Let it bleed

di Manuela Ardingo

menstrual[1].pngAmo le femmine folli. Le accattivate vittime di fasi lunari e maree zuppe di ormoni. Le mestruate teste matte che non si risparmiano mai.
Amo il mio essere cerchio con croce. Da sempre, da subito.
E, soprattutto: tanto il cerchio, quanto la croce.

Il giorno delle mie prime mestruazioni c’era un cielo come quello di oggi.
Il giorno delle mie prime mestruazioni era il giorno della mia seconda nascita. Da allora nasco e muoio spesso. Almeno una volta al mese.
Con tutte le fasi del caso che mi spazzano: distinte eppure amiche.
La nascita si emancipa in gioia. La gioia si macchia vivace. La vivacità richiede consapevolezza. La consapevolezza arriva e esplode, isterica. L’isteria stridula conduce al dolore. Il dolore saggio insegna la morte. La morte è il fondo.
Poi si ricomincia.

Da allora ho iniziato a vivere il ciclo come un secondo respiro. E a godermi il cammino, tutto. Non mi piace la chimica che si intromette tra certe pieghe. Quella che mi cancella il dolore convinta di farmi un favore. Non mi piace il sangue finto né la vita secca. Non mi piacciono le sinapsi frigide né i sensi intontiti dai farmaci.

Il giorno delle mie prime mestruazioni nevicava. Mia madre cucinava nella stanza accanto e io mi tenevo la testa tra le mani. Nel bagno piccolo della casa vecchia. I gomiti appoggiati sulle ginocchia. Le dita sporche di sangue davanti agli occhi. Cotone bianco macchiato di rosso poco più giù, testimone.
E piccole risate lacrimose di una felicità pungente.
Ero donna! Funzionavo! C’ero anch’io!
Giravo quel sangue tra le dita e non era lo stesso sangue che mi correva dentro. Era altro e più denso. Di infinite possibilità e di materia pulsante. Lo osservavo e mi sentivo pronta. Chiamata. Ricongiunta all’estatico anello d’origine. Quello che permette di essere nel passato e nel futuro insieme, senza essere nel presente. O essendoci immensamente, che è poi uguale. L’anello che permette di scivolare sulla vita e correre via. Oltre.
Come imprendibile chimera. Come qualcosa di arcaico e animale che posso avvicinare solo ballando stretta strettissima a quella che sono.
Solo rintracciando le possibili alternative perse sulla strada che ho percorso per venire al mondo. Insieme a questo corpo che, pieno di tutto quello che serve, è l’unico mezzo che ho. Da sempre.

Il giorno delle mie prime mestruazioni, con mani tremanti: rubavo un assorbente dall’armadietto di mia madre, lo scartavo e lo attaccavo. Storto, ovviamente. Allora ridevo, staccavo, riprovavo e non si attaccava più.
Ma non importava: da quel giorno ho iniziato a sporcarmi di vita e non ho mai smesso. C’era un cielo come quello di oggi e io ero felice.
E passa il tempo ma non passa. Passa il tempo e resto abbracciata a quella profonda consapevolezza. Passa il tempo e cresce il feticismo di essere me.
Mi sento un’onda. Mi sento abitata. Mi sento fertile.
Mi sento fiore e frutto. Mi sento viva.

Se ascoltassi quella che non sono tutto diverrebbe meno invasivo e più addomesticato. Comodo, a tratti. Ma non quello che voglio. Io voglio la fiducia dell’ovulazione a metà ciclo, voglio il mal di pancia sordo che non mi fa distrarre, voglio il seno teso e esuberante. E il nervosismo sempre smascherato dei giorni prima. E la voglia ingestibile di tornare alla vita, finito il dolore del dunque. E la gioia leggera del dopo, quando si rinasce.
Senza mestruazioni il mio corpo non emetterebbe più segnali. Il mio sentire femminile verrebbe imbavagliato con la promessa di finte emancipazioni. I miei punti interrogativi spianati e costretti a convergere in un sottoinsieme asessuato. In un tutto esclamativo con punto. La mia mente non conterebbe più i lividi dell’aver sempre provato. Le cicatrici di mia nonna sparirebbero dalle mie mani, come se secoli di donne prima di me non fossero mai state.
E mi sveglierei liscia: priva di spigoli e di tempo.
Una donna lineare, concreta, senza inutili alti e bassi. Una che non si sporca mai. Una che non piange e, se lo fa, ha un ottimo motivo. Una che è sempre al meglio: sorriso sterile e assenza di sintomi.
Poi, ogni tre o quattro mesi, potrei interrompere i trattamenti e provocarmi una pseudomestruazione. Ma anche no: se devo andare in palestra o al mare o, semplicemente, non mi va. Tanto è solo sangue che la chimica sottrae per farmi star calma, perché la mente non risenta dell’assenza del ciclo. Saltare qualche mestruazione, infatti, non è un problema: fa bene a tutte. Perché oggi le donne sviluppano prima, muoiono dopo e fanno pochi figli. Perché il numero di cicli a vuoto nell’arco di una vita è eccessivo e le ovaie si affaticano.

Allora meglio diminuire le mestruazioni a colpi di ormoni piuttosto che aumentare le gravidanze.
Meglio un corpo che non risponde piuttosto che un corpo che pone domande imprevedibili.
Meglio un corpo addormentato piuttosto che due ovaie sveglie e creative. Il tutto in nome di una sottodimensionata maggiore libertà. Che, paracadutismo anche in quei giorni a parte, sembra solo assenza e distacco.

