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Fast blood, il disco di Lello Voce

di Aldo Nove

fastblood.jpgIl destino nel nome (nel cognome, più esattamente). Lello Voce è poeta e performer (nonché straordinario romanziere), memore di altri tempi, nobili e tutt’altro che “moderni”: la lettura privata della poesia è del resto un fenomeno che ha meno di due secoli, è retaggio di quella concezione solipsistica, marginale, di derivazione tardo romantica e assurta poi a marchio di “genuinità”, di introspezione e insomma di nicchia e quindi di emarginazione.

E c’è la tradizione anglosassone, quella della poesia letta in pubblico, declamata. C’è il rap, forse la più genuina espressione popolare contemporanea e globale di una parola che gioca (gioca, come giocava Palazzeschi, e giocavano Toti Scialoia ma anche Ungaretti e, molto prima ancora, Metastasio Teofilo Folengo Jacopone da Todi Anacreonte, tanto per dire, a ritroso sul serio) con il ritmo e le rime, lasciando che la densità si coniughi a una possibilità di “consumo” che è poi fruizione. Che è poi vita, e realtà.

Lello Voce è stato uno dei primi, in Italia, a promuovere e a incarnare, con il suo lavoro, “l’avantpop”. Un’avanguardia popolare, di matrice statunitense, almeno nella sua genesi letteraria, che non accetta la dicotomia (snob quando non mossa da invidia) tra ricerca e godibilità. Lello Voce è stato il primo, in Italia, a divulgare i Poetry Slam, unico evento di poesia in cui i versi si mettono in gara, e con loro i poeti, in uno show dove pubblico e poesia sono un corpo solo, quel corpo gaudente di Duchamps in cui passano il linguaggio e i suoi equivoci. Nulla di più lontano dalla romita, ascetica, asettica idea di poesia che ancora oggi strenuamente permane.

Lello Voce, infine, è un guastafeste. Se feste si possono definire quelle veglie funebri definite “letture di poesia” dove la profondità spirituale si confonde con la noia paludata delle occasioni mancate, e reiterate, e alle quali Lello Voce non parteciperà mai. Ed è un guastafeste pure perché la sua produzione poetica esce dagli schemi, si fa inafferrabile, rifiuta le regole, le sovverte e le ricrea. Fast Blood è un cd che contiene quattro lunghi rap. I testi sono gli stessi editi lo scorso anno (con il titolo “L’esercizio della lingua”) in occasione del Premio Delfini, che Lello Voce vinse.

Sono quattro “lai”. Arcaismo che sta per “lamentazione”. Lamentazioni rutilanti, “ragionari” che non lasciano spazio alla riflessione (intesa come meccanico prodotto della “poesia alta”, quella da degustare, pasolinianamente, carduccianamente, all’ombra di un albero, fronzuto o meno, feticcio di una natura che oggi, in poesia, è già da subito bozzetto di patetiche fughe dall’urbe globale) ma diventano azione. Poesie, lamentazioni che stridono, frenetiche. Che vanno diritte al cuore. Il cuore della contemporaneità. Ritmo dove la parola brucia e si consuma.

Scriveva anni fa Nanni Balestrini, uno dei primi a riconoscere lo straordianario talento di Lello Voce: “Dietro la pagina / un vuoto incolmabile / non mima niente / nel paesaggio verbale / l’arte dell’impazienza / sovrappone un’altra immagine / mentre passiamo bruciando”. Dunque una fretta. Ma “quel vuoto incolmabile”, quel “non mimare nulla”, per Balestrini come per Voce, altro non sono che l’invocazione di un sempre più refrattario presente. Un presente che Voce analizza con spietata lucidità. E ce lo vomita addosso – grazie alla collaborazione di musicisti del calibro di Paolo Fresu, Frank Nemola, Luigi Cinque, Luca Sanzò e di Michael Gross, ex tromba di Frank Zappa – sorretto da un tappeto sonoro in cui musica e parole diventano strumenti bellici (dell’unica guerra che non sia follia, quella culturale), si confondo all’attacco simultaneo della poesia come esilio dalla realtà e della realtà stessa.

