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La parlantina #1

di Antonio Moresco

quijot3.gifÈ passato un anno. Sono di nuovo in Argentina con Giovanni. A Buenos Aires abbiamo trovato di nuovo Laura e Nic, che erano qui già da un mese. Ci siamo fermati alcuni giorni per assorbire il cambio di stagione e il fuso orario, prima di scendere nella Terra del Fuoco. Siamo tornati nel solito hotelito. Adesso, nell’ingresso, hanno messo una grande fotografia di Gardel vicino al solito quadro del Sacro Cuore col muscolo cardiaco in mano. C’è anche quest’anno il solito vecchietto piegato in due e semiparalizzato che si sposta girato di fianco, a passettini, lo stesso che avevamo sorpreso l’anno scorso a culo nudo, una notte, mentre cercava di adescare alcuni ragazzi fermi a confabulare sul ballatoio. Si vede che vive qui tutto l’anno. Gira ancora in mutande, col pentolino del mate in mano. Ci ha riconosciuto immediatamente. Quando ci ha visti passare con gli zaini la sua faccia sofferente e grinzosa si è deformata per un istante in un sorriso. Adesso sta quasi tutto il tempo coricato sul letto, come morto, con gli occhi chiusi, stecchito, respirando a fatica, con una coperta di lana, da cavallo, tirata su fino al mento nonostante il caldo di fine estate. Si vede spuntare la sua testa irrigidita, quando si passa di fronte alla sua camera dalla porta perennemente aperta per far circolare l’aria. Ha cercato anche di attaccare bottone con me, un pomeriggio, mentre stavo seduto fuori dalla mia porta, su una sedia di plastica. «Habla español?» ha buttato lì fermandosi un momento per tirare fiato.

C’è un po’ più di gente nell’hotelito, quest’anno, qualche coppia di ragazzi tedeschi o nordamericani che arrivano con enormi zaini, attirati dal cambio favorevole tra il dollaro e il peso argentino. Mangiano seduti lungo i ballatoi, si vanno a scaldare qualcosa nel piccolo bugigattolo buio che c’è vicino alla mia stanza, dove ci sono un fornello e un secchiaio comuni. Ma anche fuori, per strada, mi sembra che ci sia un clima un po’ più disteso. Non so se è solo perché quest’anno c’è un po’ meno caldo, siamo arrivati alla fine dell’estate e non al suo culmine, come l’anno scorso. Non so se c’entra qualcosa anche il nuovo presidente eletto da poco, i cui manifesti tappezzano i muri della città. Non so neppure se è solo una mia impressione ma i marciapiedi continuano a essere sbudellati però si vedono qua e là degli operai boliviani ed equadoregni che asfaltano qualche strada, piantano persino qualche semaforo agli incroci. L’ho visto con i miei occhi, un giorno, mentre ero nel solito locutorio di calle Chacabuco dove vado a telefonare. È all’interno di un negozietto di generi alimentari. Ci sono quattro o cinque cabine e, un po’ più in là, un banco con una vecchia affettatrice, ancora più in là un paio di computer per quelli che vengono qui a collegarsi in internet. Vedevo, oltre il vetro, due o tre operai che piantavano un semaforo all’incrocio e, lì vicino, proprio di fronte alla porta del locutorio, una cartonera magra e dai capelli mezzi bianchi e mezzi gialli, slavata, assieme a un bambino che teneva sulle spalle nude un gattino appena nato. Spingevano tutti e due un carrello pieno di cartoni da imballaggio legati con dello spago, raccolti al vicino supermercato tenuto da coreani. E c’era addirittura un uomo in calzoncini da bagno che innaffiava tranquillamente il suo pezzo di marciapiede sbudellato con la canna dell’acqua, dall’altra parte della strada. Di fronte alle porte, di sera, i soliti bambini a piedi nudi coi fratellini più piccoli in braccio, ragazzi e ragazze venuti giù con le ultime ondate di immigrazione dalle nazioni a maggioranza india che parlano seduti sui gradini. I cartoneros non sono scomparsi, se è per quello cominciano il loro lavoro più presto dell’anno scorso, quando è ancora chiaro, ma sono meno numerosi, mi pare, e alcune banche del centro hanno tolto le armature di lamiera tutte piene di colpi che le sigillavano come fortezze durante gli assalti.

