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Su Fiona di Mauro Covacich

di Tiziano Scarpa

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È appena uscito nelle librerie Fiona, il nuovo romanzo di Mauro Covacich pubblicato da Einaudi. Ho potuto leggerlo con un certo anticipo e avere il tempo di meditarlo; ho scritto gli appunti che presento qui.
Mi scuso della lunghezza di questo scritto, che d’altronde è in proporzione alla mole di riflessioni che Fiona ha suscitato in me: si tratta di un romanzo che affronta in maniera appassionante e profonda un gran numero di situazioni cruciali del nostro tempo, perciò meritava una risposta non frettolosa.
Attenzione: vi avverto che per analizzare il romanzo non ho potuto evitare di svelare alcuni nodi della trama che rischiano di rovinarvi la lettura del libro. Grazie della pazienza.

Prendete un quotidiano di questi giorni, dal primo all’ultimo foglio, connettete narrativamente le pagine, immaginate una vicenda che le unifichi e le correli tutte e ricavatene il succo morale.

È ciò che fa questo romanzo: una specie di spremuta di un telegiornale di oggi, un succo drammaturgico ed etico, un concentrato di senso: prima pagina: i kamikaze, gli attentati di Unabomber; pagina di società e costumi: il problema delle adozioni, il decremento demografico, l’ideologia del successo, pagina della cultura: il monachesimo esicasta bizantino; il matrimonio come formula storicamente superata; pagina degli spettacoli: il reality show

Il protagonista, Sandro, è autore televisivo di un reality show, Habitat, un equivalente del Grande Fratello. Fra i concorrenti c’è un paraplegico. A sorpresa una delle concorrenti ha un rapporto orale con lui. La scena verrà trasmessa in tivù, susciterà scandalo ma anche plauso.

Le discussioni del team di autori di Habitat riguardano sempre un negoziato fra il riscontro degli ascolti, i dati di audience, e la reazione dell’opinione pubblica. Sandro è anche padre adottivo di una bimba haitiana che rasenta l’autismo: morde i coetanei e Sandro stesso, non accetta baci, carezze, si esprime a grugniti. Sua moglie è una docente di storia bizantina che si sta ingiallendo con quotidiane ordinarie overdose di nicotina e studio.

Questa è la faccia “diurna” del protagonista, che di nascosto prepara ordigni esplosivi da mettere nei supermercati del Nordest: i consumatori perdono la vista, qualche dita, l’uso degli arti, anche se non rimangono mai uccisi. Il romanzo insomma afferma: il male è unico, chi di giorno lavora a ideare tivù spazzatura, di notte prepara le bombe. Ma questa lettura è semplicistica.

Il sabotatore infatti non è un emarginato: ha preso il posto del potere, è installato nelle stanze stesse del potere. O meglio: del sistema. L’autore del programma televisivo di maggior successo fa guadagnare i maggiori introiti pubblicitari alla sua televisione. È un intellettuale raffinato. È consapevole di tutto. L’unica zona d’ombra, il punto cieco, la reticenza di consapevolezza etica è sulla sua attività di bombarolo: il protagonista ci spiega qualsiasi cosa, tranne perché mette le bombe nei supermercati.

Forse lo fa per entrare anche lui nell’”habitat” televisivo che ci ammanta ormai ovunque, anche se non partecipiamo a nessun reality show: parlo delle telecamere di sorveglianza, l’occhio panottico antifurto degli ipermercati, sotto il quale il sabotatore colloca i suoi esplosivi, visibilissimo e indistinguibile, esposto eppure non smascherabile. È una sfida all’Impero del Visibilio, la sua; lui che del Visibilio è uno dei funzionari (dei finzionari) più solerti.

Forse lo fa per scontare la sua colpa di erogatore di finzioni, per farsi catturare anche lui, per farsi cogliere sul fatto in flagranza di evento. I concorrenti di Habitat producono fatti della vita, le loro vicende di relazione, sentimentali, le loro dinamiche di gruppo sono prodotti sceneggiati dallo staff di autori o escogitati personalmente a tavolino dai concorrenti stessi, prodotti esistenziali spacciati per eventi, per cose che accadono senza premeditazione spettacolaristica. Il sabotatore Sandro invece esegue un esibizionismo paradossale, “mostra di nascosto” la cosa vera, l’evento inoltrepassabile, la devastazione che buca lo schermo. Oltre che ferire i clienti, il suo evento spacca l’occhio della telecamera e nebulizza la visione.

