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More Moore (tu chiamale, se vuoi…)

di Raul Montanari

moore.jpeg1. Sparare su Michael Moore e su Fahrenheit 9/11 (con entusiasmo perfino maggiore di quello che ci metterebbe Charlton Heston) è diventato l’hobby preferito di un certo tipo di intellettuale di sinistra micragnoso, minimalista, precisetto, analitico, concentrato non dirò sull’albero, non dirò sulla foglia, ma sulle nervature della foglia, al punto di non vedere più non dirò la foresta (sarebbe troppo facile), non dirò l’albero, ma nemmeno la foglia stessa.

Come è stato giustamente osservato, questo intellettuale è rimasto orfano del soggetto politico della sinistra tradizionale, l’operaio. Essere di sinistra, per lui, è diventato essenzialmente votare in un certo modo (quando ci va, a votare: spesso il disgusto o le sirene del weekend glielo impediscono) nella famosa “gabina” elettorale, esibendo nel resto della sua attività quotidiana e, appunto, intellettuale un mix di noia e rassegnazione, di acida consapevolezza, il cui oggetto preferito non è quasi mai la destra, le sue facce, le sue parole d’ordine, le sue prassi politiche – la cui indegnità è data più o meno per scontata quando non sotterraneamente ammirata (vedasi il mito di Giuliano Ferrara) e frequentata in salotti, feste e occasioni televisive – bensì gli errori dei suoi compagni di orfanaggio, le virgole sbagliate, l’accento grave o acuto sulla “e” di perché.

L’intellettuale di sinistra minimalista e pensierodebolista professa abominio verso chiunque alzi la voce, azzardi un qualsivoglia progetto che comporti uno slancio emozionale, proponga una visione d’insieme. Comodamente seduto sulla sua poltrona universitaria, televisiva, redazionale, radiofonica o telematica, si compiace di esercitare un pensiero tanto ingegnoso quanto essenzialmente distruttivo, smontando codici e strutture retoriche con l’aria di fare un favore ai compagni di corsa, in realtà gratificando solo sé stesso e il miraggio circolare e onanistico della propria intelligenza. Un gioco piuttosto facile: chiunque di noi ha sperimentato il godimento che dà sedersi in un angolo e stare a vedere le cazzate che fanno gli altri; perfetta rappresentazione di questa situazione è il capitolo di Tre uomini in barca di Jerome dedicato alla preparazione dei bagagli per il viaggio sul Tamigi.

2. Questo, per me, non è affatto un intellettuale di sinistra. Non ho diritto di dire che non è un uomo di sinistra, perché se vota in un certo modo la qualifica gli spetta; non ho diritto di dire che non è un intellettuale, perché ha i titoli, in tutti i sensi, per esserlo. Ma la differenza fra l’intellettuale e l’impiegato postale o l’importatore di legumi dovrebbe consistere nel fatto che un certo tipo di sguardo sul mondo entra, nel caso dell’intellettuale, nella sua attività produttiva, nella scrittura e nella voce pubblica che lui rappresenta; mentre nel caso degli altri è confinato per forza di cose altrove.

Ora, questo sguardo tagliente, supercilioso, smagato, disilluso, è sempre stato appannaggio delle migliori menti della destra.

Lasciando un momento da parte i soliti Aron, Jünger, Borges e illustre compagnia, provo a fare l’esempio di un nome nazionalpopolare: Indro Montanelli.

Montanelli è stato un giornalista di destra con i controcoglioni, fisicamente coraggioso, baciato dal dono di una scrittura incisiva e saporosa. Quando c’è stato da combattere, Montanelli si è schierato senza esitazione nel fronte anticomunista, di cui è diventato un simbolo e una potenza: la secessione dal “Corriere della sera” e la fondazione del “Giornale” ne sono una testimonianza. Provate a rileggere un paio di numeri delle prime annate del “Giornale”, e ci troverete fin nelle pagine sportive un anticomunismo talmente violento, perfino becero, da stare tranquillamente alla pari con quello attuale di Berlusconi. Nel frattempo, però, lo sguardo che Montanelli rivolge alla galassia politica di cui si fa rappresentante ha tutte le caratteristiche elencate sopra: è uno sguardo disincantato, che parte da quella che possiamo considerare la concezione basilare della destra: l’idea antichissima che la natura umana sia sempre la stessa, e trascorra impermeabile attraverso le mutazioni sociali ed economiche, le ideologie, i cataclismi storici. L’uomo è un animale cattivo, egoista e miope. I rapporti interpersonali sono regolati dalla forza. Quando arrivano al potere, tutti gli uomini si comportano più o meno allo stesso modo, mandando al diavolo il credo politico che li ha condotti fin lì e facendo sfoggio di rapacità (con l’eccezione di un manipolo di galantuomini che l’intellettuale di destra elegge a propri eroi).

