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Queste favolette ne susurrano….

di Antonio Sparzani

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‘‘Dagli scettici più antichi sono comunemente tramandati dieci modi, per mezzo dei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio e che chiamano anche, con vocaboli sinonimi, ‘regole’ e ‘figure’. E si riferiscono: 1: alla varietà che si nota negli animali; 2: alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3: alle diverse costituzioni dei sensi; 4: alle circostanze; 5: alle posizioni, agli intervalli, ai luoghi; 6: alle mescolanze; 7: alle quantità e composizioni degli oggetti; 8: alla relazione; 9: al verificarsi continuamente o di rado; 10: alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogmatiche. Accettiamo questa serie, dandole un valore convenzionale.
Ma ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che dipende dal giudicante, quello che dipende dal giudicato, e un terzo che dipende da entrambi. A quello che dipende dal giudicante si riducono i primi quattro (ché‚ ciò che giudica è animale o uomo o sensazione o si trova in una qualche circostanza); a quello che dipende dal giudicato si riducono il settimo e il decimo; al terzo, risultante da ambedue, il quinto, il sesto, l’ottavo, e il nono.
A loro volta questi tre si riconducono a quello della relazione, talché il modo della relazione viene ad essere il più generico, i tre diventano specifici e i dieci si riducono a sottospecie. Questo diciamo verosimilmente intorno al loro numero. Segue ora il discorso intorno al loro valore.’’(Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, I, 36-39).

Questo ruolo fondamentale svolge la categoria della relazione nella pratica dell’epoché .
Sesto Empirico, (II–III sec. d.C.) prescrive che la via maestra all’imperturbabilità (ataraxía) sia la sospensione del giudizio (epoché ), basata sulla ‘ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposti’.

Sesto Empirico molto lucidamente riconduce l’origine di qualsiasi posizione scettica alla questione della relazione: qualsiasi conoscenza è incerta, perché dipende crucialmente dalla relazione tra conoscente e conosciuto. Una volta enunciata così, la posizione denuncia, agli occhi nostri, la modernità – ormai perfino un po’ ovvia – del suo contenuto: sembra ormai a noi difficilmente negabile che la conoscenza sia precisamente un rapporto tra conoscente e conosciuto.

La consapevolezza di questa natura della conoscenza ha investito praticamente tutto lo svolgimento del pensiero successivo: il bello però è distinguere uno sviluppo caratterizzato da connotazioni pessimisticamente svalutative della conoscenza, e in questo senso è continuata la tradizione propriamente detta scettica, da un altro orientato ad esplorare quali possibilità positive sono lasciate alla conoscenza.

La via maestra di quest’ultimo, quella che permette di uscire dal pessimismo, la guida alla liberazione dal contesto, o per meglio dire da quel che il contesto ha di particolare e di non comune ad altri, è la via relativistica – che drammatica scelta quest’aggettivo. Essa si fonda su un’argomentazione banale: cos’è ciò che è particolare ad un certo contesto A? È ciò che esso non ha in comune con tutti gli altri contesti ammessi B, C, ecc. Come si fa ad eseguire osservazioni, o a formulare ipotesi o teorie che non dipendano dal contesto? Ovviamente bisogna basarsi soltanto su ciò che è comune a tutti i contesti.

Siamo arrivati all’ovvio, alla norma apparentemente vuota di contenuto: è questo sempre un grande momento nella riflessione nella e sulla scienza, perché invita e spinge a ripescare invece il luogo dove sta il contenuto vero, quello che si può stringere nel pugno, senza scoprire alla fine che questo è solo pieno d’aria.
L’ovvio non è un errore, è solo un segno che nell’estrema distillazione che ad esso conduce, si è perso qualcosa di essenziale a quel che si voleva cogliere di mordente sulla realtà. E in questo caso è proprio così: le informazioni altamente non ovvie sulla realtà sono quelle che sfuggono alla pura struttura logica del discorso, e cioè: cosa i contesti soggettivi diversi hanno in comune e cosa no? E, molto importante: quali sono i contesti ammessi e con che criteri li ammettiamo? Se passo il mio quaderno al compagno di banco, questi vede lo stesso triangolo, misura le stesse distanze tra i suoi vertici, misura la stessa somma degli angoli interni? Ma, quando gli passo il quaderno, poiché il suo banco è meglio illuminato del mio, egli vede più cose, scorge più particolari, osserva proprietà che non mi erano note. E ancora: se il mio compagno di banco, dal suo banco o dal treno trasparente, fa rimbalzare la pallina identica alla mia, misura la stessa velocità di caduta, la stessa accelerazione? E così proseguendo, le domande possono facilmente essere ricavate dalle nostre quattro storie e dalle altre che si potrebbero raccontare.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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