Ma questa necessità compulsiva sembra emergere dal paesaggio stesso: è descrivendo il paesaggio, i centri commerciali, la squallida urbanizzazione consumistica (che Sandro attraversa in macchina nei fine settimana da Pordenone a Milano, e ritorno) che vien voglia di far saltare questo sistema di vita, questa estetica ed etica ed economia esistenziale…

La televisione stessa si pone come televisione d’avanguardia; uno degli autori collaboratori di Sandro propone significativamente di spacciare il rapporto orale andato in onda in diretta per una performance artistica: l’osceno è l’unica cosa che valga la pena di essere mostrata, e la televisione è l’unica a farlo, fa cose che non riesce a fare più nemmeno l’arte contemporanea.

La tivù mostra le conseguenze in atto delle premesse ideologiche della società, del multiculturalismo di facciata, del politicamente corretto: se il concorrente paraplegico è uguale agli altri, allora non va compatito, bisogna considerarlo colpevole e punirlo come si farebbe con qualunque altro: ha tradito uno degli altri concorrenti accettando l’offerta sessuale della fidanzata di quest’ultimo: perciò, va punito con una rappresaglia notturna: e punirlo vigliaccamente, approfittando della possibilità di immobilizzarlo senza fatica (è paraplegico), significa considerarlo uno come gli altri, uno normale (che può difendersi), con sublime correttezza politica… E infatti i concorrenti maschi lo pestano in tre, caricandolo di pugni sul torace perché non si vedano i segni sul volto…

Anche la fidanzata traditrice va trattata per come lei stessa si è posta: come prostituta di tutti. Negli ultimi giorni di Habitat i concorrenti maschi rimasti in gara la costringono a diventare la loro schiava sessuale. Ovviamente questa logica è deformata dal fatto che le premesse non sono affatto innocenti: i personaggi sono concorrenti, sono persone che si sono messe alla mercè delle telecamere, per avere successo, e non semplicemente per innamorarsi fra di loro o tradirsi o odiarsi; la ragazza non ha offerto un rapporto orale al paraplegico per altri motivi che quello di farlo giustappunto sotto gli occhi delle telecamere….

Il romanzo presenta uno schema di doppia identità come avevamo visto in American Psycho, e Confessioni di una mente pericolosa: chi massacra fanciulle di notte è la stessa persona che di giorno gioca in borsa e veste Armani; chi elimina i comunisti in Europa e rovescia le democrazie in Centroamerica è lo stesso che presenta in tivù La corrida e Il gioco delle coppie… La responabilità morale è equivalente e interscambiabile. La regola narrativa è quella di Edward Morgan Foster: “Only connect” (cfr. l’epigrafe a Casa Howard). Far tornare i conti. Unificare. Tracciare il disegno della costellazione basandosi sulle stelle visibili e interpretarle come correlate. Il romanziere offre una spremuta di epoca, il suo distillato, il suo senso unico.

Ma il senso è unico?

Si esce un po’ scorati dopo la lettura di questo romanzo dalla scrittura assolutamente superba. Mi spiego e sciolgo la frase precedente, troppo sintetica: volevo dire che lo scoramento non viene certo dai limiti di scrittura, di sapienza narrativa, di godibilità di lettura del libro (tutti al massimo grado di eccellenza). Non viene da alcun difetto (non ce ne sono) del romanzo. Il dispiegamento di forze, di controllo stilistico, di fantasia, di inventiva è al massimo livello: basti menzionare anche solo gli episodi secondari: il cinese a Milano che si offre come punching ball umano per la strada, non vende carabattole ma tre minuti di passività: a prezzi modici i passanti possono sfogarsi su di lui, pestarlo; e poi l’immagine di Gesù Bambino crocifisso messo sulla porta dell’ufficio dei creativi televisivi per celebrare il Natale…