Poi succedono due cose. Crolla il Muro, e Berlusconi delude Montanelli sul piano politico e su quello personale. Risultato: Montanelli attenua, per semplice mancanza di combustibile, il fuoco dell’anticomunismo e accentua, per ovvio spostamento di energia, la polemica contro la destra, i suoi errori, le sue meschinità. Lui continua a ripetere di considerarsi un uomo di destra, più esattamente un anarchico di destra. Ma le sue critiche sono così pungenti da farlo scambiato per uno di sinistra, e renderlo negli ultimi anni della sua vita oggetto di ammirazione agli occhi di chi lo aveva detestato per decenni.

3. Prima di procedere, prendiamo a prestito gli occhiali dell’intellettuale di sinistra minimalista (chiamiamolo ISM, per non ripeterci ogni volta) per fare una precisazione: il titolo del penultimo celebre documentario di Michael Moore può scriversi sia Bowling for Columbine (versione originale inglese, che manterremo) sia Bowling a Columbine (dove la “a” non è l’articolo indeterminativo inglese, ma la preposizione italiana che indica stato in luogo con un nome proprio; come dire: Bocce a Casalpusterlengo). La versione Bowling at Columbine è da rigettare.

4. Ora mettiamo via gli occhiali, e vediamo grosso modo cosa dicono gli ISM di Bowling for Columbine e del successivo Fahrenheit 9/11.

Le tesi di massima sono queste: Bowling for Columbine è bello (qualcuno dice che fa schifo anche quello, peraltro), perché si propone uno scopo limitato e lo raggiunge: partendo dalla strage che due adolescenti compiono in una scuola, fa una buona analisi del feticismo nordamericano per le armi da fuoco, lo mette in relazione con la paranoia instillata dai media, con il senso di pericolo costante, di accerchiamento, di paura. Culmine del film, l’incontro fra Moore e l’orripilante Charlton Heston, presidente della National Rifle Association, la lobby dei produttori e dei consumatori di armi negli USA. Vi dirò la verità: a me è sembrato che Heston facesse una discreta figura, in questo incontro. Intanto è gentile ad accettare di parlare con Moore davanti a una telecamera, invece di tenerlo alla larga come fanno in Italia con l’innocuo Valerio Staffelli di “Striscia la notizia”. Poi dice quello che può dire, difendendo le proprie convinzioni senza fare troppo l’arrogante, e alla fine si allontana senza chiamare bodyguard o altri che sbattano Moore fuori dalla porta, mentre il regista rimasto padrone del campo gli lascia, invece del tapiro, la fotografia di una bambina uccisa. Comunque, tutti hanno detto che in questa scena Heston fa una parte spaventosa, e va bene così.

Invece Fahrenheit 9/11 è brutto, è dannoso, è grottescamente sopravvalutato (oppure: conferma la pessima impressione che aveva già fatto il film precedente), perché si propone uno scopo gigantesco e generico: dimostrare che l’amministrazione Bush ha reagito all’attacco alle Torri Gemelle in modo al tempo stesso inadeguato e depistante, salvaguardando i rapporti d’affari con l’oligarchia saudita di cui Bin Laden è espressione – benché distorta – e spostando sull’Iraq il sentimento di rivalsa del popolo americano, se non dell’Occidente in generale. Fahrenheit 9/11 è un prodotto di bassa propaganda elettorale, buono (in teoria: in pratica non ha nemmeno funzionato!) per un’audience palafitticola come quella americana.

Qual è, secondo questa impostazione, la differenza sostanziale fra i due film? Che il primo riesce a essere discretamente analitico come piace all’ISM. Il secondo non ha in sostanza nulla da scoprire, da argomentare, da rivelare, che noi europei intelligenti e avvertiti non sappiamo già; quindi preme alla grande il pedale del patetico, dell’effettistico. E’ inarticolato come un grido, greve come un cazzotto. Ci mostra Bush contemporaneamente come un perfetto idiota che canta in una classe di bambine mentre il mondo sta crollando, e come un astuto e spietato politico capace di ingannare i suoi elettori, di costruire una carriera personale e pubblica fondata sulla frode e sull’appoggio della potentissima famiglia, di mentire, di mandare a crepare decine di migliaia di persone per i propri interessi privati. Infine, Fahrenheit 9/11 si chiude in modo imperdonabile, impresentabile, imbarazzante, con l’insistenza sul personaggio di una madre che chiede urlando e piangendo giustizia per il figlio morto, per minuti e minuti, prima in casa sua poi addirittura davanti alla Casa Bianca.

