La vanitas di Damien Hirst

di Sergio Garufi

finch10-4-1s.jpg“Le immagini di mattatoi e di carne mi hanno sempre molto colpito […] Che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria mi meraviglio sempre di non esserci io, appeso lì, al posto dell’animale”.
Francis Bacon, La brutalità delle cose, 1991.

Ha ragione Anna Detheridge: “Damien Hirst è più antico di quanto non sembri”; e l’allestimento della sua prima retrospettiva al Museo Archeologico di Napoli, intitolata Il Tormento e l’estasi, suggella la sua appartenenza ad una genealogia illustre e secolare. Il tema centrale della sua produzione è quello della vanitas, intesa come totale soggezione di ogni cosa terrena al potere del tempo e della morte. Hirst, l’artista trasgressivo e scandaloso idolatrato dagli happy few e detestato dai benpensanti, è in realtà un conservatore; perché l’ossessione della carne sta alla base del pensiero reazionario e sancisce l’ineluttabilità del destino dell’uomo.

Perfino la presenza, all’inaugurazione della mostra partenopea, di rockstar, divi hollywoodiani e tutta la bizzarra fauna del jet-set internazionale ne è in fondo il giusto coronamento. A chi si rivolgeva il teschio anamorfico di Hans Holbein il giovane? Chi deridevano, con particolare e sadico accanimento, gli scheletri sghignazzanti delle danze macabre? Ogni sua opera, anche quelle considerate più truculente e raccapriccianti, tacciate di essere epifanie dell’orrore teratologico, allucinazioni da tassidermista che istigano a un morboso voyeurismo, affonda le sue radici nella tradizione del memento mori barocco, e con questa condivide lo stesso repertorio teatrale di immagini e simboli ed il medesimo sentimento tragico della vita terrena di fronte alla morte.

“Non c’è progresso nell’idea della vanità del tutto”, sentenziava Cioran; e così, di primo acchito, la massa di riferimenti all’iconografia storica è tale da suonare come una verifica incontrovertibile di quella sentenza. Le mosche dei monocromi neri e di A Thousand years apparivano pure negli spartiti del Baschenis, nel teschio del San Girolamo di Van Roemerswael e nel Vaso di fiori di Bosschaert (oltre che nei recenti angeli di Jan Fabre). Anche il tema dei mozziconi di sigarette trova un preciso riscontro nelle pipe delle nature morte di Gerrit Dou e di David Bailly; rispecchiando fedelmente l’origine etimologica del termine ebraico hével (da cui deriva il latino vanitas), che Ceronetti traduce con fumo, vapore, inconsistenza. A ben vedere, finanche le icastiche immagini obitoriali e Hymn, il colosso bronzeo dalla policromia squillante, discendono dalle stampe secentesche di anatomia, non di rado corredate da massime moraleggianti quali inevitabile fatum. Potentemente espressive, pur nella loro asetticità, le teche con i medicinali allineati, illusorio paradiso farmacologico contro gli aspetti degenerativi del corpo; anch’esse in fondo una variante dell’Et in Arcadia ego.

Ben più attuali sono i tavoli d’ufficio compressi in scatole di vetro, metafora di quella vita canarinizzata e claustrofobica su cui già ironizzava Gadda decenni orsono. Se da un lato – e per esplicita dichiarazione di Hirst – l’idea del vetro (ma anche quella dell’inscatolamento e della carne) è ricavata da Bacon, con tutta evidenza il suo più immediato e riconoscibile maestro, e mira ad ottenere un effetto di distacco quasi funereo fra l’opera e lo spettatore, dall’altro la prossimità della scatola trasparente con il desco trasmette un senso di oppressione e un desiderio di fuga tipici di una società intimamente consapevole della propria condizione di asservimento, tanto da definire tempo libero quel poco che resta fuori dell’orario di lavoro. In ogni caso, e pur non attingendo a simboli espliciti come orologi, candele e clessidre, è ancora il tempo, il sentimento del suo trascorrere inesorabile, il tema chiave della sua poetica. Come ne Le tre età, per esempio, in cui all’interno del box di cristallo vi sono dei giocattoli per terra e due tavoli, uno ordinato e professionale e l’altro caotico e senile, col posacenere, gli occhiali, il vaso con la dentiera e gli avanzi di cibo sul piatto che ricordano tanto le mense di Spoerri (e a questo proposito Laura Kreyder segnalava argutamente che reliefs, in francese, significa sia resti, cioè avanzi di un pasto, che rilievi, sculture).