Mi soffermo sulla scrittura: mai o quasi mai sopra le righe; il suo intento non è quello di mostrare i muscoli, di esibirsi sciantosa, di arzigogolare stilisticamente. Le definizioni e le descrizioni sono precise: ma proprio perché si tratta di descrivere con precisione fenomeni nuovi, oggetti contemporanei ancora poco frequentati (almeno in letteratura), la loro descrizione risulta giocoforza straniata, interessante, sorprendente (è un complimento, questo che sto facendo). Così lo scrittore non ha bisogno di straniare, perché lo straniamento è già nella oggettività della descrizione stessa che, mobilitando tutta la sapienza retorica della precisione, ottiene risultati artistici dissimulando qualsiasi artisticità deliberata. Questo, tra l’altro (mi permetto una digressione che riguarda le mie ipotesi di ricezione della scrittura, e non dell’argomento – degli argomenti; sono molti – di questo libro, che coglie tutti i temi caldi della contemporaneità e perciò si presterà a essere dibattuto dai media), farà sì che presso i lettori medi ci sarà probabilmente una certa difficoltà nella lettura: nonostante non ci sia nessuna prosa d’arte, se ne ricava una prosa d’arte di secondo grado (quindi vera, poetica, letterariamente autentica, splendida – è ancora un complimento, questo), che tuttavia richiede una specie di doppio salto mortale per riportare la lettura alla posizione normale: una naturalezza riconquistata per doppio artificio. Si procede camminando “naturalmente” come una persona che sia consapevole di tutti i movimenti dei propri tendini, muscoli, articolazioni e ossa, come qualcuno che possa contemporaneamente sentirsi da dentro e vedersi da fuori: stupendo dal punto di vista conoscitivo per un lettore esigente; difficoltoso per un lettore che vuole sapere come va a finire e basta.

Ma voglio fare un unico esempio della attitudine mirabilmente prensile di questa prosa, che riesce a prendere dentro tutto e, con mezzi apparentemente semplici, ottiene risultati stranianti, che per risultare naturali necessitano di una erogazione di energia (quindi di fatica), causata dallo stupore che essi stessi provocano (una specie di inaudito dell’ovvio).

Ecco qui: “le bacche dei lecci tra i quali mio padre stendeva l’amaca scoppiettano come imbottitura da impacco sotto i pneumatici dell’Audi”.

Esaminiamo questa similitudine. Il percorso è dall’ignoto al noto: una porzione di natura (le bacche dei lecci) è diventata ignota per noi lettori, e per figurarcela ci viene proposta la similitudine con qualcosa che conosciamo bene (la plastica a bolle da imballaggio). Il fenomeno che si tratta di descrivere è il rumore che fanno le bacche dei lecci sotto i pneumatici di un’automobile (un elemento naturale si rende percepibile in una situazione innaturale): anche questa è una percezione sonora curiosa, strana. La descrizione è perfetta, elegante, fila via liscia, è ottenuta con sobrietà assoluta di mezzi e precisione lessicale senza fronzoli: ma presuppone questo doppio salto mortale cognitivo: percezione uditiva curiosa rappresentabile attraverso un passaggio dall’ignoto al noto, mediante il quale passaggio scopriamo con stupore che ci è più noto un elemento artificiale (le bolle di plastica) di un elemento naturale (le bacche) – benché questo elemento naturale sia per la verità sottoposto a un trattamento innaturale (la pressione sotto i pneumatici).

Ricapitolando: due fenomeni innaturali ci vengono proposti e comparati: scoppiettio di bacche sotto i pneumatici e scoppiettio di bolle di plastica (che tutti abbiamo fatto esplodere oziosamente, per curiosità, per gioco, per godere della novità di un materiale di recente introduzione sul mercato)… E tutto ciò fila liscio, è perfetto, preciso, adeguato: qui davvero nomina sun consequentia rerum, solo che la res (le due res in gioco, e la terza res che è la sorprendente possibilità di paragonarle) è stupefacente, e ci si stupisce che possa essere conseguita (e ci si stupisce che noi abbiamo potuto a nostra volta consecuti esse dietro a queste parole così naturalmente consequenziali a queste cose innaturali) facendo finta di niente, con tanta naturalezza; l’unica cosa naturale di questa innaturalissima similitudine è la (magistrale) naturalezza della sua resa linguistica! E tutto questo è rafforzato dal tasso di familiarità del contesto in cui viene inserita: i lecci sono quelli dove il padre stendeva l’amaca (famigliarità!); la macchina nominata con il marchio di fabbrica: c’è forse qualcuno che al giorno d’oggi non saprebbe che si sta parlando di un’automobile?

