ma la sua voce faceva fatica a “uscire”, soprattutto il suo caratteristico “falsetto” (quando parla la sua voce è, invece, sorprendentemente bassa). Lins è uno che, a quasi sessant’anni e dopo una carriera più che trentennale alle spalle, evidentemente va ancora incoraggiato. E noi lo incoraggiammo. Il concerto fu una meraviglia, una carrellata sonora tra canzoni vecchie e nuove, un trascinamento di melodie e di ritmi in un crescendo entusiasmante. Lins stava in piedi davanti alle sue tastiere cantando e suonando come in stato di trance gioiosa, i musicisti del suo gruppo, tra i quali il batterista-compositore Teo Lima, lo accompagnavano con cronometrica maestria e la naturalezza dei virtuosi.

Il collega che stima di più è senz’altro Caetano Veloso: spesso ha cantato pezzi suoi, alcune volte Veloso ha cantato pezzi di Lins. In Brasile è consueto lo scambio tra grandi artisti nel tempo, al di là di certe unioni forzate per puro interesse commerciale; forse a loro viene così, più o meno spontaneo. Per Lins, Veloso rappresenta l’arte pura con tutta la sua imprevedibilità e il suo mistero e, nel bel mezzo ma non in bilico, il senso della misura, il gusto, la capacità di calarsi, da “attore della voce”, nelle canzoni di altri. E di farle proprie, superando di molto l’interpretazione pura e semplice, per quanto sentita. Veloso, per Lins come per molti altri, è qualcosa di più del cantautore spocchioso che “se la canta e se la suona” come a volte lo intendiamo noi. E’ anche un tipo abbastanza umile, il Lins; perché forse- perlomeno come compositore- è superiore al suo più illustre collega, anche se stilare classifiche (che siano di vendita o di merito) è sempre abbastanza antipatico e spesso ingiusto per chiunque, bravo o meno bravo che sia.

Pochi anni fa Lins ha tentato di portare a compimento una collaborazione col nostro Ivano Fossati; e i due hanno composto in pochi giorni sette brani di cui sei ancora inediti. Il brasiliano ha raramente scritto i testi delle sue canzoni, e dunque l’accordo era che Fossati- ottimo paroliere- ne scrivesse per l’appunto le parole: non l’ha mai fatto, e Lins non ha mai saputo spiegarne il vero motivo; ma a quanto pare la stima reciproca dei due non è venuta meno. L’unico brano compiuto dal duo è comunque “Nada sem voce”, incluso in uno degli ultimi album del brasiliano; per inciso ( e per strofe…) niente di speciale. Dei musicisti italiani apprezza in particolare anche Pino Daniele e Lucio Dalla. Ha una vera e propria venerazione per Ennio Morricone, (altro personaggio abbastanza schivo ed emotivo) senza averlo mai conosciuto di persona.