Ecco come inizia il primo poemetto (il primo “rap”): “Così non va, non va, ti dico che così non va: come una supernova esplosa come un astro strizzato di fresco come la tua bocca stanca e tesa accelerata particella ora non so più nemmeno se sia una stella o invece pajette incollata allo sguardo scheggia di diamante che ti fora le pupille o desiderio di luce che sfarfalla all’orizzonte dell’ultimo oltremondo viaggio condanna che ci danna panna acida che ingozza la parola che ora già ci strozza perché così non va, non va”.

E poi: “(…) qui si muore di fame e d’obesità si muore di richezza e povertà, si muore di solitudine e rumore si muore in nome di Dio per liberarsi di Dio si muore per il solo gusto di farlo e sentirsi anche solo per un attimo Dio”… “Così non va”: era, questa frase, l’ossessione dell’ultimo Beckett, il cantore delle macerie e della loro persistenza. Su quelle macerie Lello Voce ha costituito la sua militanza, la sua poesia civile nonostante tutto (nonostante la profonda inciviltà dei tempi). Con un lessico e una sintassi di esorbitante efficacia, giocata su allitterazioni e brachilogie, scatti in avanti e deragliamenti ritmici, insolite fusioni (il Campana più musicale di Genova, ad esempio, ma anche il talento ritmico degli Articolo 31, forse tecnicamente, ma solo tecnicamente, il miglior gruppo rap italiano). E’ la velocità del sangue che scorre (al G8 di Genova, di cui Voce è stato il più attento e fedele cronista poetico, e in ogni parte del mondo in cui continua a scorrere) a dettare il tempo di queste letture performate, o meglio di queste poesie che al contempo sono azioni, invettive e spronano all’azione.

Lello Voce ha il dono davvero eccezionale di scandalizzarsi quando tutti sembrano avere accettato la quiescenza, quando il Titanic affonda e i suonatori (e i versificatori) continuano indefessi le loro attività di “distrazione” estetica (fu proprio Hans Magnus Enzensberger a paragonare il nostro tempo alla vicenda del Titanic, al suo sfarsi in “vertiginosi souvenirs” di un’era allo sfacelo).

L’ascolto del disco (il primo di una collana dedicata a progetti simili) è accattivante e lascia un retrogusto di profonda inquietudine. Come se Voce “non ci avesse detto tutto” ma perché “dire tutto non si può” e Voce e forse oggi l’unico poeta italiano che a quel tutto si avvicina, lontano da qualunque “scarto minimo”, da qualunque leziosità che ci salvi lì, nella poesia, con la poesia.

Ma lasciamo parlare ancora Voce: “(…) c’è un’aria che spira un’atmosfera da strage un clima che intima gente che plaude prona s’inchina c’è chi dovrebbe opporsi pone domande e non ha risposte c’è che nessuno ha più speranze riposte ma solo azioni e buoni bontà in borsino e sentimenti in finanzieria c’è che è tutta una mal’aria tutta umida di violenza e senza ripari a cui correre né santi a cui ricorrere”… Quello che conta è non abiurare la lotta, la resistenza (“Piano piano anche tu ti sfilerai dalla stretta china della rivolta / per diventare un vecchietto che sgrana massine ottuse / la stolta vena dell’ottuso buonsenso”, scriveva anni fa Angelo Maria Ripellino, cito a memoria). I nemici ci sono ancora, come Lello Voce ci ricorda nella splendida chiusa dell’ultimo poema-rap, Lai del ragionare caotico (Black lai): “uguali a oggi com’erano ieri uguali oggi a come saranno domani quando in fila a capo chino attenderanno lo schianto possente che li spazzerà lo schiaffo rude che ridendo lieto li annienterà”…