Dunque: siamo al massimo di quanto uno scrittore contemporaneo può dare. Sapienza retorica. Abilità magistrale nel montaggio delle scene (è mirabile come si alternino i capitoli: narrazioni fluenti, conversazioni telefoniche, riunioni di lavoro, descrizioni di spezzoni di videocassette, sogni, drammaturgia del reality show…).

Ma tutto questo che cosa produce, globalmente? Al servizio di quale risultato cognitivo, artistico, poetico, etico lavora?

Il male è uno solo, e chi è nauseato da esso è il suo primo collaboratore. Il genio del male immaginario è lo stesso genio del male fisicamente dilaniatore. Ideare una trasmissione che mischia realtà e immaginario equivale a ideare attentati che fanno irrompere l’incubo nella realtà. La realtà è equivalente allo schermo. Lo schermo è equivalente alla realtà. Chi non sa fare figli e non ama sua moglie è lo stesso che scrive i programmi televisivi e mette le bombe nei supermercati e si strugge per la figlia adottiva che non lo ama ed è ancora capace di emozionarsi e innamorarsi di una donna intravista al parco e pregare in chiesa e farsi scrupoli su di sé e sul mondo.

Sandro è l’epoca al lavoro, e tutta l’epoca è colpevole. Questo dice il romanzo.

Sì, ma quale epoca? Quale descrizione dell’epoca?

Ora, fatto salvo che lo sto criticando lussuosamente (il romanzo è di assoluta eccellenza, di accattivante lettura, avvincente, vivido, scritto con un piglio stilistico e un passo narrativo magistrali), non posso che criticare con forza, se non rifiutare e respingere, quel che questo romanzo mi dice. Perché questa lettura è la semplice conseguenza delle sue stesse premesse. Tutti i conti tornano. È presa in considerazione solo l’epoca come premessa, o meglio l’autodescrizione che l’epoca dà di sé, per cui come conseguenza etica non possiamo che avere l’epoca stessa, e un commento alla sua autodescrizione: un giudizio negativo sull’epoca (ma potrebbe essere anche positivo; conta poco; semmai si può rilevare che lo scrittore qui fa esattamente il lavoro che si richiede all’immaginario: pronunciare una sentenza etica immaginaria, condurre un’inchiesta immaginaria mettendo insieme gli indizi forniti dalla parte in causa, l’epoca stessa).

Fare il commentatore, meglio se apocalittico: chiudere il cerchio, assumersi l’onere di quel che l’epoca non può far mostra di fare di sé: parlare male di sé; purché sia di sé, dell’epoca – ovvero dell’autodescrizione che essa dà di sé – che si parli. Ma in discussione è il fatto di avere posto l’epoca come dato di partenza: in che modo? L’epoca viene posta come autodescrizione dell’epoca stessa (in questo senso, anche, questo romanzo si candida a essere perfettamente consentaneo ai quotidiani, settimanali, trasmissioni tivù, che ne parleranno diffusamente senza problemi, lo accoglieranno nel loro alveo perché il romanzo stesso si autocolloca perfettamente in questo alveo). Tutte le cose che accadono in questo romanzo sono le stesse che accadono sui giornali, sui media (che sono l’autodescrizione della nostra epoca). Questo romanzo è massimalisticamente minimalista; o minimalisticamente massimalista: prende tutti i massimi temi di cronaca, ma per il fatto che li accetta dalla cronaca (li accetta tutti, e sono tutti grandi, rilevanti, massimi) compie un gesto minimalistico: lascia fuori tutto il resto del mondo che non entra nei giornali, che non è considerato rilevante dai media…

L’epoca si mangia tutto e uniforma il tutto al suo senso; così come il reality show si mangia tutto e giustifica situazionisticamente la propria stessa situazione, il proprio stesso situazionismo produttivo di situazioni: le dinamiche di gruppo, le prevaricazioni, le violenze all’interno del reality show possono essere spacciate come emblema sociale, sintomo, squarcio del velo dell’ipocrisia.