E’ dunque, Lins, un uomo riservato: pochissima mondanità, molto lavoro, molti concerti. Non fa il finto ricercatore vampirizzando, grazie ai budget e alla fama, le cosiddette avanguardie, come alcune “icone” del pop di ieri e di oggi, personaggi mediatici più che veri e propri musicisti, formaldeide en travesti più che sostanza. (Un nome su tutti: David Bowie). Ha il dono rarissimo di saper inventare melodie originali e dunque non ha bisogno di travestire la sua musica col plexiglass di chissà quali paludamenti. Tiene sé stesso e la sua famiglia il più possibile lontano dal gossip mediatico. Non è ruffiano con la stampa, non si fa portavoce di chissà quale “messaggio” per vendere più dischi. E’ la sua voce il suo vero portavoce. Ma, a proposito, non grida da un microfono ( con accompagnamento musicale) contro la guerra e le ingiustizie della globalizzazione per passare più tardi alla cassa. Al contempo, non si presta a soffiare- dritto per dritto o solo di sguincio- nei megafoni del potere. E la tivù e i media in generale lo trovano poco interessante proprio perché poco “personaggio”, senza che peraltro Lins, di questo, se ne dolga particolarmente. Se devolve del denaro in beneficenza certo non lo rivela con parole, e opere al seguito delle stesse parole. Al massimo, forse, con i pensieri… Ma su questo non ci è consentito verificare… Soprattutto non ha bisogno di fare “beneficenza via satellite” per vendere dischi; e comunque Pavarotti non l’ha mai invitato ai suoi karaoke in mondovisione. Vende abbastanza (ma non troppo, anche nel suo paese) e ciò sembra bastargli. In fondo è ricco abbastanza: la sua etichetta discografica “Velas”, tra l’altro, pare rendergli bene, così come i diritti d’autore delle sue canzoni che, interpretate da altri, hanno girato il mondo. Con la “Velas” ha contribuito a dare lustro, nell’ultimo decennio, al dentista (di professione) Guinga, compositore e chitarrista cinquantatreenne di straordinario talento, un incrocio assolutamente originale tra Villa-Lobos e Cole Porter, roba per palati fini, ben poco commerciale ma amatissimo dalla critica e da grandi colleghi come Sergio Mendes. Per Lins, comunque, pochi dischi a suo nome venduti fuori dal Brasile. Sul versante delle polemiche si dice che, se proprio deve attaccare qualcuno (per difendersi), perlomeno va a cercarsi un qualcuno di “sana e robusta costituzione”. Mettersi il mitra in bocca e sparare rasoterra o addirittura verso il basso è troppo facile.

Le composizioni di Lins sono semplici canzoni. Kurt Weill, che di musica se ne intendeva, affermava di non avvertire alcuna differenza fra la musica seria e quella leggera, ma solo fra quella buona e quella cattiva. Una volta le canzoni si dicevano, a volte con vero e proprio disprezzo, “canzonette”: forma canzone, spesso, secondo il canone: strofe-inciso-strofe (a volte “bridge”)-inciso. Altre volte, invece, i pezzi di Lins vanno avanti in un unico flusso, in una specie di unico inciso scandito da variazioni geniali. Quelle del musicista carioca sono perlopiù ballads di grande intensità emotiva, ma anche pezzi trascinanti come, ad esempio, “Dinorah Dinorah”, conosciuta fuori dal Brasile quasi soltanto nella celebre versione di George Benson inclusa nel famosissimo album “Give me the night” del 1980.

Alcune di queste canzonette, a mio parere, sono capolavori; come Aparecida, Vieste, Maos de afeto, Começar de novo, Vitoriosa, Antes que seja tarde, Velas içadas, Setembro. Più di trenta album in più di trent’anni. Dolcezza senza un grammo di melassa, intensità, malinconia che non sfocia quasi mai nella disperazione, gioia di vivere mai superficiale, nessuna retorica, anche quando canta “O amor e o meu pais” (L’amore è la mia patria), un brano degli esordi che in Brasile, nel tempo, è diventato una specie di inno nazionale alternativo. Non è mai soporifero, soprattutto, ma invece intenso, popolare, e raffinato senza essere elitario. Canzoni e sorrisi senza Sorrisi & Canzoni. In fondo anche Gerschwin componeva canzoni. E così Cole Porter. E Hoagy Carmichael. E Richard Rodgers. Le pure e semplici canzoni: il pane (e il companatico) dei jazzisti grandi e meno grandi di molte epoche, fino a oggi. E di tanta gente cosiddetta comune. Senza troppe storie, senza pose da poseur.

Alcune di queste “canzonette”, oltre ad essere diventate dei veri e propri “standards” jazzistici entrando di diritto nei “songbooks” assieme ai pezzi di Porter e compagni, sono state reinterpretate da artisti americani ed europei di grande valore come, tra gli altri, Quincy Jones, Toots Thielemans, Barbra Streisand, George Benson, Manhattan Transfer, Ella Fitzgerald, Dionne Warwick. Il suo destino è anche quello che fu del maestro Jobim: essere amato ed eseguito dai grandi musicisti americani.

