Il tradimento dei critici, due anni dopo #2

di Carla Benedetti

tradimento dei critici.jpgE ora vorrei dire, in breve, le ragioni per cui ho scritto quel capitolo “Il potere che ognuno conosce e nessuno racconta”, sulla vicenda delle dimissioni di Mario Martone dal Teatro di Roma, e perché stava all’interno di un libro che parlava della paralisi della critica in Italia.

Ovviamente, dato il tema del libro, mi interessavano i rapporti tra critica e potere. Volevo mettere a fuoco ciò che inibisce la critica in Italia, e non tramite censura o limitazioni della libertà di parola imposte dall’esterno, ma per via indiretta e dall’interno, cioè cioè per credenze condivise (o ideologie), per autocensura e per vincoli introiettati dalla critica stessa e da chi la esercita.

Ho parlato perciò delle credenze culturali che si sono formate negli ultimi decenni, anche all’insegna di ciò che è stato chiamato il postmoderno e delle formae mentis di chiusura che hanno finito col diffondere: un dare per chiusi tutti i giochi che si possono fare, dall’arte alla politica. Ho parlato dei verdetti epocali che hanno dato tutto per liquidato, diffondendo nel senso comune l’idea della fine del nuovo, della fine della storia, dell’impossibilità di creare, del nostro essere epigoni di una grandezza tutta passata. Verdetti ratificati poi come delle leggi: per esempio quella secondo cui ogni forma radicale di espressione artistica o di pensiero, ogni forma di azione antagonista, sarebbe destinata a essere inglobata dal mercato, neutralizzata dallo spettacolo, fagocitata dalla macchina pubblicitaria, ecc.. Questo è stato un vero refrain del secolo scorso, e ancora oggi lo si sente ripetere. Non tutti saranno d’accordo, ma a me pare che questo modo di rappresentare le cose sia non solo falso, ma anche repressivo e chiudente. Queste credenze, verdetti e pseudo-descrizioni epocali, che si presentano come diagnosi cupe dei mutamenti in corso, cancellano l’esistenza di campi di forze in conflitto, e impediscono di pensare alternative o forme di resistenza. Impediscono persino di considerarle possibili.

Ho parlato anche di certe descrizioni del potere che sono sorte nel seno del cosiddetto “pensiero critico” novecentesco. Descrizioni in cui il potere, di volta in volta chiamato in modi diversi (industria culturale, società dello spettacolo, iconocrazia, macchina globalizzante ecc.), appare così perfetto da sembrare invincibile, così pervasivo da non lasciare niente fuori di sé, neanche una crepa. Talvolta i critici della cultura si sono come innamorati dell’oggetto criticato tanto da finire con l’esaltarlo.

Il libro aveva del resto in esergo questa frase di Foucault:

“Il mio ruolo – ma il termine è già troppo enfatico – è quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino vero ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determinato momento della storia, sicché quella presunta evidenza può essere sottoposta a critica e distrutta”.

Infine, continuando l’elenco dei fattori di inibizione della critica, ho parlato delle microrelazioni di potere, di tipo personalistico e clientelare, massonico o mafioso, che talvolta imbrigliano i soggetti stessi della critica: giornalisti, uomini di cultura, e persino coloro che vengono chiamati pomposamente “intellettuali”.

Cose note! dirà qualcuno. Sì. Cose note!

Ma la ragione per cui mi interessava parlarne nel libro è che esse godono di un particolare effetto di invisibilità. Infatti, pur essendo note, di solito non se ne tiene conto quando si fanno analisi del potere. Le si considera banali, o trascurabili. Il che è un clamoroso effetto del potere, che agisce anche rendendosi invisibile.

Nelle analisi del potere, nei discorsi politici e di politica culturale, si tende disolito a mettere a fuoco altre cose, considerate più importanti. Per esempio la mercificazione dell’arte, il potere dei media e dello spettacolo… MA NON ANCHE questi vincoli che pure imbavagliano molte voci, e hanno effetti repressivi di grande portata, quanto a limitazione della libertà e a rimozione di verità.

Di queste relazioni di potere ognuno avrà fatto esperienza qualche volta, e anche le avrà sentirle bruciare sulla pelle, come lacci, imbrigliamenti, restrizione di possibilità, mutilazioni. Eppure, per quanto note, visibili ed esperibili, per qualche ragione misteriosa restano sullo sfondo, non dette, e non dicibili. Ed è su questo che mi premeva attirare l’attenzione.

Esiste un potere che agisce facendo in modo che non sia possibile parlarne. Non restando segreto, ma semplicemente restando dove è, NASCOSTO NEL VISIBILE, cioè a tutti noto ma NON TEMATIZZATO, non inserito nel discorso pubblico – un po’ come i discorsi di Berlusconi, a tutti noti, ma che non puoi far risentire montati da “Blob”, che non devi poter memorizzare in sequenza né mettere a fuoco per trarne le conseguenze.