5. Il filo rosso, unificante, che corre lungo questa valutazione che gli ISM danno dei due film di Moore è essenzialmente questo. Si comincia col dire che può anche darsi che Fahrenheit 9/11 sia un film efficace… salvo rimproverargli di non esserlo stato poi tanto, visto che Kerry le elezioni le ha perse comunque. I più lucidi fra gli ISM ammettono che lo spettrale candidato democratico sarebbe andato sotto in ogni caso, poiché che non aveva, come giustissimamente osserva Marco Codebò, una “narrazione alternativa” da opporre al modo in cui Bush raccontava la sua America.

Il punto è che, indipendentemente dall’esito delle elezioni, l’ISM sottolinea che a lui non avrebbe interessato vincere grazie a Moore, perché essere di sinistra è anzitutto un metodo, uno stile. Qual è la caratteristica fondante di questo stile? E’ il rifiuto del pathos, della semplificazione, dell’evocativo. L’analisi deve prevalere su tutto. Le emozioni devono cedere il passo all’esprit philosophique. Questa è una nuova proposta per la sinistra del 2000? Macché, risponde l’ISM: questo è sempre stato lo stile della sinistra, è ciò che distingue la sinistra dalla destra grossolana, caciarona, che fa leva su emozioni terra terra come la paura del diverso, l’egoismo, l’avidità.

6. Sbalorditivo!

7. Cominciamo dal fondo.

Questo dell’analisi al posto del richiamo emozionale sarebbe sempre stato lo stile della sinistra? Ma siamo impazziti?

L’ISM dimentica che la storia della sinistra, come quella di qualunque grande movimento o sentimento di massa, è piena e strapiena di semplificazioni e di evocazioni emotive!

Marx è entrato nella storia della cultura occidentale con le analisi del Capitale, ma il mondo lo ha cambiato, in meglio o in peggio, con gli slogan potentissimi, emozionantissimi, indimenticabili del Manifesto del partito comunista.
Il PCI è sempre stato pieno di gente che “aveva studiato” quanto e più dell’ISM, ma si è radicato popolarmente attraverso l’uso massiccio di una propaganda che faceva leva su sentimenti basilari, in cui per esempio l’invidia sociale era largamente presente (altro che analisi! L’analisi stava prima, semmai), ed è arrivato vicino a prendere il potere in Italia sull’onda emotiva della morte di Enrico Berlinguer e dei suoi grandiosi funerali.

Bisogna fare altri esempi?

I milioni di ragazzi che negli anni ’60 e ’70 consideravano normale essere di sinistra, voler cambiare il mondo – tutti quelli che erano, verrebbe da dire, di sinistra per default, mentre di destra erano quasi solo quelli che avevano interessi da difendere… questi milioni da cosa erano uniti? Dalle canzoni di Guccini e De Gregori, o dai libri (magnifici) del Mulino?

8. L’idea che le emozioni siano di destra e l’intelligenza sia di sinistra, in particolare questa intelligenza asfittica, stitica, antipropositiva, è il retaggio sciagurato di una generazione intellettuale alla quale purtroppo appartengo anch’io. Peggio: è una scelta politicamente perdente.

Che ci piaccia o no, il nostro mondo va nella direzione di una semplificazione comunicativa. Quanto più la comunicazione si diversifica sul piano tecnologico, tanto più i suoi contenuti richiedono di essere sintetizzati e soprattutto arricchiti di impatto emozionale. E’ probabile che l’emisfero destro del cervello abbia governato la pragmatica della comunicazione più di quello sinistro da sempre; ora, però, più che mai. Pubblicità commerciale e programmazione televisiva ne sono le prove più banali; altre sono a disposizione.

Il prodotto culturale più consumato dallo stesso pubblico a cui la sinistra chiede il voto è rappresentato dalla satira e dai comici: forme d’arte (se volete) in cui l’impatto emozionale è fondamentale, anche quando si tratti della piccola emozione della risata.

L’incarnazione più brillante di questa satira è, curiosamente, quella più vicina al modo di lavorare di Moore: “Blob”.

Blob” fa esattamente quello che fa Moore in Fahrenheit 9/11: opera sul patetico, sull’accostamento assassino. La faccia di Berlusconi si giustappone alle scoregge del ciccione di Cinico TV. Il cosciame di balletti e starlette o gli starnazzamenti delle galline vip vengono montati in alternanza con immagini scioccanti di bambini morti, di case sventrate. Il messaggio è semplificato, l’effetto è facile, l’insieme sicuramente populista agli occhi dell’ISM. Sta di fatto che in “Blob” troviamo quanto basta a rispolverare la coscienza civile intasata – vista l’ora – dall’odore dell’arrosto e dai postumi di una giornata passata a occuparci di marketing o di compromessi: l’emozione dell’immagine e la genialità del raccordo.