Nel 91 Miles Davis ricevette un nastro con alcune canzoni di Lins: ne fu immediatamente entusiasta, tanto che convocò il produttore Jason Miles per farne un intero album. Si, il grandissimo Miles Davis avrebbe interpretato quelle splendide melodie. Ma pochi mesi dopo, troppo presto per tutto e per tutti, Davis morì, a 65 anni.
Jason Miles portò ugualmente a compimento quel progetto coinvolgendo, tra gli altri, Sting, Bob Berg, Michael Brecker, Chaka Khan e lo stesso Lins.
Le 11 tracce registrate di quel progetto nato da un’intuizione di Miles Davis si possono trovare e ritrovare nell’album “A love affair. The music of Ivan Lins” (2001). Il disco più bello di Lins è “A Doce Presença de Ivan Lins” del 94, un greatest hits di pezzi riarrangiati meravigliosamente per l’occasione.
Dopo quel concerto al Manzoni attesi Lins all’uscita artisti del teatro. Non ci volle più di mezz’ora. Uscì senza guardie del corpo, anche perché pare non ne abbia mai avute poiché cerca di vivere in pace. Un signore robusto non più giovane ma senz’altro molto giovanile, vestito con sobria eleganza. Ad attenderlo eravamo in quattro gatti. Nessun battimani e ovviamente nessun “alè oh oh” da Stadio Flaminio o Meazza. Attesi che gli altri gli facessero le congratulazioni, poi, buon ultimo, mi congratulai anch’io. “Eccezionale!”, gli dissi con entusiasmo, proprio senza mezzi termini. Mi ringraziò con un sorriso affabile. Già che c’ero (e che c’era Lins…) scambiai due chiacchiere con uno dei miei tanti musicisti preferiti per qualche minuto, con molta semplicità e cordialità. Non ero un giornalista. Non ero un addetto ai lavori. Ero un semplice fan. Non credo un rompiballe.

Ci salutammo con una bella stretta di mano. Fu tutto molto naturale e umano. Forse perché quell’uomo- che è anche un artista- è una persona semplice. Così, almeno, mi parve. Credo davvero di averci azzeccato, in quell’occasione: secondo me l’apparenza, per certe persone, che siano di successo o che non lo siano, non inganna.

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10 Commenti

  1. C’è quella versione di Setembro in Back on the Block (Q.Jones, 1989), che non ho mai capito se è sublime o kitsch. O forse tutte e due, tu che dici, Franz?
    Sul sito di Markelo Salamadonna (non ho capito il suo nome) si parla di musica. La vexata questio battisti panella, ritrattata anche da supergenna. Voglio solo dire che il capolavoro non è Don Givanni (grandissimo disco) ma L’Apparenza.
    Anyway. Se Markelo ci legge sarei curioso della sua opinione su Setembro black.
    G.

  2. Mah, io sono di parte. Quincy Jones secondo me è un genio. Quella versione di Setembro e quel disco sono favolosi.

  3. Jones “ha fatto” Triller, non M.Jackson. Amo anch’io quel disco, per quanto fin troppo etnocelebratico.
    G.

  4. Si, l’avevo capito che ti riferivi a Back on the block. Ce l’hai The dude?…
    Thriller è proprio un gran disco.

    ps.: se ci spariamo 15 commenti l’uno sembrerà proprio una telefonata…;-)

  5. Cari ragazzi,
    allora anche nel vostro idillio ci sono interferenze… ;-)
    Chi me ne fa una copia? di Back on the block, intendevo.

  6. Immagino che intendi Setembro nella versione di Q.J. e interpretata dai Take6, vero?

    Gabriella, non ho il masterizzatore. Gianni invece…;-)

  7. Mi chiamo Uffenwanken. Markelo Uffenwanken…;-)

    L’apparenza e Don Giovanni vanno testa a testa, ma per il mio gusto la spunta per un soffio Don Giovanni. Hai fatto bene, Biondillo, a citare quell’altro grandissimo disco del duo Battisti/Panella.

    Setembro di Quincy Jones? Bellissimo. Specialmente all’inizio.

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