Folklore italiano del XXI secolo #2

di Alderano Marco Rovelli

prison.jpgAntifona.

Marcello Lonzi è morto l’11 luglio 2003. Aveva ventinove anni. Era detenuto nel carcere di Livorno per tentato furto, con quattro mesi ancora da scontare. Infarto, hanno detto. Ci hanno messo dodici ore per avvertire i familiari. Poi sono venute fuori le foto. E sarebbe difficile negare che Marcello è stato vittima di un pestaggio – se non fosse per le reciproche complicità dei poteri. Leggetevi la storia. E questa storia, non è che una delle tante. Se potete, fatevi un giro sul sito dei Filiarmonici – per un meraviglioso viaggio nel mondo segreto delle galere.

Allelujah.

Oggi sono entrato in un carcere. Non come Marcello Lonzi. Ci sono entrato da privilegiato. Per suonare alla festa natalizia dei detenuti. Canti di rivolta e inni contro il lavoro dentro un vecchio e temuto carcere. Canti contro le galere dentro a una galera. Certo, questo è un carcere particolare. E’ un’isola felice, così dicono. Per quanto felice possa essere un carcere. Meglio dire, allora: un’isola meno infelice. Risponde un po’ di più alla realtà.
Entro in confidenza con alcune guardie. E’ nota la mia difficoltà di relazionarmi alle divise. Qui dentro, stavolta, mi riesce più facile, ché sono tra i compagni detenuti. Compagni, qui, non ha alcuna accezione politica. Semmai pre-politica: sono loro che si chiamano compagni. E’ radicale, il loro essere compagni, nasce dalla condivisione di una realtà di sofferenza.
Una guardia mi racconta di come molti suoi colleghi si siano stupiti di questi canti. E’ la prima volta che in galera i canti anarchici non vengono cantati dai detenuti. Poi mi dice dell’ignoranza diffusa tra i poliziotti. Vedi, qui siamo tutti proletari. E’ per un caso che uno è qui come guardia o come delinquente. (A me viene in mente Calvino, che scrive a proposito di partigiani e repubblichini: “Basta un nulla, un passo falso, un’impennata dell’anima, e ci si trova dall’altra parte”). Capita spesso che uno abbia un amico d’infanzia dall’altra parte della barricata. Magari è un mafioso, un camorrista. Il fatto è che qui dentro sono quasi tutti ignoranti. E l’ignoranza porta sempre a rispondere con la violenza. Qui da noi non capita più, ma nella maggior parte delle carceri la violenza è quotidiana. Non deve dirmelo lui che il carcere di Livorno è una delle galere più violente. Conosco qualcuno che ci ha soggiornato. Mi hanno raccontato che perfino una guardia che voleva semplicemente far rispettare il regolamento, tenendo aperta una porta, è stata picchiata dai suoi colleghi.
Quando Pasolini scriveva che negli scontri di Valle Giulia i proletari non erano gli studenti, aveva ragione, e le cose non sono cambiate. Ma, senza dover richiamare la distinzione marxiana tra ‘classe in sé’ e ‘classe per sé’, è chiaro che il sistema biopolitico continua ad usare i proletari come carne da macello. Da una parte e dall’altra. Li si educa alla violenza, stimolo-risposta (comunista-zecca, o altre variazioni sul tema), e giù il manganello. Niente di nuovo. Ma certo la dimensione spettacolare del nuovo potere biopolitico non fa che rendere questa situazione più pesante, e disperante.

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10 Commenti

  1. E’ vero, Lorenzo. Quando uno compie una scelta ha bisogno di una narrazione forte che la/lo sostenga. Ciò non toglie che sia altrettanto vero che in quella guerra civile dei giovani scegliessero per impennate dell’anima (e guarda che non è svalutante, questo, anzi).

  2. La situazione carceraria italiana è nel suo complesso allarmante a causa di un sistema giudiziario farraginoso e lentissimo. E i più poveri e ignoranti sono insieme i più deboli e i più violenti. Grande responsabilità in questo senso attribuisco al partito comunista e al movimento sindacale e al pasticcio che hanno combinato in Italia. Ora ci tocca vedere gli operai che danno i voti a Berlusconi.

  3. Luminamenti, le cose stiano un po’ diversamente da come le metti tu. Il Pci non c’entra, e nemmeno Berlusconi. Qui si sta parlando della funzionalità del carcere al sistema biopolitico, la cui genesi è messa in luce da Focuault in Sorvegliare e punire. Libro fondamentale, che consiglio a tutti quelli che non l’hanno letto. (Sulle tendenze attuali del sistema carcerario, si legga Zero tolleranza, Alessandro De Giorgi, Derive Approdi).
    Sul nesso debolezza-violenza, per come la metti tu parrebbe una questione genetica. La violenza copre indistintamente tutto il tessuto sociale: il punto (che forse non ho sottolineato abbastanza) è come le relazioni di potere si servono degli strati più deboli, li ‘giocano’, per farne dei delinquenti. La underclass viene costruita socialmente, ed utilizzata: oggi la underclass in costruzione sono gli immigrati (su questo, il libro di De Giorgi è chiarissimo). Gli strati colti, più elevati, non sono meno violenti anche se non si sporcano le mani, e delegano la violenza a un sistema impersonale.

  4. Oltre al Foucault di “Sorvegliare e punire” ricordo di aver letto un libro (qualche hanno fa)che forse potrebbe dare ancora qualche spunto interessante su quanto accennato più su da Alderano Marco Rovelli. “Pena e struttura sociale” di Ruche e Kirchheimer, un “classico”, certo, ma io lo trovai illuminante (la sanzione penale nella società capitalistica in relazione al mercato del lavoro).

    Bello il pezzo. Avevo ricevuto un’email con un link alle foto tempo fa, mi chiedevo perché se ne parlasse così poco in giro…

  5. Ho letto sorvegliare e punire e sono d’accordo con la sua analisi.
    Ma Foucault uscì dal partito comunista attribuendogli grande responsabilità nell’incapacità di vedere il rapporto tra sapere e potere (Storia della sessualità e Archeologia del sapere). E’ vero certo che le relazioni di potere si servono degli strati più deboli ed è su questo che davo responsabilità gravissime al partito comunista.

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