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Il gatto e la farfalla

di Yoel Hoffmann
a cura di Davide Mano

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Il gatto e la farfalla è l’ennesimo splendido memoir dello scrittore israeliano Yoel Hoffmann. Il libro è suddiviso in trentotto capitoli stampati in solo recto, dove “le pagine lasciate volutamente bianche vanno intese proprio come margine grafico a disposizione delle parole, in modo che possano dilatarsi, impossessarsi di tutto lo spazio reso necessario dall’interpretazione che il lettore ne vuole dare” (Alessandro Guetta).
Yoel Hoffmann, studioso di poesia haiku, ha scritto sette romanzi e due raccolte di racconti. Rappresenta un unicum in tutta la letteratura israeliana: la sua opera viene definita “prosa per gli amanti della poesia, poesia per gli amanti della prosa”.

“Il gatto e la farfalla” è costruito come un caleidoscopio, è una spirale in cui la commedia umana di un’infanzia (vissuta tra Europa e Palestina) gira e rigira, fino a dare al lettore la sensazione di essere parte di un carosello privato in cui la magìa gioca un ruolo preminente. La memoria dell’io narrante sembra non esaurirsi mai, s’arricchisce continuamente di immagini mitologiche, mistiche, di flash fotografici, e di episodi macchiettistici in cui trova spazio anche la vena ironica dell’autore. In questo stato di sospensione, tocca al lettore interpretare. E non ne ha mai abbastanza.
Riportiamo un estratto dal libro (ancora inedito in Italia, negli USA è stato tradotto da Peter Cole per le edizioni New Directions, New York 2004):
[…]
Se sapessi dedicare un canto a mia madre, come quello che Allen Ginsberg ha dedicato a sua madre, certo lo farei. Una specie di kaddish proveniente da brani aggiunti in ritardo a quel grande libro che ha il suo principio nel principio. Con il suo nome. I bimbi morti che ha partorito, come un compositore cieco che porta alla luce permutazioni di lettere secondo l’odore del piombo. Il suo andare verso la morte, come un falegname dentro un mobile vecchio che egli stesso ha intagliato e ha limato senza guardare indietro una sola volta. Nel frantoio dei sogni lei si toglie il grembiale bianco ed io posso vedere che è una donna snella. Un gatto cieco mi segue e mi è difficile chiederle: “Ti è stata dura partorire?” e “Che ora è ora?” Prendi i maccabei e l’elefante nel libro di storia, e svegliati sù, alzati, donna senza vita, se almeno avessi lasciato un collo su cui far affidamento. Spiegami l’aria. La pioggia. Il movimento della mia bocca quando parlo e lo sguardo meravigliato della gente diversa, che si stringe in piccoli gruppi come in un raduno di cuaccheri nel lungo e largo di questa piana Aravà. Pronunciano parole confuse come “se” o “o” nonostante non ci sia proprio niente da dire per dar prova di queste visioni: un cielo e un altro cielo avvolto in esso, e le stelle tutte riunite nell’intimo spazio.
Chiamerei i tuoi vestiti per nome. Un vestito numero uno, ossia l’abito delle capre lontane. Un vestito fatto di tessiture bianche e rosse. Lo si potrebbe chiamare l’abito del tavolo del caffè. Un vestito trasparente, numero sette o otto. Un vestito chiamato l’ultimo, in cui ancora si riconoscono i tanti corpi che hai avuto. Oppure potrei contare le membra: un piede. Un piede. Un piede. Un’ascella che si dice armpit. La tavola del cuore. Pori, o forse no. Capelli. O forse nemmeno questi. Dieci dita dei piedi fino al termine dell’anima e tutto il resto come a Pompei, dove sono rimasti solo gli affreschi: una donna in una tinozza da bagno, sul suo capo un’upupa.
Potrei raccontarti della gran quantità di finestre che ho visto dopo la tua morte. Sei e ancora sei, e in ogni finestra il piccolo Avremale con sua madre che gli dava da mangiare con un grande cucchiaino portato da Theresienstadt. Ed un gelso nella corte e sotto il gelso gattini appena nati, persino il signor Rimalt [un illustre rappresentante del sionismo mondiale] divenne uno statista su quel grande palco, lontano da te quanto i corpi celesti. Ho visto anche la signora Yoel nascondere una bottiglia di succo di lampone negli angoli della credenza. In tutta la via Rav Kook, solo lei diceva Hambursh [quando parlava di Hamburg]. Qualcosa di mia madre, il suo bacino. Il suo bacino aveva qualcosa di simile a un ombrello ma, dato che i tedeschi perseguitavano le mogli degli avvocati e le donne che si allargavano in basso, lei seppe districarsi bene in mezzo ai venti del tempo.
Ho visto anche il sarto che si cuciva dei pantaloni eterni dalla pianta del piede in su. Una grande trasparenza era entrata nella macchina da cucire Singer, posta nel mezzo del negozio come un altare antico per i sacrifici degli uomini: sulla parete c’erano i tagli dei vestiti che non erano stati finiti, e la gente andava in segreto a cambiarsi d’abito. Come si chiamasse il sarto, tutti coloro a cui potevo chiederlo sono morti. [Lo potremmo chiamare Schneider Schneider Kim Aroys, come si può chiamare una lumaca, e subito lui se ne uscirebbe fuori agitando un righello.]
In quel tempo la settimana aveva ancora sette giorni. Il primo giorno era il giorno della colomba. Dalla casa del piccolo Hanan provenivano innumerevoli colombe del colore del vino. Questi uomini primitivi, grandi come una tortora, vagavano di albero in albero, un mare superiore di colombe, quasi l’anima della terra galleggiasse nell’aria. Il secondo giorno era il giorno del corvo. E’ il corvo che fu creato dalla mia infanzia fino ai libri superiori di storia, e che gridava solo per me il Nome ineffabile. Il terzo giorno era il giorno di alta e bassa marea. Potevo vedere il cuore della nuvola andare e venire nelle acque superiori. Il quarto giorno era il giorno del grande sonno. I due tempi passati si riunivano a metà strada finché non si annullavano. L’altro suo nome era il giorno dell’equilibrio. Il quinto giorno era il giorno dello schiarirsi del sole, nel quale il sole vestiva la faccia della luna e così fino alla fine del sesto giorno, l’ultimo giorno nel computo dei volatili; l’ossatura del cielo è il giorno che lo precede. Il sabato era il giorno della mia vita, perché in quel giorno mi giravano intorno due porcellini d’India, maschio e femmina, i loro occhi sembravano bottoni neri e la loro saggezza era più profonda dell’infinità dei tempi.
So che hai vissuto come imprigionata nell’ombra di mio padre, egli viveva per lungo tutta la sua statura, che quando lui stendeva le mani una mano era più bianca dell’altra, come al telefono quando ha detto Andreas ma si è persa la parte finale della parola. Vari segni sono venuti a insegnarmi, come campane d’allarme, che la tua morte è stata un gesto di grazia che si è capovolto nella mia vita. Perché non era proprio possibile contenere tutte le lettere della parola “grazia” in un corpo solo.
[…]

Da “Il gatto e la farfalla” (tit. or. Ha-shunra we-ha-schmetterling) di Yoel Hoffmann
Traduzione dall’ebraico a cura di Davide Mano (hidud@libero.it)

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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