Ma mi limiterò, questa volta, a parlare di poche cose che mi hanno impressionato di più della Terra del Fuoco: della luce, delle giornate che non finiscono mai, della foresta subantartica piena di distese di alberi morti, scortecciati e spettrali, delle isole che ci sono lungo il canale Beagle, ricoperte di pinguini e di leoni marini e delle acque fredde e creative della fine del mondo. E poi forse anche del viaggio di ritorno a Buenos Aires, del volo sopra acque e montagne fredde, a poca distanza da capo Horn e, qualche centinaio di chilometri più in giù, dall’Antartide. E poi delle violente perturbazioni subtropicali che abbiamo incontrato, dell’atterraggio d’emergenza a Bahia Blanca, prima di riprendere il viaggio verso la galassia sterminata di Buenos Aires con le sue quadras illuminate a perdita d’occhio alle due di notte.

William Vollmann

In questi giorni sto leggendo uno scrittore americano di nome William Vollmann, che dovrò incontrare pubblicamente questa estate a Ravello. La Fanucci mi ha mandato un po’ dei suoi libri. Ho cominciato a leggerlo. Sono solo all’inizio.

«Quarantacinque minuti prima di inviare il suo addio preconfezionato nelle profondità calde e fecali di Gun City dove torrenti di acqua piovana fetida trascinavano mozziconi di sigarette nei canali di scolo, Elaine Suicide se ne stava seduta da sola in un cinema…»
«Andò giù in Fanny Alley dove le puttane grasse ammassavano i loro culi rotondi e brufolosi e facevano rumori di bacio con labbra che sfarfallavano più rapide delle ali scarlatte dei colibrì…»

Mi pare che ci sia dentro il flusso narrativo vitale americano, come in Whitman, Faulkner, Thomas Wolfe, Miller, Kerouac… più una buona dose di disperazione, ironia nera e romanticismo tedesco.
«Il topo non squittì né fece una sola mossa mentre Oliver lo adagiava sul morsetto posandogli una matita sul collo. “Allora”, disse al topo “oggi sei la star della situazione”. Gli premette la matita sul collo, gli afferrò la testa e la strattonò avanti e indietro. Si sentì uno schianto lugubre e sommesso. Le zampette scheletriche si contrassero. Poi il topo sollevò la coda, e le sue viscere si mossero. Lo portarono al bruciatore Biogard e procedettero a smembrarlo meticolosamente (ora che la generazione spontanea è stata confutata, pare che dobbiamo cannibalizzare la materia dei nostri progetti né più né meno del rivoluzionario che deve distruggere per instaurare il suo nuovo ordine). Cominciai a chiedermi come sarebbe andata a finire quella magia».
«Per alcuni il peggio della vita è sapere di dover perdere ogni cosa. Sono tutti ricchi! È quasi come se (difficile crederci!) non avessero mai sentito il grido di una foglia gialla staccata lentamente dal vento con dita infaticabili, scaraventata ancora viva in mezzo al fango, sbavata dalle lumache, calpestata con indifferenza da stivali inzaccherati, finché alla fine una misera pioggerella la trascina nel canale scaricandola nelle fogne. (…) Ci sono così tante persone su questa terra che odiano la propria vita: per loro qualunque perdita sarebbe un peso in meno. Ma ciò non toglie che preferirebbero morire prima di decomporsi. Un anziano stroncato da un colpo, che precipita nella calda cascata dell’emorragia cerebrale, è più fortunato della sorella che sopravvive a un attacco dopo l’altro… Ma con tutto l’orrore che possiamo ispirare da vivi, da morti andiamo incontro a cambiamenti tali che anche il cadavere più socievole verrà scansato».
Benvenuto, Vollmann!

