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Ivano Ferrari. MACELLO

di Antonio Moresco

ivano 3.jpgPrima cosa da dire: questa raccolta di poesie è stata scritta quasi trent’anni fa.
Già questo dato è sorprendente. A volte, di fronte a libri di narrativa e di poesia, qualcuno si domanda se avranno ancora qualcosa da dire da qui a dieci, venti, trent’anni, se supereranno la prova del tempo. Bene, questa raccolta viene alla luce dopo averla già superata. Ci arriva anzi – se possibile – ancora più forte, più necessaria e bruciante di quando è stata scritta.
La voce carnale, inelegante, sincopata, spiazzante che la attraversa mi pare abbia pochi confronti nella poesia italiana di questi anni. Non solo perché in questo caso il poeta è anche testimone diretto di un’esperienza estrema ma anche per la miscela assolutamente personale di sobrietà ed estremismo, condivisione, demenzialità, sarcasmo, scatti danteschi e teppistici attraverso cui vengono messi in scena la sconfinata sofferenza degli animali e i gesti allucinati di una specie fissata nell’atto di massacrarne altre e di fare piazza pulita del mondo e perciò destinata – nel vortice di una consequenzialità ebete e senza ritorno – a fare anch’essa la stessa fine.
Che cosa c’è di più tragicamente attuale e necessario oggi?

Ivano Ferrari è un poeta fuori parametro e fuori asse, che è arrivato molto tardi a pubblicare presso un editore visibile. Prima di questa, è uscita (quattro anni fa, nella stessa collana bianca dell’Einaudi) un’altra sua straordinaria raccolta intitolata “La franca sostanza del degrado”, scritta nell’arco di un decennio e in gran parte successiva a “Macello”. Ma anche la storia della pubblicazione di quest’ ultima raccolta è singolare. Infatti, circa nove anni fa, ne è uscita un’ampia anticipazione presso lo stesso editore, in un libro collettivo dal titolo “Nuovi poeti italiani 4”. Perché ora una nuova pubblicazione? Cos’è successo nel frattempo? E’ successo che l’ autore, dopo la prima pubblicazione parziale, ha ritrovato per caso, quattro anni fa, nel disordine delle sue carte, altre ventisei poesie della stessa raccolta, composte anch’esse mentre lavorava nel mattatoio e che non ricordava neppure di avere scritto. Nell’emozione del ritrovamento, ne ha scritta anche un’altra, a grande distanza di tempo, una sola, e ci ha aggiunto anche quella (sapreste trovarla?).

Il risultato è questa laconica, impressionante raccolta di 86 poesie di poche righe ciascuna, quasi tutte all’indicativo presente (tempo verbale poco frequentato e pensabile per la poesia), un diamante non ripulito dai liquami animali e dal sangue, che credo lascerà il segno.
Certe volte succede che uno scrittore, un poeta si trovi ad attraversare personalmente zone d’orrore e che poi ne esca per raccontare quello che ha visto. E che, attraverso le sue parole, riesca a farci vedere in modo indelebile ciò che avevamo sotto gli occhi e che non volevamo vedere. E’ ciò che succede anche qui. In una manciata di poesie brevi, stridenti, sparate come proiettili, piene di gesti intollerabili e strazianti accelerazioni comiche giocate al limite estremo di umano-inumano, vita-morte, si scatena il finimondo della cosiddetta vita.
I personaggi umani e animali che vi si stagliano per un istante e poi scompaiono sono indimenticabili. Provo a elencarne alcuni:

– Personaggi umani.
Il boia dalle orbite verdastre, un San Longino con la pertica uncinata che stabilizza il corpo per meglio tagliuzzare, i praticanti, gli addetti, i macellatori che nell’intervallo giocano contro i facchini usando come palla il cuore sodo di un toro, quello che squarta, sua moglie avvolta in un forte profumo di rosmarino, gli addetti che riempiono d’acqua i budelli cantando una canzone d’amore, le creature umane che, ricoperte di tela blu, come minatori, estraggono nutrimenti dalle teste degli animali, gli officianti, il regista… Ma anche il poeta stesso, carnefice traditore della propria specie e fissato in gesti di doloroso sarcasmo e pietà, che ficca le dita nelle narici degli animali, nei loro orifizi, sfinteri, che accarezza gli zucconi mozzati nel truogolo del lavaggio, dondola aggrappato a una bestia appesa al paranco, si ritrova con un lungo pene di toro attorno al collo, come una sciarpa, si cambia nello spogliatoio tra foto di donne nude e dalla vagina glabra e manifesti coi tagli di carne animale evidenziati dai diversi colori, annusa il culo del vitello che lo precede nella corsa verso l’assoluto, incolla la bocca alla vagina dell’enorme vacca avviata alla morte, riesce persino a infilare foglietti con versi scarabocchiati in fretta nella vagina di una macellanda… E poi, sempre, la morte, grande personaggio dominatore di questo libro, che alla fine, “si alza in piedi e controlla i battiti / degli organi che le sono sfuggiti, / dei nervi che si distendono, / delle ultime bestie timide …”