9. Ricerche recentissime sull’elettorato italiano hanno rivelato che le parole chiave su cui chi vota a sinistra si sente più coinvolto sono tre: antiamericanismo, antiberlusconismo, solidarietà. Mi dispiace che le prime due rappresentino istanze di tipo negativo, siano dei “contro” e non dei “pro”, ma è così. Ora, qualcuno mi dimostri che queste tre categorie rappresentano analisi o prodotti di analisi e non emozioni pure. L’antiamericanismo e l’antiberlusconismo sono così poco analitici da aver finito per coinvolgere persone che, per vocazione o condizione, avrebbero tutti i motivi per esporre dal balcone la bandiera a stelle e strisce e quella di Forza Italia… i miei genitori, per esempio! Possono essere razionalizzati a posteriori, ma non nascondiamoci dietro un dito: si tratta di emozioni pure, violente e taglienti.

Quanto alla solidarietà, è un concetto che merita una piccola riflessione in più.

La solidarietà nasce dall’identificazione con un sofferente, e rigetta qualsiasi analisi, tanto quanto rigetta un calcolo di semplice autoconservazione (della vita, della proprietà). Vedi l’immagine di un bambino affamato e pensi che non ti va giù, che il mondo non può essere così, anche se tu non sarai mai nei panni di quel bambino. Vedi sfilare un corteo di precari e sei solidale con loro, anche se per merito o fortuna generazionale tu il lavoro ce l’hai. Allora entri nella cabina elettorale e voti pensando a far funzionare meglio il tuo paese, a renderlo più giusto, più decente, più degno di essere amato, più abitabile per tutti, anche se questo insieme di emozioni si può tradurre in un voto che va contro i tuoi interessi personali.

E’ la distinzione che Rousseau poneva fra il perseguimento della volontà generale (interpretare lo spirito del proprio paese e i bisogni della collettività: lui lo chiamava atteggiamento democratico) e quello della volontà di tutti (semplice sommatoria fra voti che rappresentano ciascuno un interesse particolare, privato: è storicamente l’atteggiamento liberale).

Democrazia contro liberalismo: non c’è nemmeno bisogno del socialcomunismo, che naturalmente ai tempi di Rousseau non esisteva nella sua forma scientifica. Non c’è bisogno di essere né comunisti né socialisti per essere di sinistra – ammesso che uno ci tenga a esserlo.

Democrazia è cedere all’emozione di sentirsi parte di una comunità, con uno sguardo forte per le componenti più deboli di questa comunità: essere di sinistra. Moderata, radicale, cattolica: di sinistra.

Liberalismo è valutare (legittimamente!) ciò che conviene al proprio interesse personale e agire di conseguenza: essere di destra.

10. E’ ovvio che non sto dicendo che i film di Michael Moore siano un test per valutare se uno è di destra o di sinistra: siamo partiti da Bowling for Columbine e da Fahrenheit 9/11 per provare a fare un discorso più ampio. Certe parti ultraretoriche di Fahrenheit hanno infastidito anche me, volendo considerare l’opera come prodotto estetico tout court; valutando l’insieme come macchia, come pozzanghera di significato, come gesto estetico-politico, il fastidio l’ho mandato giù ed è rimasta l’ammirazione. Grezzo, potente, diretto, Fahrenheit 9/11 ha le stimmate del capolavoro ed è un film superiore al precedente, per essenzialità narrativa e importanza dei contenuti. Uno spettatore non particolarmente interessato al tema potrebbe perfino perdersi un po’ nel labirinto argomentativo di Bowling; nessuno rimane indifferente a Fahrenheit. Al limite, ti arrabbi.

11. Non sto nemmeno additando alla pubblica esecrazione gli ISM in qualità di soggetti dotati di nome e cognome, perché ho il sospetto che l’ISM sia piuttosto una condizione dello spirito, una tabe che sta, in misura maggiore o minore, dentro tutti noi: l’ISM è il ripiegamento difensivo di una classe intellettuale orfana e vedova, il ristagno fecale di un’intelligenza che si avvita su sé stessa e che, senza nemmeno rendersene conto, si apparenta a ciò da cui vorrebbe distinguersi.

La sinistra immaginata dall’ISM è quella che pretenderebbe di combattere la destra rinunciando alla centralità dell’emozione; cioè, all’incirca, affrontare un match di boxe tenendo una mano legata dietro la schiena e saltellando sul ring su un piede solo mentre si cantano arie dal Trovatore, contro un avversario che digrigna i denti e mena – giustamente! – fendenti e mazzate.

Questa sinistra è esattamente quella del morettiano “non vinceremo mai”.

E peggio che perdere la battaglia politica sarebbe perdere la battaglia per la riconquista dell’identità.

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