Nella vicenda del Teatro di Roma, apparentemente piccola e circoscritta, questi imbrigliamenti venivano alla luce in maniera emblematica, nella loro nudità priva di addobbi ideologici. Nell’aprile del 2001, cinque mesi dopo le dimissioni di Martone, lessi un trafiletto in cui si diceva che il bilancio della stagione del Teatro da lui diretta si era chiuso in pareggio. Quindi, perché il Presidente del teatro, pochi mesi prima, aveva invece dichiarato ai giornali che il Teatro versava in condizioni economiche disastrose, addossandone la responsabilità sul Direttore? E perché neanche i difensori di Martone, nelle loro belle dichiarazioni in favore della ricerca artistica, hanno fatto cenno a questo “dettaglio”? Nessun deficit al Teatro di Roma! E perché undici intellettuali, firmatari di un appello in favore di Martone, ritirarono la firma pochi giorni dopo dichiarando di aver letto male il testo dell’appello? Tra questi c’era anche il giornalista Nello Ajello di “Repubblica”.

Da tutte queste cose lette sui giornali mi venne l’idea, e il bisogno, di stendere questa sorta di inchiesta sul potere che ognuno conosce e nessuno racconta, e in cui fanno la loro misera parte, variamente intrecciati, alcuni uomini di spettacolo, alcuni uomini di cultura, alcuni giornalisti e alcuni politici.

Da questa storia pubblica, di documenti noti e da me semplicemente messi in sequenza, emergono cose sconcertanti. Contro l’operato di Martone si scatenarono reazioni scomposte, attacchi fuori galateo, persino “processi” pretestuosi che fingevano di indagare su un immaginario bilancio del Teatro, e che furono stranamente inaugurati non dalla stampa di destra ma da due giornalisti dell’“Espresso”, e non alla fine ma addirittura pochi mesi dopo l’inizio della sua direzione. Quasi un attacco preventivo contro un corpo estraneo, forse avvertito come pericoloso dalla macchina astratta della corporazione teatrale (di cui sono parte, spesso, anche i giornalisti del settore, quelli che recensiscono gli spettacoli che poi vengono messi nei cartelloni, tutti identici, dei teatri pubblici d’Italia), e poi dalle altre macchine astratte, autoreferenziali, che si sono coalizzate contro di lui: quella amministrativa, quella degli interessi trasversali, delle confraternite, delle mafie e delle massonerie.

La storia che ne viene fuori è un esempio illuminante e lancinante di come le relazioni di potere siano più viscose e piene di scorie rispetto alle semplificazioni che si chiamano mercificazione dell’arte o potere dello spettacolo, o monopolio delle televisioni, o Berlusconi. E di come spesso esse leghino le mani anche ai cosiddetti intellettuali, incapaci di spezzarle, incapaci o disabituati ad accettare il rischio di un “critica totale”.

“Bisogna avere il coraggio della critica totale”, scriveva Pasolini in una delle Lettere luterane.

Non ho scritto quel capitolo per interessi di parte. Mi interessava ricostruire, con un occhio quasi antropologico, il modo in cui funzionano i rapporti di potere nel campo della cultura. Argomento a cui ho dedicato altri saggi. Mi interessava mettere sul piatto delle analisi del potere quei fatti che di solito vengono tralasciati. Mi interessava abbandonare la scala di analisi della macrofisica per quella microfisica, entrare cioè nell’ambito dei MICROPOTERI, delle procedure, delle consuetudini.

La microfisica del potere non ha a che fare con cose nascoste ma solo con cose apparentemente piccole. E infatti le relazioni di potere che possiamo supporre in azione in questi casi sono per lo più abbastanza note a chi opera nel settore. Tanto note da risultare quasi banali. Sono procedure che agiscono a livello capillare, in una serie di reazioni a catena, che si condizionano a vicenda. Perciò non andrebbero affatto sottovalutate. Tanto più che su di esse, che hanno radici profonde, sedimentate nei secoli, hanno buon gioco a innestarsi nuovi e più terribili poteri.

Ogni discorso sul potere in Italia e sulle sue interferenze con il mondo della cultura dovrebbe quindi cominciare da qui, e avere la pazienza di adottare un approccio che sia insieme micrologico e antropologico, oltre che sociologico e politico.

Ovviamente, chi partecipa o beneficia di queste strutture di potere, non ha alcun interesse a farle diventare oggetto di discorso. Ma anche chi ne è estraneo tende spesso a tenerle fuori dai propri ragionamenti per una sottovalutazione abitudinaria, e talvolta anche per snobismo, assai diffuso nella sinistra inerte di questi anni.