C’è in giro un sacco di gente, tra chi scrive sui giornali, lavora nelle case editrici ecc., che continua a lamentarsi e a ripetere a pappagallo che gli scrittori italiani non narrano, non raccontano storie. Mi viene la vertigine a leggere queste cose, visto che la stragrande maggioranza degli scrittori di questi anni, italiani compresi, non fa in realtà altro che raccontare storie e storielle. Vorrei prendere questi signori e signore per un orecchio e trascinarli in una qualsiasi libreria e fare con loro il giro dei banchi, per fargli verificare che non solo quello che continuano a ripetere non è affatto vero ma che anzi è vero il contrario, che il 90, 95 per cento dei libri di narrativa non sono altro che libri di storie e storielle. In realtà siamo immersi, alluvionati dalle storielle. Soft oppure a luci rosse, poco importa. Come se potesse essere possibile solo questo, come se la “narrativa” potesse produrre solo questa soffocante melmina che orizzontalizza ogni cosa, selezionata dagli editori come unica forma possibile del narrare solo perché più commerciale. In realtà risultato di ripetute selezioni e di una costruzione pilotata di domanda e offerta e di una figura unica di scrittore e lettore-tipo da parte di macchine editoriali col loro personale che – qualunque siano le etichette culturali e politico-culturali – non crede più in nulla, non si aspetta nulla, non cerca nulla che non sia la propria piccola, funzionale sopravvivenza e le proprie carriere. Burattini dai fili corti corti, completamente agiti da logiche e fini senza prospettiva umana, orizzonte, respiro. Un’idea unica di narrazione, di romanzo. Mentre la narrazione non è nata così, il romanzo non è nato così. Basta vedere come era possibile narrare non solo nell’antichità, nei poemi di Omero, ma anche nel Cinquecento, Seicento, Settecento. Opere come Gargantua, Don Chisciotte, Tristram Shandy. E poi ancora, nell’Ottocento, che libertà e potenza sperimentale e di conoscenza si poteva liberare in scrittori che erano in grado di raggiungere “il pubblico” come Victor Hugo, Dostoevskij… e con libri che ora cadrebbero sotto la piccola mannaia degli editor e dei direttori editoriali perché troppo complessi strutturalmente e non lineari e alla portata del “pubblico”. Questo piccolo realismo conformistico e conservatore eretto a legge di natura, che non racconta nulla, che non riapre nulla, neanche la possibilità di poter narrare la vita nel suo spaziotempo slittato e ricollocato e non in una sua parodia normalizzante e spacciata. Queste fotocopie da reality show della vita, queste storielle “vere” prese dalla “vita di tutti i giorni”, queste piccole foreste morte, tutta questa carnina narrante che non narra più nulla perché non si pone fuori dall’universo totalizzante della duplicazione. Le storielle prese dalla vita, le storielle prese dalla morte. Come se si potesse ormai narrare qualcosa senza una slogatura, come se si sia mai potuto narrare qualcosa stando dentro la mistificazione pilotata di uno spaziotempo culturalistico orizzontalizzato. Senza mai il contraccolpo, la botta, l’inciampo. Chi racconta stando là dentro non racconta nulla. Senza l’inciampo del narrare non può più raccontare nulla se non l’esangue mito del raccontare. Come i presunti filosofi che stanno in questi anni dentro il revival della filosofia stanno in realtà soltanto dentro il mito del pensare, non conoscono veramente il rischio e l’inciampo del pensare. In che razza di slogatura si è dovuto invece collocare Cervantes per poter ricominciare a raccontare! Per poter riafferrare il movimento possibile, costruttivo-distruttivo ed inaugurale della narrazione. Perché narrare è qualcosa che sta più in là. Le storielle non sono le storie, i racconti enunciati non raccontano niente se non se stessi.
«Ma se non ci sono storie, che fine ci può essere, che inizio?» si domanda Virginia Woolf nelle Onde. «Forse la vita non è suscettibile al trattamento che le facciamo quando proviamo a raccontarla».

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Pubblicato su “Fernandel” 3/2004 – Continua

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