C’è un circolo virtuoso autoreferenziale, fra questo romanzo e ciò che l’epoca stessa ha posto in prima fila come propria descrizione della realtà (che non è che un’autodescrizione di sé). Il romanzo si pone come una specie di soluzione di un giallo. Il delitto è quello dell’epoca. Il delitto è l’epoca stessa. Chi è il colpevole degli attentati di Unabomber? L’autore del Grande Fratello! Il genitore adottivo che non ha fatto figli per fare carriera! Chi è il colpevole di quel che leggo in prima pagina? Pagina ventisette! Pagina dodici! (E viceversa). E, come un perfetto giallista, il narratore non bara. L’assassino è uno dei personaggi. Di più: è il protagonista. Di più: è il narratore (The Murder of Roger Ackroyd). Di più: sono tutti quanti (Murder on the Orient Express). Di più: è l’investigatore stesso (Courtain: Poirot’s Last Case). Chi ha barato è l’epoca stessa, che ha posto se stessa come scena del delitto, delitto, vittima e colpevole, investigatrice e criminale. È un romanzo di cui leggeremo a pagina quindici dei giornali; o ventiquattro; o in prima pagina (non fa differenza).

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20 Commenti

  1. Okay. Mi hai incuriosito, benché conosca la tua generosità verso gli amici:-) In attesa di leggere Covacich, regalo anche a te questo bellissimo incipit di un’opera che, forse, non conosci:

    «La sera dell’ultimo dell’anno del 1828 me ne stavo tutto solo nella mia stanzetta e spaziavo con lo sguardo oltre i tetti delle case vicine coperti di neve. In quel momento lo spirito del male, noto col nome di Satana, si introdusse in me e mi suggerì il pensiero peccaminoso di diventare scrittore. Il motivo per cui egli di solito perseguita noi poveri uomini è chiarito da questo mito, che si può chiamare “il diluvio nr. 2″…» (segue mito)

  2. Non ho ancora letto il libro di Covacich,ma volevo dire qualcosa su un punto cruciale che Tiziano mette in evidenza.
    La nostra epoca, come tutte forse, ma credo che questa di più di ogni altra, si autodescrive. Fa una descrizione di sé. La fa continuamente, attraverso le notizie, attraverso i suoi stessi processi comunicativi, ancor più che attraverso le sue ideologie. E questa autodescrizione è una trappola. Una premessa che si autoconvalida. Molte narrazioni odierne mi sembrano solo un’opera di manutenzione dell’epoca, un meccanismo di difesa del sonno dell’epoca che sogna se stessa e non vuole svegliarsi. Se non si sfondano questi schemi di realtà, per far emergere allucinatoriamente tutta la realtà,tutto lo “spurio” rimosso da questa autodescrizione, scrivere non ha alcun senso. E questo non lo dico solo per la scrittura narrativa, ma anche per quella saggistica e testimoniale e giornalistica.

  3. La mia epoca non è quella di Scarpa, non è quella di Covacich. La sapienza retorica di cui parla Scarpa nemmeno, non è sapienza retorica quella, guardiamoci nelle palle degli occhi. Non è il meglio che un autore contemporaneo può dare. E’ pubblicità. A Covacich fa male scrivere su un quotidiano. Questo è schiavismo inconsapevole.

  4. Quindi non sai che cos’è scegliere una scrittura, uno stile anziché un altro. Uno scrittore sceglie volutamente di scrivere semplice potendo scrivere complicato, ha la possibilità di scegliere l’eleganza e la precisione pur potendo, se vuole, permettersi l’enfiagione barocca vertiginosamente calibrata. Questa SCELTA è sapienza retorica.
    Sta di fatto comunque che, scrittore o no, tu ti limiti a giudicare senza dimostrare, mentre Scarpa ha analizzato lo stile di Covacich e di conseguenza può ben dire se si tratta di sapienza retorica o no.
    Tu non sai argomentare, ma solo “guardare nelle palle degli occhi”. Sei il solito populista, anzi, popallista, che non sa argomentare i suoi giudizi sommari.
    Curioso comunque che alcuni abbiano preso questo articolo di Scarpa come una lode al riomanzo di Covacich, mentre contiene una mezza stroncatura: si dice a chiare lettere che la sostanza “ideologica”, “er messaggio” di questo libro non ha convinto per niente il recensore.

