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Storie di ordinaria ipocrisia

di Lea Melandri

In vicinanza del Natale si va generalmente alla ricerca di storie edificanti, per potersi convincere, almeno in quella occasione, che la bontà esiste. Quest’anno tuttavia la cronaca non sembra offrire alcun appiglio: catastrofi naturali, da cui è sempre più difficile escludere responsabilità umane, morte e violenze di ogni specie. Ma dal vasto repertorio di mali che affliggono ormai in modo endemico la nostra civiltà, emergono con giusta, anche se spesso male interpretata rilevanza, episodi che, pur nella loro particolarità di “fatti di vita”, appaiono sintomatici di un decadimento profondo del senso di giustizia, amore, solidarietà, rispetto dell’altro. Mi riferisco a tre notizie che, proprio perché fortemente contrastanti con l’edulcorata atmosfera natalizia, sono arrivate nei giorni scorsi alle prime pagine dei giornali, e che provocatoriamente mi verrebbe da chiamare “storie di ordinaria ipocrisia”.

Circa dieci giorni fa, nei pressi di Roma, viene scoperto un ospizio dove venti anziani, quasi tutti malati di alzheimer e demenza senile, erano tenuti in condizione di sporcizia, denutrizione, maltrattamenti vari, nessuna assistenza medica. La responsabile, al momento dell’arresto, dà una spiegazione che può suonare cinica solo se si prendono per buoni lo stupore e l’esecrazione di carabinieri, parenti, cronisti, di fronte a una barbarie che emerge periodicamente, a cadenze quasi regolari, cosicché nessuno può dire non averla già vista o immaginata. “Io faccio solo del bene a questi poveretti. Senza di me –dice- sarebbero in mezzo alla strada”. Non è una giustificazione, certo, ma forse meriterebbe di essere presa indirettamente come una scrollata a quel muro di ipocrisia che permette alle famiglie, alla collettività, alle istituzioni, di liberarsi di vecchiaie ingombranti, fingendo di non sapere cosa accade dietro i cancelli di una promettente “Villa Elisa”.

Se è vero, come hanno scritto i giornali, che i parenti visitavano i ricoverati una volta al mese, e che in quelle occasioni nessuno di loro si è accorto, per lungo tempo, dell’effetto dei sedativi e dei segni lasciati da lacci ai polsi e alle gambe, vuol dire che l’orrore ha quanto meno due volti connessi: l’abbandono e lo sfruttamento di persone bisognose e indifese, quali sono gli anziani non più autosufficienti, un residuo di popolazione mal tollerato e crescente, che va in qualche modo “rimosso”, in attesa che tolga il disturbo.

Un’intolleranza analoga colpisce tutti quei gruppi sociali che, agli occhi di una maggioranza produttiva, benestante e in salute, rischiano di apparire, per usare una bella espressione di Virginia Woolf, dei “disertori”, e cioè i poveri e i malati terminali. Sulla giovane rumena, che è stata trovata morta nel quartiere milanese di Niguarda, schiacciata dal coperchio di un cassonetto della Caritas contenente abiti usati, si è profuso da più parti un pietismo sentimentale colorato, per l’occorrenza, di venature favolistiche: il freddo di una notte prenatalizia, una “piccola fiammiferaia” povera e senza fissa dimora che, invece di spiare dentro le case dei ricchi l’intimità degli affetti, annaspa disperatamente tra i loro rifiuti. Una storia lacrimevole, che forse avrebbe fatto sorridere anche la protagonista, vittima due volte: dell’emarginazione ingiusta da parte delle istituzioni, e della disumana indifferenza di chi, avendola sentita gridare quella notte, non ha ritenuto di doverla aiutare, giustificandosi forse col pensiero, espresso pubblicamente dall’assessora milanese Tiziana Maiolo, che “era una ladra”.

Quasi negli stessi giorni è uscita la notizia che, in un ospedale di Lecco, un’infermiera ha provocato la morte, neanche tanto “dolce” stando agli effetti di iniezioni di aria in vena, a un numero di malati gravi che si sta aggiornando in modo impressionante: forse diciotto. Anche in questo caso, l’ “orrore” è di quelli che si rinnovano di tanto in tanto, e i giornali infatti ne danno con precisione un promemoria a lato della notizia. Ma la memoria evidentemente non aiuta, quando il gesto omicida, o se si preferisce la patologia individuale, interpreta alla lettera fantasie, desideri inconfessabili di tutti coloro -medici, infermieri, famigliari, amici- che sono chiamati ad aver cura di un malato, su cui pesa una sentenza di morte: affrettarne la partenza, rendergli più “dolce” un passaggio ormai inevitabile, strapparsi dal cuore un peso che la civiltà dei palestrati, delle “veline”, delle chirurgie estetiche pret-a-porter, dei “sopravvissuti” famosi di improbabili naufragi televisivi, hanno reso, se non giustificabile, comunque “comprensibile”. Nella raccolta di giudizi “clinici” più o meno attendibili sulla protagonista -bisogno di mettersi al centro dell’attenzione, di rendersi utile-, spicca quella del criminologo: si tratta, dice, di un’onnipotenza che si accanisce sui più deboli. Ci può essere una definizione più calzante per un sistema di vita che va dai massimi poteri economici, militari, politici del mondo fino allo sguardo che il più modesto dei cittadini getta sul mendicante di strada, augurandosi che quella vista inquietante possa essergli una mattina miracolosamente risparmiata? Come è possibile che in un ospedale passi così a lungo non vista una sequenza di morti “inspiegabili”, sebbene contrassegnate tutte vistosamente dagli stessi sintomi? Come può essere sfuggito allo sguardo premuroso di un parente l’improvviso aggravamento del malato?

Il Natale vicino accende nelle città luminarie annebbiate da uno strato denso di smog, rischiara le notti buie della campagna con alberi di lampadine, ma dove e quando non si vuole vedere, non c’è luce naturale o artificiale che conti.

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