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La parlantina #2

di Antonio Moresco

Caneslitta.jpgGli scrittori americani (gran parte di loro, perlomeno) hanno una inconfondibile e inarrestabile facoltà meccanica di parlare e affabulare, e a volte anche di intortare, che possiamo chiamare, con parole nostre, “parlantina”. Non che la parlantina sia di per sé una cattiva cosa. Può essere anche un’ottima cosa, dipende. Può mettere al mondo nuove strutture mentali, linguaggi…
La parlantina può derivare da molte cose. Nel caso degli americani deriva forse dal fatto di avere dei canoni narrativi e figure e topos collaudatissimi e reiterabili e miti comunicativi e sociali che possono essere ingenui e freschi, elementari e potenti, ma che possono generare e cristallizzare a volte anche superficialità e conformismo. Io non disprezzo tutto questo né difendo un’idea che si vorrebbe “europea” di letteratura specialistica e terminale, culturalistica e suppurata. Né mi sembra che il problema sia –come è emerso anche da una recente discussione in rete – che gli americani, con la loro letteratura, sarebbero creatori di miti (mitopoietici) mentre noi europei saremmo invece solo capaci dell’esercizio sterile della critica e della distruzione neghittosa dei miti (mitoclastici). Le cose in realtà non viaggiano così separate e normalizzate: prima la costruzione e poi la distruzione, oppure il contrario. Perché costruzione e distruzione sono un movimento unico e la costruzione di miti avviene a volte proprio attraverso la distruzione di miti, e viceversa (basti pensare al Don Chisciotte oppure a Moby Dick, il campione stesso della grande letteratura americana, non a caso rifiutato a lungo dal proprio stesso paese e dal proprio tempo).

Se la parlantina, l’espandersi inarrestabile della parola, è una risorsa e una forza, può essere anche una trappola. Nasconde l’idea, la mistificazione che la parola sia tutto, possa tutto, ma solo perché ha scelto un campo di irradiazione puramente funzionale e orizzontale. La parola che viene dal centro, dal presunto centro, che ha la pretesa di venire dal centro, dal centro dell’Impero, in questo caso, è molto spesso così. Mentre è una parola non garantita e protetta, con le spalle al muro, quella che a volte viene dai punti più imprevedibili e inaspettati, dalle periferie e dalle sconnessioni storicoculturali e spaziotemporali del mondo, che riesce ad essere a volte illuminante, disturbante, bruciante. Come d’altronde è successo anche nel Novecento, quando, da alcuni centri del potere economico-culturale arrivava spesso solo una solenne parlantina umanistica oppure in vario modo accademica, con tutte le sue strutture narrative collaudate ed epigonali e le sue macchine culturali digerite e le sue razionalizzazioni narrative che però non avevano dentro di sé l’inciampo della scoperta, del pensiero, dell’invenzione e della visione. Mentre uno sguardo diverso, che faceva davvero la differenza, arrivava invece da dove meno te lo saresti aspettato, da Praga, Dublino… oppure anche da alcune capitali culturali come Parigi, ma da figure asimmetriche e dislocate al suo interno, come Proust, Céline.
Nella parlantina – sia pure a volte straordinaria – di molti scrittori americani, anche contemporanei, in quella loro capacità di comunicare e di orizzontalizzare, sento a volte l’eco del predicatore presbiteriano, di chi ha un rapporto pacificato e di potere con la parola, del tecnico della parola, del pubblicitario con le spalle coperte e la gestione di un prodotto ampiamente testato, semplificato e semplificabile, generalizzato e generalizzabile. Ed è forse questo, proprio questo, questa meccanica pretesa comunicativa che ci parla dal centro e lavora su strutture mentali potenti e consolidate e dagli ampi supporti, che non scava la sua ferita e il suo passaggio abrasivo dentro la propria lingua e la propria specie, che affascina probabilmente molti scrittori del nostro e di altri paesi vassalli. È l’attrazione per il centro, per la potenza imperiale astratta della parola che si muove in uno spazio bonificato. Vorrebbero essere anche loro così, parlare da lì, da quel punto. Da qualcosa che si possa percepire come il centro e che possa costituire il centro anche dell’ascolto. Vorrebbero inventarsi anche da noi un loro piccolo, concentrico e gregario centro. Invece ci troviamo tutti – americani compresi – in una spaccatura epocale senza ritorno. E forse è proprio chi sta lontano dal presunto centro a vedere prima il crepaccio. Lo vede prima chi sta dislocato piuttosto di chi sta dentro il citoplasma logistico dell’ennesimo impero ed è giocato dentro la potenza propagandistica della sua parola variamente imperiale. Anche Dostoevskij è un fiume, eppure la sua straordinaria macchina verbale non è parlantina. C’è dentro l’attrito delle menti e dei corpi spellati che sfregano gli uni contro gli altri nella sofferenza dell’invenzione. La parola è potente quando va a toccare un limite, quando è collocata dentro la sua immobilità e il suo silenzio. Anche l’atmosfera che circonda il nostro pianeta non è tutto, anche se per noi è tutto. Anche fuori dalla parola atmosferica e dal nostro respiro verbale c’è tutto il resto del cosmo. Ai nostri scrittori piace invece non vedere tutto questo nero e questo buio. Non tanto o non solo perché generalmente viene invidiato chi è o appare potente e vincente, chi detta legge, e non chi invece è o appare inerme, io credo, non solo perché vorrebbero essere naturalmente dalla parte degli uni piuttosto che da quella degli altri. Ma anche perché – per andare più a monte – invidiano forse questa rispondenza ottimistica astratta tra codici narrativi e strutture della vita associata nell’universo pubblicitario e autopubblicitario della “comunicazione”, mentre tutto o quasi tutto si gioca e si giocherà da tutt’altra parte, si è sempre giocato da tutt’altra parte, alla fine. La parlantina piace perché a molti piace morire con queste mitragliatrici di parole nelle orecchie. Perché pensano che la morte sia dopo. Invece la morte è prima.

