Caravaggio e Hirst: il luogo della violenza

di Davide Racca

medusa.jpg Napoli presenta la violenza anche nei suoi musei più prestigiosi. Sembrerebbe un assurdo che luoghi deputati alla conservazione e fruizione di opere d’arte mantengano così viva nel proprio interno la carneficina che anima le cronache locali e nazionali e calcola il numero di nuovi aiuti militari sul numero sempre crescente di morti per camorra. L’arte, nonostante il suo statuto di sublimazione del vero su di un piano formale, in realtà coglie questo sentimento nel pieno della sua recrudescenza qui a Napoli.

Il Museo di Capodimonte e l’Archeologico sembrano essersi dati un appuntamento sinistro, quasi un compendio d’arte di ciò che attraversa la città nella sua infantile innocenza e immorale colpevolezza. Capodimonte offre più di venti tele del pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio del periodo 1606-1610 e l’Archelogico ospita una retrospettiva di quindici anni di lavori dell’artista inglese Damien Hirst. Entrambi gli autori rappresentano il male, la violenza divoratrice che sembra essere l’anima vera e pulsante del mondo. Ma il linguaggio e lo spirito dei due sono diametralmente opposti.

Caravaggio entra nei quartieri napoletani, racconta la violenza biblica come una vicenda quotidiana mediante l’urto della luce su corpi uscenti da una profondità buia e magmatica. I volti, come i corpi, sono l’espressione stessa di umanità, quando non miserabile, sofferente, urlante, carnefice, vittima e pietosa. Nelle sette opere di misericordia, un cadavere, di cui si scorgono solo i piedi, esce trasportato da uomini quasi a dirci che, la morte è sempre dietro l’angolo. E mentre nella Flagellazione di Cristo ai piedi di una colonna tre uomini si avvitano intorno al suo corpo in una spirale di pugni e nerbate, gli occhi dell’apostolo Andrea crocifisso si perdono nella cecità di uno sfondo di incerta penombra. Intanto, per ben due volte, la Salomé taglia il capo del Battista e il volto mostruoso di Golia gronda dalla mano di un giovane seminudo e scomposto. Entrare nelle sale al piano terra del Museo Archeologico è lo stesso che accedere in modo fortuito in un obitorio. La morte non soffre più, è già nello stadio di rigore. Il freddo si avverte come sangue bloccato nelle arterie. Un panno bianco ricopre i due cadaveri di Adamo ed Eva insieme ancora per l’ultima volta (Adam and Eve together again at least). Le mosche compattate con resine su supporti di compensato creano una superficie di ammassi e sedimenti come i corpi carbonizzati dagli olocausti, i genocidi, dal tifo e aids. Le pillole negli scaffali specchiano la desolata deriva dell’alienazione umana e le farfalle schiacciate nel colore dicono che è bello essere vivi (It’s great to be alive). Mille anni (A thousand years) di storia occidentale sembrano essere mosche che erodono la testa decollata di una mucca per finire morte nella tensione di fili elettrici. E poi la formaldeide, elemento per conservare parti anatomiche, sospende nella sua delicata azzurrità e pulizia sezioni di porci e, all’occorrenza, di agnelli e mucche.

Carvaggio nella drammatizzazione cruda ed estrema delle sue rappresentazioni offre spiragli di una moralità acuta e sentita. Nei bassifondi, lontani da un cielo confortante, c’è spazio per la carità di un seno di donna offerto al degrado delle prigioni. Qualcuno, per Hirst, ha parlato di memento mori come se tra morte e morte potesse esserci una qualche riflessione sulla vita. L’artista inglese usa bisturi di freddezza e non sembra entrare nel merito delle questioni. La sua è retorica di morte che non indulge al cinismo e si fa scudo di un atteggiamento tutto apparente di pulizia e obiettività: gelido, un po’ come ritrovarsi a mangiare una pizza dove il giorno prima un uomo è stato freddato.

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