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L’uomo con l’impermeabile #3

Gloria e tragedia dell’esibizione

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di Tiziano Scarpa

Una parte dei casi clinici di esibizionisti raccolti da Krafft-Ebing riguarda gli epilettici, affetti da intermittenze della coscienza. Molti di loro si esibiscono in stato di trance, oppure non ricordano affatto di aver compiuto quegli atti, è come se si risvegliassero da un mancamento. Questa caratteristica non è marginale: ci dice che il gesto dell’uomo con l’impermeabile si sottrae al racconto: non è storico, ma iconico. Non è romanzesco ma lirico. La sua natura è il lampo, l’epifania fulminea; non la storia, non il racconto. Non esistono epopee dedicate all’uomo con l’impermeabile. La sua è una vicenda istantanea, che brucia nel fotogramma, non nella sequenza. Al massimo è una dialettica duale, discreta, digitale, fondata su Zero e Uno, impermeabile chiuso / impermeabile aperto.

Non esistono narratori dell’uomo con l’impermeabile: eppure la struttura dell’esibizionismo potrebbe corrispondere a quella della suspense. Dipende da come la si narra: dal punto di vista del passante ignaro che cammina pensando ai fatti suoi, incontrare un tale che si denuda all’improvviso è un colpo di scena. Dal punto di vista dello spettatore hitchkockiano, si tratta invece della tipica scena di suspense: noi spettatori ne sappiamo di più di tutti i personaggi del film: sappiamo che il passante sta per incappare nel rapinatore che lo aspetta dietro l’angolo; sappiamo che la fanciulla sta per incappare nell’esibizionista che la attende dietro l’angolo. Ma in generale, non ci sono narratori dell’esibizione. Perché l’esibizione manca di storia.

Di questa categoria (storie di esibizionisti, o meglio: storie della sequenza strettamente esibizionistica; giacché di anamnesi e casi clinici narrativi di esibizionisti ce ne sono a centinaia) conosco soltanto una geniale tavola del disegnatore Mordillo. Poche vignette. Nella prima, l’uomo spalanca l’impermeabile davanti a una passante. Nella seconda vignetta, la donna risponde spalancando inaspettatamente il proprio, di impermeabile. Nella terza, l’esibizionista è stramazzato al suolo dallo spavento.

Una volta ho assistito alla performance di un esibizionista. All’inaugurazione di una mostra dell’artista Fausto Gilberti, ai visitatori veniva concesso di entrare uno per volta dentro una stanza. Dentro c’era un giovane uomo dallo sguardo obliquo, corrucciato. Apriva l’impermeabile di scatto e si mostrava nudo. Sulle falde dell’impermeabile, all’interno, sulla fodera, erano appesi alcuni disegni dell’artista. L’attore che impersonava l’esibizionista era molto in gamba, riusciva a sorprendere il visitatore, e tuttavia l’idea di quella performance proponeva uno spostamento di paradigma piuttosto discutibile: come visitatori dell’esibizionista, eravamo pur sempre in una situazione istituzionale, stavamo facendo visita a una scena, come quando si va a teatro. Ma quando compie le sue scorrerie nelle strade, è l’esibizionista a venire da noi: è il teatro che viene a farci visita!

“Si parla di esibizionismo per ogni comportamento motivato dal piacere di essere guardato e considerato. In questa accezione l’esibizionismo si estende anche alle donne il cui desiderio di essere guardate, anche se socialmente accettato, è interpretato psicoanaliticamente come un derivato dell’invidia del pene, per cui si ha bisogno di provare che si ha qualcosa, a dispetto del fatto di non avere il pene”, scrive Umberto Galimberti nel suo Dizionario di Psicologia.

Ma la caratteristica che mi interessa qui, come dicevo, è la istantaneità non narrativa del gesto esibizionistico, l’iconostasi dell’istante, la gloria raggiante, e contemporaneamente l’istanza contemplativa che essa chiama in causa, la gloria che si installa nell’ordine del tempo. Il flusso temporale si spezza in un punto, le falde dell’impermeabile aprono due grandi labbra vaginali, due fauci (come nelle performance stradali di un altro artista, Giorgio Spiller, che girava per le strade ammantato in un costume da sesso femminile): la visione viene inghiottita.

Non c’è un prima né un dopo. È un momento di choc. È il sublime, l’epifania, la claritas, lo spavento estetico, lo straniamento. È il teatro di strada. È l’agguato situazionistico. È il genius loci, è la somatizzazione psicogeografica, il tabernacolo ambulante, l’edicola cultuale da marciapiede, l’ex voto estemporaneo, per la strada. L’uomo con l’impermeabile viene posseduto dall’istante, è un devoto del momento, del momento apicale. Più che un colpo di scena, compie un colpo di tempo.

E, più in generale, la sua azione contiene tutte le declinazioni del colpo, e del colpire. Il suo è un colpo da rapinatore, un colpo di scena, un colpo d’occhio, un colpo di tempo, un colpo di stato della visione e della nudità che soverchia per un istante il regime del nascondimento, dell’ipocrisia. È colposo e colpevole, irresponsabile e condannabile. Senza colpo ferire, ci colpisce: sbalordisce, rende attoniti, sbigottiti; spaventa.