Le rappresentazioni di porzioni di vita quotidiana, il senso di vissuto che emana da quegli oggetti, presuppongono o vaticinano l’idea della sparizione e della morte dell’uomo. Un’osservazione di Argan sul significato intrinseco del memento mori sottolinea come “la presenza o emergenza delle cose implica l’assenza degli uomini”. Questa riflessione rinvia all’attenta lettura di Tano Festa dei Coniugi Arnolfini di Van Eyck, quando affermava che “il vero protagonista del quadro è il lampadario, perfettamente immobile, come se nulla, nemmeno un forte vento, potesse farlo oscillare. Questo lampadario incombe sulle figure degli Arnolfini come qualcosa che sta a misurare la durata e quindi il limite delle loro esistenze. Pensai con tristezza che gli Arnolfini sarebbero scomparsi molto prima del lampadario, che da quella scena sarebbero stati i primi ad uscire, mentre gli oggetti sarebbero rimasti ancora per lungo tempo al loro posto, testimoni muti e impassibili delle loro esistenze”. Forse, le tracce mnestiche di Hirst testimoniano la vana aspirazione dell’uomo defedato a sublimarsi fino alla grazia e all’innocenza dell’inorganico, la volontà di sottrarsi al proprio destino elevandosi al rango di cosa. Una sorta di invidia per la loro superiore resilienza; concetto che per gli oggetti determina la capacità di resistere a un urto senza rompersi, e in psicologia definisce l’attitudine necessaria per uscire dalla spirale del dolore.

Nella lunga intervista inclusa nel catalogo edito da Electa, l’artista inglese afferma: “Non ho mai pensato a questi lavori come violenti. Li ho sempre visti come molto tristi. C’è una sorta di tragedia insita in quei pezzi”. Forse è per questo che le creazioni più incisive di Hirst, quelle che meglio esprimono il weltschmerz, l’irredimibile dolore del mondo, restano le più note, scandalose e macabre: gli animali in formaldeide. E qui, più che altrove, si comprende quanto profonde e universali siano le radici della sua arte. Per André Bazin, “all’origine delle arti plastiche vi è la pratica dell’imbalsamazione. La religione egizia faceva dipendere la sopravvivenza dell’uomo dalla perennità materiale del corpo, perché fissare artificialmente le forme carnali dell’essere significava strapparle al flusso della durata, ricondurle alla vita”. La prima statua egizia è la mummia dell’uomo conciato e pietrificato, e la genesi religiosa della statuaria rivela la sua funzione primordiale e soteriologica: salvare l’essere mediante l’apparenza. Con le sue oscene bestie tassidermizzate – oscene perché rappresentate secondo il metodo della drammatizzazione, della messa in scena di una violenza simbolica –, Damien Hirst ritorna alle origini, quasi per attingervi un’energia che i secoli avevano estenuato. hirst_shark.JPGAssente il notissimo squalo, icona totemica e ipostasi dell’angoscia contemporanea, così vividamente inquietante anche perché inserito all’apparenza nel proprio habitat naturale, il posto d’onore nella rassegna napoletana spetta a Mother and child divided: due vasche contenenti le sezioni di una mucca e di un vitello immersi nel liquido che ne differisce l’attimo fatale del trapasso. Non altrettanto efficaci, invece, mi sembrano le composizioni entomologiche, in cui le farfalle, ennesima declinazione del tema della vanitas come allegoria della condizione decidua della vita e della bellezza, si dispongono per accostamenti cromatici che producono effetti psichedelici simili a quelli delle opere più esangui ed afasiche di Sol LeWitt.

Ma Hirstsi discosta significativamente dalla tradizione barocca della vanitas non solo per aspetti meramente formali, come l’iperrealismo del ready-made duchampiano. Se nell’iconografia seicentesca la rappresentazione degli oggetti era subordinata al fine moraleggiante del quadro, che costituiva insieme un monito e un’esortazione, nell’artista inglese il memento mori è ora interamente laico e secolarizzato, sottratto a ogni ricatto pedagogico. Certo, le opere d’arte di Hirst mostrano la vanità delle cose terrene e dunque, in qualche modo, anche di se stesse, offrendo nello stesso tempo un’immagine duratura sebbene illusoria della realtà, che sfida la transitorietà della vita nel medesimo istante in cui l’afferma. Tuttavia qui la morte non è legge decretata da Dio, metafisico redde rationem, bensì potenza autonoma, limite naturale. In questo senso, la coscienza del nulla e della propria finitudine possiedono in Hirst una valenza pagana – quella dei tragediografi greci secondo cui “la vita è un attimo di luce fra due eternità di tenebra” –, e trovano l’unico àmbito di possibilità proprio nella dimensione storica e contingente della singola esistenza individuale, cioè a dire in quel fugace e abbacinante attimo di luce. Solo lì, sembra dire Hirst, possiamo giocarci le nostre chances; essendo consapevoli che l’incipit de l’Ecclesiaste è una verità tanto inconfutabile quanto impraticabile.

Damien Hirst
Il Tormento e l’estasi
Mostra Antologica 1989 – 2004
Napoli, Museo Archeologico Nazionale
fino al 31 gennaio 2005

Pubblicato su Stilos, gennaio 2005.

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3 Commenti

  1. Per restare, più o meno, in tema.
    Al MART di Rovereto c’è una bella mostra: “il bello e le bestie”.(www.ilbelloelebestie.it)
    Metamorfosi, artifici e ibridi. Opere classiche e videoart, Bacon e Cattelan, pitture, sculture, fotografie… anche se, forse, ho trovato la cosa più bella della mostra il video-antologia di mostri cinematografici.

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