La specie umana, che ha annientato così definitivamente gli altri animali esterni incontrati sulla sua strada, e che ora possiede macchine di riproduzione e sterminio così radicali e schiaccianti, si trova invece, al contrario, così infinitamente fragile nei confronti di invasioni che avvengono all’interno del proprio corpo da parte di altri organismi infinitamente più piccoli (virus, batteri…).
Un po’ di anni fa mi era venuto in mente di scrivere qualcosa che fosse ambientato all’interno del cavallo di Troia. Un racconto, una cosa teatrale, un romanzo. Non so. Ma interamente ambientato e giocato tra quei corpi ammassati in silenzio, là dentro, in piena notte, nel buio.

I cani da slitta

Un giorno, nella Terra del Fuoco, siamo andati a vedere un allevamento di cani da slitta. In mezzo ad alcune case di legno, su un terreno tutto pelato dal loro continuo raspare, c’erano alcune decine di cani che se ne stavano annoiati vicino alle loro cucce (dei semplici bidoni di petrolio dipinti) con le zampe e il pelo del ventre un po’ infangati perché era una giornata di pioggia e il terreno era fradicio. Il loro addestratore – un uomo in stivaloni di gomma, dai capelli lunghi e dai grandi baffi spioventi – ci raccontava come si addestrano i cani da slitta. Come si aggiogano a poco a poco, come si individuano le diverse personalità dei cani, come si formano le gerarchie interne, come si riconoscono i leader, che non sono necessariamente i cani più robusti, i quali non stanno generalmente in testa ma nell’ultima fila a ridosso della slitta perché sono quelli che riescono con la loro forza a imprimere un cambiamento di direzione quando il leader che sta davanti scarta improvvisamente dopo avere avvistato un crepaccio, ad esempio, che l’uomo alla guida della slitta il più delle volte non vede, anche se teoricamente si troverebbe in una posizione visuale migliore, ma che vedono prima i più sensibili e intelligenti tra i cani.
«Questo è un leader!» ci ha detto indicando una cagna magra, dal pelame grigio, più piccola e insignificante degli altri, che stava tranquillamente in piedi vicino al suo bidone. Sono andato ad accarezzarla. Ho accarezzato anche qualcuno degli altri cani che si sono fatti vicini, perché si annoiano e soffrono a stare lì fermi senza fare nulla nelle giornate di pioggia, ci aveva detto l’addestratore. Mi ha impressionato la compattezza del loro pelame incredibilmente fitto. Ma anche l’espressione, il portamento, l’atteggiamento. Provavo la sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa di dotato di personalità ed esperienza forte, collettiva, creativa, complessa, come noi neanche ci immaginiamo. Qualcosa che ti sta di fronte tranquillamente, da pari a pari, che incute rispetto.
Uno dei cani si è avvicinato all’improvviso e mi ha posato le zampe infangate sulla giacca a vento, guardandomi da vicino coi suoi straordinari occhi di due colori diversi.

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Pubblicato su “Fernandel” 3/2004 – Fine

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