All’indicibilità di questo potere contribuisce anche una procedura tipicamente italiana, che informa il comportamento discorsivo pubblico: è il regime di doppia verità, radicato un po’ in tutti gli strati e in tutte le parti politiche, nella destra come nella sinistra. Talvolta esso viene praticato per ragioni non ignobili (non indebolire la causa per cui si lotta, difendere il partito, o anche semplicemente l’amico), talvolta invece per ragioni di mero opportunismo. In entrambi i casi però si produce una certa indifferenza alla verità, cioè un altro effetto di potere.
Quando si dà per scontato che possano esistere due verità, una “vera” da tenere per sé, e una di circostanza da dire pubblicamente, è evidente che la critica è paralizzata.

Dunque questa forma di potere che nessuno racconta si riproduce e si difende sottraendosi non tanto alla vista ma alla sua tematizzazione nel discorso pubblico, impedendo così le contro-misure che si potrebbero prendere. Impedendone la critica.

Questa è la sua forza ma anche il suo punto di debolezza. Esso infatti non tollera di essere messo a fuoco e tematizzato, e ogni volta che qualcuno lo fa, contrattacca con misure drastiche e autoritarie: viene allo scoperto con mosse arroganti, esplicitamente di potere, censurando trasmissioni, reprimendo la circolazione di contenuti, citando in tribunale.

(2 – fine)

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12 Commenti

  1. La riflessione tra cultura e potere e fondamentale. Carla Benedetti rilancia la riflessione ormai relegata agli scantinati della politologia sul ruolo dell’autorità e quindi dell’autoritarismo nella prassi letteraria e più in generale artistica. Studiare le dinamiche di potere della cultura è fondamentale per comprendere la possibilità d’espressione nel nostro tempo. Al di la delle formali libertà ormai rimaste solo appanaggio di Ferrara.

  2. Nessuno che, per caso, ipotizzi che la Benedetti si stia solo facendo pubblicità con questa stupidaggine della querela operatagli da quell’ingenuo omaccione di Pedullà? Furbona…

  3. Vorrei capire che pubblicità voglia farsi una docente universitaria e critica che scrive le motivazioni che l’hanno portata a difendersi dopo aver subito una querela per diffamazione… le sue mi sembrano riflessioni che portano i lettori a imparare ad avere categorie propie di critica e lettura dei fatti. Non riesco proprio a capire perché certi commenti puntino sempre e comunque a bypassare i contenuti dei post per fare illazioni sulla persona e non sul prodotto dell’autore. E comunque una sana riflessione sulla gestione dei poteri e la loro relazione con la cultura non mi sembra pubblicità, ma invito a pensare.

  4. Oh Gabriella, l’hai capito o no che Giovannisenzaterra è un webtroll, sarà una settimana che fa la posta a un topic serio per scriverci una cagata, per vedere l’effetto che fa, per sentirsi vivo, e tu gli rispondi seriamente. Un webtroll o lo eviti (è la soluzione migliore) oppure gli rispondi in modo incomprensibile (richiede tempo e a volte il troll ribatte), non so gli dovevi rispondere: Ha ha lo sanno tutti Giovanninosenzasenso che tua sorella faccia di merda se la sbatte Pedullone e allora tu fratellino borderline vieni qui a difenderlo hi hi hi. Ecco, Gabriella, il webtroll si aspetta questo, con questo va a letto tranquillo, magari salta anche la pasticca del giorno.

  5. Ha proprio ragione Giovanni Senzaterra. Appena letto il pezzo ho sentito l’urgenza di prenotare 100.000 copie del libro. Ach, questa Benedetti, ne sa una più del diavolo!

  6. Perché non ne disquisisci anche con Buttiglione? Tema di grande attualità l’orientamento sessuale delle persone…

  7. Giovanni senzaterra (bella questa, “webtroll”, non la sapevo) non ha letto “Il tradimento dei critici”, oppure l’ha letto e non ne ha ricavato alcun beneficio – può succedere – oppure non ha mai letto nulla, o tutto. Che poi è la stessa cosa.
    Quello è invece un saggio bello e importante che finalmente mette alla berlina, ma programmaticamente, consuetudini “militanti” che hanno ricacciato indietro il già scarso appeal della cultura italiana all’estero e soprattutto – non se ne parla mai a sufficienza e nessuno l’ha ancora valutato – è corresponsabile del genocidio culturale di questo Paese, e della rigidità del nostro canone letterario (com’è noto, inutilizzabile). Prima di Moresco, o Martone, non dimentichiamolo, ci sono state molte altre vittime di queste logiche di potere, tra le quali spicca – SUBLIME IRONIA! – quello Stefano D’Arrigo di cui Pedullà è testimone vivente e curatore per la posterità.
    E forse solo la Benedetti potrebbe aiutarmi a capirlo…

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