– Personaggi animali.
Il toro decapitato, quello che fugge,“il più intraprendente che sodomizza il compagno davanti” mentre, tutti in fila, ancora sporchi di letame, sono avviati alla macellazione, il grosso vitello, la vecchia vacca, “la testa di toro dagli occhi infiniti e beoti”, il più magro dei cavalli che inutilmente protesta, la giovane manza dalle tempie pelose, la vitella stupita di essere viva, i vitellini impestati, il vitello e la manzarda che passano l’ultima notte assieme annusandosi promesse “da domani eterne”, l’enorme maiale appeso e colpito dal sole che, entrando dal finestrone, “accende quintali di luce”, i vitelli rachitici, la puledra zoppa, il cavallo muto, le bovine ninfomani, il piccolo feto bovino. Ma anche altre presenze che brulicano dentro il carnaio: le larve che continuano il loro lavoro anche dopo la morte, i vermi, le mosche, le “mandrie” di giovani topi che si avventano sulla carne guasta. E poi i fluidi: il sangue, la merda, lo sperma, la schiuma biancastra che esce dalla bocca degli animali sparati e invade tutto (“vi sono giorni in cui la quantità di bava / riempie la gabbia / la canaletta del sangue / il camminamento dei bovini / la postazione in cui si attaccano le etichette / e il laboratorio e gli spogliatoi e gli uffici…”) fino alla goccia di sperma che cade “nella vasca del sangue / in una mattina / di forte macellazione”.
Anche l’elenco degli animali che vengono uccisi o cremati è impressionante: vacche, tori, cavalli, puledri, vitelli, vitelloni, manzarde, maiali, agnelli, gatti, “colombi malnati”, “cani senza contratto”… in uno scatenamento di specie che coinvolge le varie gerarchie umane, da quelle che si accollano il lavoro più diretto e violento di massacrare e tagliare, ai facchini, ai tecnici, ai veterinari, agli ufficiali sanitari. L’intera storia umana è spogliata dei suoi orpelli e delle sue intercapedini interpretative storiche, religiose, sociali ecc e viene posta di fronte al suo vero limite e precipizio. Con un occhio fermo e una perentorietà alla quale non si può sfuggire facendo finta di non vedere, di non sapere, al termine del Novecento, secolo attraversato da stragi, guerre, olocausto, e all’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio e di fronte ai nuovi massacri che già ci sono e di quelli ancora più grandi che verranno all’interno delle stesse logiche ideologiche, biologiche, economiche, tecnologiche e militari bloccate. Qui siamo posti di fronte alla vita e alla morte, alla morte degli altri ma anche alla nostra morte di specie.

Trascrivo qui alcune poesie di questa raccolta, per far sentire direttamente ai lettori la inconfondibile voce di questo poeta:

E’ fuggito un toro nero
erra sul cavalcavia
impaurendo il traffico,
lo ricorriamo
impugnando coltelli
bastoni elettrici e birre
corre si ferma torna
arrivano i carabinieri coi mitra,
ora è steso su un velo d’erba
e sussurra qualcosa alle mosche.

*

Oggi la morte è materna
vitellini impestati dall’afta
le corrono incontro affettuosi.

*

Tra il fecaio
e l’inceneritore
crescono dei fiori
margherite evacuate dalla terra
soffioni che sembrano sputi
papaveri notevolmente pallidi.

*

Sventrate intere famiglie
oggi
lunedì di intensa macellazione.
Una vacca ha partorito un vitello
negli occhi la paura di nascere
il foro in mezzo il nostro contributo
a tranquillizzarlo.

*

Nuvole che scoppiano
come tane malscavate
borchiano la città
con gocce nere
cremato un agnello da esperimento
fetore di cielo.

*

A qualche centinaio di metri
passata la forma fresca del prato
e dopo case dagli occhi spenti
si trova il cimitero degli umani
dove c’è carne che non sfama.

*

Niente addobbi viola
le croci coperte dalle tute sporche
l’incenso deodora altre chiese,
non bruciano candele
solo grasso di cavalli col carbonchio
eppure la santità del sacrificio
avvolge ogni spazio del carnaio
muscoli domati, nervi di scarto
certamente troppo per un dio
con la puzza al naso.

__________________________________

(Pubblicato su “Pulp” n. 50 – 2004)

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2 Commenti

  1. Sì, è davvero incredibile che questi versi siano stati scritti parecchio tempo fa, così in anticipo su tanta roba che si scrive oggi e anche su tanta che, purtroppo, si scriverà domani.

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