Lello Voce
Fast Blood
CDAudio – 40’
Musiche di Frank Nemola
Con: Luigi Cinque, Paolo Fresu, Michael Gross, Luca Sanzò
MRF5 – Absolute Poetry
?. 8,30
Distribuzione SELF – nei negozi di dischi e on line su www.self.it

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Absolute Poetry – una nuova collana di dischi di poesia e musica

Absolute poetry è la nuova collana di poesia e musica, di parola sonora e musica attuale, prodotta e diretta da Luigi Cinque e Lello Voce.
L’etichetta di riferimento è la MRF 5, label indipendente da tempo presente nelle catene della distribuzione europea di musica nuova e poesia orale.
Mancava in Italia un riferimento, un orecchio puntato, a quell’importantissimo fenomeno che è la nuova produzione di ‘ spoken word’ di parole dette in musica, un sentiero che va ben oltre l’ hip hop, che parte dalla poesia – ed è dalla parte della poesia – e vede i poeti e in genere la nuova scrittura poetica impadronirsi della scena ufficiale della musica rock, tecno jazz e di frontiera, una nuova oralità che influenza già la nuova scrittura e che è poi la cronaca più autentica e pura del nostro tempo, un ritorno alla funzione primaria del poeta come cantore e della presenza della voce e del racconto in musica. Dopotutto la narrazione è sempre stata un evento di ritmo parola e musica.
La collana, che vedrà collaborazioni di artisti importanti del rock, del jazz e della poesia internazionale, si propone come punto di riferimento del genere in Italia e sarà collegata al Festival Romapoesia che è ormai uno dei maggiori eventi internazionali di poesia in Europa.
La distribuzione sarà garantita da SELF – uno dei nomi prestigiosi del mondo della musica – che ne garantirà la presenza nei negozi di dischi, nei punti Ricordi/Feltrinelli e nelle Fnac.

Pubblicato su l’Unità, 25 ottobre 2004.
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9 Commenti

  1. lello voce potrebbe scrivere i testi per gli Articolo 31, allora; o addirittura essere il loro nuovo vocalist.

    ma dico, caro voce, ma crede alle giottine paroline che l’aldo ha scritto sul suo conto? non le è mai venuto il dubbio trattarsi di una supercoglionata a lei rivolta?

    robb da matt

  2. Santo papà Biondillo, ma che fai, il guardiano di Nazione Indiana? Ti pagano??
    Sai, a volte si buttano fiori, a volte si sta zitti, a volte si ammira.
    A volte fango è chiamato da fango! C’est…non è umano, che dici?

  3. sì, Biondillo è rinciucchito a far da guardiano, abbiamo perso i protagonisti e rimangono i groupie

  4. Vorrei fare un commento che è anche l’espressione
    di un dubbio riguardo al discorso che si fa in
    letteratura riguardo al rap e alla bellezza
    dei suoi sistemi metrici. Non sono sicuro che
    ci sia una grande conoscenza di questa musica, conoscenza che deve per forza di cose passare per l’underground, questo ovunque, ma in italia questa necessità è ancora più forte. Ho grosse riserve sul fatto che gli Articolo 31 abbiano una buona tecnica, i loro testi son tutti stacchi vocali rime banali e poco e scarso – tranne qualche volta – gioco sul linguagggio, nell’underground sono infatti sinonimo di pessima capacità metrica. Consiglio a chi sia interessato – in particolare ad Aldo Nove in caso legga questi commenti – l’ascolto di musicisti underground come Fabri Fibra e Turi. I dischi sono ordinabili sul sito vibrarecords.com.
    Tiziano Scarpa in un suo libro ha invece giustamente parlato di Franky Hi Nrg Mc, come uno dei pochi rappatori italiani che “sanno cosa siano le parole”. Per quanto riguarda Jovanotti mi pare addirittura uno che parla su una base musicale, il suo effetto è nè più nè meno di un discorso di Fini con sotto un bumcià.