Io vivo le mie mestruazioni, tra stupore e rispetto. Le vivo come epifanie del fallimento. Mi ricordano ciò che profondamente sono, quello che solo devo fare. le uso per imparare, per raddrizzarmi, per tornare.
A me che sono tutto ciò che sono stata, al mio corpo che è tutto ciò che sono, al mio sangue mestruale che vive già di ciò che sarò. Ho imparato a godere del dolore che essere viva sempre provoca. Perché le soluzioni facili, di solito, sono quelle banali. Perché non voglio protezioni chimiche contro la vita.
La vita deve fare un po’ male ciclicamente. La vita è respiro.
E come il respiro prevede piccole morti: perché tra l’inspirazione e l’espirazione esiste un momento in cui non respiri e in quel momento non sei, c’è poco da aggiungere.
Così tengo acceso l’equilibrio tra paura e desiderio. E guardo solo l’aperto, come gli animali. E faccio in modo che la somma algebrica sia sempre zero, che tutto torni. E se il desiderio eccede, mi modifico per accogliere l’eccesso.
E preparo il posto anche per la paura che, inevitabile, seguirà.

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9 Commenti

  1. Il disegno è proprio bellino – è eccitante. Più lo guardo più mi piace. È la tipica cosa che di primo acchito ignoro, infatti l’ho sorvolata con gli occhi senza vederla. poi -marika- nei commenti ha scritto “bella l’immagine, davvero!” e solo allora ci ho fatto caso.

    A me le mestruazioni sono venute un giorno in cui ero in gita con la classe. Eravamo in giro per Milano, credo fossimo andati a visitare un museo o una chiesa. Eravamo vicino a corso Garibaldi e sentivo le mutande bagnate. Non potevo fermare tutta la classe, dire ad alta voce che dovevo andare in bagno. A casa di un compagno di classe dove era finito, non so perché, un gruppo di noi, sono finalmente andata in bagno e ho visto quella roba marrone. All’inizio il sangue è marrone, come l’acqua delle tubature di una casa non vissuta. ho avuto paura perché ho pensato “Adesso se un uomo mi violenta rimango incinta”.

  2. anch’io l’ho pensato, monica. :-D e non smette di farmi ridere. mi ripetevo: adesso devo stare attenta perché se un uomo mi violenta rimango incinta! con un tono assennato e piena di una consapevolezza inconsapevole che oggi mi spaventa quasi. non conoscevo il significato di una sola tra quelle parole: stare attenta, uomo, violentare, rimanere incinta…

  3. Levàte questi spammers!

    ps:
    sarebbe stato divertente (e più azzeccato) se la “online pharmacy” avesse pubblicizzato, che so, il momendol anziché il viagra…

  4. Riterrei irrinunciabili ibuprofene, nimesulide, butilscopolamina, quell’onesto famiglio del paracetamolo,l’audace metamizolo, il propifenazone. Ed anche l’acido acetilsalicilico
    che slarga e solleva, e scatena emorragie
    negli uteri sensibili.

  5. ciao Manu. Lì per lì ovviamente sono rimasta male dalla tua risposta. Ma hai ragione, che ne sapevo io a tredici anni? Anch’io a volte ripenso a quei tempi e mi fa ridere ricordarmi come mi sentissi già donna. Nel senso di vissuta, o sì, come hai scritto tu “consapevole”. Anche se la paura di quella cosa che era la violenza a me pare fosse abbastanza vera, perché si vedevano già i film, un sacco di scene di violenze, poi c’era stato quel caso a Parigi di una ragazza violentata in metropolitana davanti a tutti. E quel film dell’autostrada intasata e dei ragazzi che caricano una automobilista che era uscita a sgranchirsi le gambe nel loro furgoncino e la violentano insieme o a turno. La mia prima giovinezza o tarda infanzia mi sembra piena di queste immagini. Poi l’idea di rimanere incinta non era l’idea di rimanere incinta, ma l’idea di avere un figlio, figlio di chi ti ha fatto quel male. La violenza sessuale è stato a lungo il male in assoluto peggiore che potessi immaginarmi, quello meno sopportabile, la paura più presente. A un certo punto ho smesso di pensarci o di averne paura. Sì, può succedere, e speriamo di no, ma non vado in giro con il pensiero che potrebbe succedere da un momento all’altro.
    Anche l’idea di avere un figlio, figlio di chi ti ha violentato, dev’essermi rimasta da qualche film: in un film c’è lei in ospedale e il medico entra in stanza e annuncia che il test di gravidanza ha dato esito negativo, in un altro il medico entra e annuncia che non c’è stata penetrazione, in un altro film c’è l’aula del tribunale, in un altro c’è lei che è rimasta incinta e sente insieme al sentimento materno di amore, la paura di guardare il bambino e odiarlo.
    È vero però: sono tutte cose di cui a tredici anni non potevo essere consapevole. E mi dico, ecco, come sempre, come la maggior parte di noi, sono caduta nella tentazione di darmi troppa importanza. E tu con leggerezza mi hai rimproverato. Ma adesso che ho trentadue anni sono consapevole? So cosa significa essere incinta? Non credo, anzi, a volte mi pare di iniziare adesso a essere consapevole che sono donna.

    ciao
    monica

  6. monica, ma figurati: la mia risposta era solo un pensiero ad alta voce. qualcosa che sempre metto a fuoco quando ripenso con tenerezza a certe mie cerebrali precocità. mi aveva fatto sorridere, anzi, ritrovarle anche in te. come ritrovo, identico, il senso di inconsapevolezza di cui scrivi e che ora avvolge tutto: a ventotto anni più che a tredici. ti abbraccio. :-)

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