  5. Serberò questi “appunti” di Scarpa come esempio di recensione onesta e approfondita, anche se non sono d’accordo su parecchie cose. Scarpa qui non scrive per essere brillante, ma per capire, per capire lui stesso prima di tutto, e anche per farsi capire, nonostante qualche passo un po’ involuto. Quando si critica la critica, come in altri post di questo sito (vedi il pezzo di Carla Benedetti e gli interessanti commenti) forse non si tiene conto che la colpa è anche del poco spazio a disposizione sui giornali. E’ vero che i grandi critici erano in grado di sintesi nutrienti in articoli-scheda di 20-30 righe, ma se si vuole analizzare un romanzo, un libro ponderoso che contiene tanti spunti, c’è bisogno di spazio. E le riviste su carta, che lo spazio ce l’hanno, purtroppo arrivano in libreria o in edicola un po’ troppo tardi per la nostra voglia di discussione a caldo. Viva la rete, dunque. E non ti scusare, Scarpa, se la tua recensione è troppo lunga. Anzi.

  6. Non ho letto l’articolo di Tiziano Scarpa per evitare di conoscere la trama del romanzo, seguendo le avvertenze dell’introduzione. In attesa di leggerlo (credo molto presto) solo una domanda: è riuscito Covacich a spremere la vita reale, come proponeva di fare l’anno scorso a se stesso e ai suoi colleghi?

  7. Quindi, se fai SCELTE stilistiche, sei uno scrittore anche tu, e non puoi chiamarti fuori. A maggior ragione dunque la tua critica non dice nulla, rimane un giudizio buttato là, non argomentato. E anche un esempio di insufficiente sapienza retorica.

  8. Non si scegli mai, se le possibilità a disposizione sono possibilità a disposizione. Di fatto, non si sceglie, se non il silenzio. Ciao!

  9. Covacich è un eccellente reporter; ce ne fossero, come lui (qualcuno c’è, specie al giornale cui lui collabora). Questo suo romanzo si leggerà come e più dei suoi predecessori, per via di questa ottima recensione di Tiziano Scarpa. Sostiene Genna che la recensione sia un ‘atto critico’ per lui di poco interesse. Qualunque sia l'”atto critico”, fa almeno comodo sapere che ci sono in giro buoni lettori, capaci in poche o molte parole di spiegare perché un libro è buono e un altro non tanto.

  10. Ah, scusate: il romanzo è uscito proprio il 19 gennaio, perlomeno qui a Milano: l’ho visto sabato scorso in libreria. L’uscita era effettivamente prevista per il 25 gennaio, ma alcune anticipazioni giornalistiche in riviste e quotidiani molto esposti hanno fatto sì che l’editore decidesse di anticipare l’uscita di una settimana (caso veramente rarissimo: presuppone una mobilitazione molto onerosa di tutta la “macchina” distributrice) per non lasciare a bocca asciutta i lettori stimolati da queste segnalazioni giornalistiche premature. Potere dei media… Come sapete, non c’è nulla di peggio per un uffficio stampa di una casa editrice che riuscire sì a ottenere l’attenzione di un giornale, ma quando il libro non è ancora uscito. Forse però il libro non è stato distribuito in tutta Italia, ma solo in alcune città.

  11. Non credo che quella di Tiziano Scarpa fosse una recensione (non ho tuttavia l’autorità di Genna nelle tassonomie dei supposti atti critici). Era un saggio o, come direi se la Lidia non me lo impedisse, un essai alla maniera di Starobinski e per ciò di Montaigne.
    Dalle mie parti il libro non s’è ancora visto, ma ho sentito a Milano che certe anticipazioni molto prestigiose lo avrebbero danneggiato, addirittura. Potere dei media e misteri dell’editoria.

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