    ciao a tutti

  5. Si va bene tutto. Ma qualcuno l’ha sentito il disco o no? Se no invece di quello si parla d’altro. Io ho orecchiato 2 pezzi su Radio 24 e mi sembrava bella roba. Gli Articolo 31 invece mi fanno vomitare.
    Gab.Konsiglio

  6. Io l’ho sentito e mi è piaciuto molto, ma scusa se probabilmente proseguo nella divagazione. Vorrei cogliere l’occasione per aggiungere una cosa sul rap e sui discorsi che si sentono in merito, con particolare riferimento a questo articolo di Aldo Nove.
    Innanzi tutto ci vorrebbe più conoscenza della materia come ho detto in precedenza, mentre sembra che il solo sentir qualcuno sbrodolare a voce normale sia rap, a questo punto la differenza tra rap e canto consisterebbe solo nel fatto che nel canto “si parla a voce alta”, e la differenza tra poesia e prosa è forse che nella prima si va a capo…ma è un altro ora l’appunto che vorrei fare.
    Mi sembra che davvero tanta parte del discorrere (in genere, non solo sul rap) sia limitata da una certa goduria del decadimento innamorata più che altro della possibilità di far infuriare la professoressa dell’ora d’italiano col “sacrilegio” (poco spaventoso veramente) di accostamenti improbabili alla letteratura codificata quale quasimodo-ungaretti-montale e interrogazione. E’ una goduria del facile, dello scontato. Da questo articolo di Aldo Nove sembra per esempio uscirne che qualunque invettiva sulla bruttezza del mondaccio o del Macmondino, risulti interessante ripristinazione delle nostre inquinate capacità respiratorie di tapiri-merce. Che qualsiasi pernacchia (non parlo della produzione poetica di Lello Voce) sia “dissenso”. Che una scritta sul muro contro la globalizzazione comporti masturbazione urgente. Ho letto un articolo abbastanza compiaciuto di Aldo Nove su Moore, tanto per dire, il regista di Fahrenheit, film che mi sembra la trascrizione cinematografica di un “fuck Bush” taggato su un portone, non ha niente in più, in meno ha però il carattere diretto dell’opera. Pettegolezzi, squallore, laido buonsensocomune, fronte popolare strappalacrime, al ritmo di soldati disturbati che con la bava e gli occhi spalancati come Dino Campana in elettroshok cantano: “burn muthafuckin’ burn”…è un film che colma la distanza tra il “fuck Bush” e la vaniloquiata ambizione documentaristica con una demagogica gogna in che l’unico fattore pungente è la piccolezza, mezzo necessario alla scimmiottatura di una capacità critico-satirica assente, facilitato in più dalle caratteristiche di un oggetto-Bush che si ridicolizza da solo, sulla CNN, senza bisogno di portarlo al cinema per renderlo stupido, a meno che non si abbia qualcosa da dire il qual caso non è. Fa venir voglia di diventare conservatori, l’idiotizzazione di un idiota fa venir voglia di diventare idioti e questa mi sembra la sintesi di tutta un’atmosfera di incancrenimento in un dissenso d’accatto che è affermazione del potere. Lello Voce in un articolo si chiede come possa interessare ai cattolici la presenza del crocifisso in aule in cui contemporaneamente s’insegna un Leopardi materialista, ma gli sfugge mi sembra che non si da eresia senza crocifisso, Leopardi non accetterebbe la mancanza di quel crocifisso, rifiuterebbe di rientrare in un brodo materialista che si compiace del proprio materialismo, non è auspicabile un materialismo del materialismo, un’eresia dell’eresia…questo non deve sfuggire ha chi ha in sé una energia negativa – Aldo Nove ad esempio, che è un ottimo poeta – e che però finisce spessissimo per impantanarsi nella tabula rasa dell’orrido laicismo plurale della nostra orrida democrazia della comunicazione.

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