Quando guardo un essere umano

Quando guardo un essere umano cosiddetto disabile non riesco ad astrarmi dalla sua condizione. Gli parlo, ma non posso fare a meno di pensare continuamente: “Come stai male. Che sfortunato, che sei. Per fortuna che non sono te. Speriamo che a me non capiti mai una cosa simile.” È più forte di me. Non sono capace di mettermi in relazione con un disabile astraendo dalla sua condizione, installandomi direttamente nel suo mondo espressivo, liberato dalle zavorre dei suoi limiti. Non riesco a fare a meno della compassione, e dello spavento.

Al liceo, nel mio quartiere viveva un ragazzo che aveva una malattia che gli rammolliva le ossa. La sua struttura scheletrica era sempre più debole. Aveva qualche anno più di me, frequentava un’altra classe, ma andavamo a scuola insieme, a Venezia, ogni mattina, con altri compagni, sollevavamo la sua carrozzella sui ponti. Chiacchieravamo. Era difficile per me, difficile stare a sentire quello che mi diceva e basta, stare a sentirlo per quel che mi diceva. Ogni volta, quando lo salutavo e correvo su in classe, mi sembrava di scappare via da una relazione sbagliata. Impostata nel modo sbagliato. Era tutto sbilanciato: non c’era espressione, ma quasi soltanto condizione. Per colpa mia: non concedevo al mio compagno di scuola un’espressione, ma soltanto la sua condizione. Perché questa condizione saltava troppo agli occhi. Non riuscivo a ridimensionarla, per fare spazio anche ad altro.

Forse per questo ancora oggi non riesco a frequentare i disabili. Come vanno guardati, i disabili? È possibile inventare uno sguardo nuovo, per tutti, disabili e no, che tenga insieme la condizione di chi mi parla e la sua espressione? È una situazione possibile soltanto nel teatro, dove un attore è personaggio senza smettere di essere sé stesso?

Inchiodare gli esseri umani alla loro condizione significa non concedere loro un’espressione. Esprimendoci, noi non diciamo semplicemente ciò che siamo, ma abbiamo la possibilità di trascenderci, di travalicare noi stessi. Inchiodare l’interlocutore alla sua condizione è la mossa dell’imperialismo culturale, che esotizza l’altro: vede nelle arti delle altre nazioni, delle altre culture soltanto esotismo, folk, reperto etnologico, tipicità. È la faziosità politica, che non vede nelle proposte degli avversari ciò che è utile al bene comune, ma solo la matrice partitica da cui proviene. È anche la mossa del paternalismo, e delle generazioni al potere, che vedono nelle nuove espressioni soltanto una condizione che afferma sé stessa, la condizione giovanile: è lo sciagurato aggettivo giovane appioppato agli artisti, agli scrittori, ai registi contemporanei, inventato dalla nostra epoca, aggettivo che dimostra quanto essa esotizzi sacche enormi dell’essere umano e non consideri l’espressione nel suo valore puro. L’etichetta di provenienza si mangia tutto lo spazio: sarebbe come bere un vino pretendendo che si sta bevendo letteralmente la terra, la zolla che l’ha prodotto.

Una condizione che non afferma nient’altro che sé stessa: il che è ancora peggio di una tautologia. Una tautologia dice “una rosa è una rosa”, ma presuppone comunque che ci sia qualcuno che parla e indica una cosa all’esterno di sé e riesce a riconoscere e nominare la rosa, cioè qualcos’altro rispetto a sé stesso; mentre una condizione che afferma sé stessa è condannata a dire “io sono io”. È una tautologia riflessiva, che imprigiona il parlante nel contenuto del suo stesso dire e lo affossa in una coazione egologica autistica. Come gli alberi descritti da Francis Ponge, che ogni primavera si sforzano di parlare, ma riescono a ripetere sempre e soltanto una parola, milioni di volte, sempre e soltanto la stessa foglia: “Non sanno dire nient’altro che: gli alberi”. Ridurre il discorso dell’altro alla pura espressione della sua condizione significa non concedergli la possibilità di parlare di qualcosa che va al di là di sé stesso. Immaginate la nuvoletta di un fumetto che riproduca perfettamente il profilo di chi la sta pronunciando, e il testo che contiene sia fatto dalla ripetizione del suo nome…

Karol Wojtyla forse dovrebbe dimettersi da papa perché ormai pochi ascoltano le sue parole: tutti fissano sgomenti la sua condizione di povero decrepito che lotta sillaba su sillaba per conquistare la pronuncia sempre più liquefatta di una frase. O forse no, Wojtyla fa benissimo a restare dov’è: da un punto di vista creaturale la sua è una scena esibizionistica impareggiabile, l’ostensione di un corpo che sopraffà la messa in scena dei propri paramenti, e non per espansione superomistica, come il supereroe mutante dei fumetti, Hulk, che si trasforma gonfiandosi, lacerandosi gli indumenti, bensì per sottrazione, per rinsecchimento larvale; una voce che ha la meglio sul proprio messaggio per svuotamento, corrodendolo dall’interno.

Che cosa pensate, voi, quando guardate qualcuno che vi parla? Che cosa state pensando, mentre vi parlo? Che sono pelato? Che ho perso i capelli per una malattia, per questioni ereditarie, per un eccesso di ormoni, per una permanente punk sbagliata? Oppure state facendo spazio benevolmente alla mia espressione, vi siete concentrati sulle mie parole, state pensando che quello che vi sto dicendo non ha né capo né coda?

(3 – fine)

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Letto al convegno di chiusura di d.verse, Primo Festival Internazionale del Teatro per le Diverse Abilità, Genova, novembre 2004.

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