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La verità nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (3)

di Piero Vereni

SCRIVEREBIS.JPGCredo che il giornalismo d’inchiesta sia un’attività necessaria, lodevole e pericolosa. Il rapimento di Giuliana Sgrena ne è l’ultima dimostrazione. La giornalista del manifesto è stata rapita perché voleva sapere, voleva informarsi, voleva raccontare la verità. I casi di bravi giornalisti in grado di fare lavoro sul campo sono numerosi, ma non credo che la passione eroica per la verità di alcuni consenta alla categoria di sentirsi assolta dalle proprie responsabilità. I giornalisti si trovano oggi nella paradossale condizione che pubblicare un libro di inchiesta su un tema qualunque è diventato più semplice che pubblicare un’intervista a un qualunque personaggio di media levatura (un qualunque profugo di una Fallujah qualunque). La facilità della produzione dei fatti in formato libro, quindi in “formato analisi” (e, simmetricamente, la difficoltà della produzione dei fatti in formato intervista, quindi in “formato dati”) credo costringa il mondo del giornalismo a porsi alcune domande sul senso della propria attività.

Se il dibattito dev’essere su GIORNALISMO E VERITÀ, allora dobbiamo partire dalla considerazione che anche i giornalisti producono la verità. Non ne sono i semplici alfieri o cercatori ma, come tutti gli intellettuali inseriti in un sistema sociale, contribuiscono alla sua produzione. Per poterlo fare, utilizzano certe strategie di ricerca, specifiche metodologie e le tecnologie disponibili. Come tutti i produttori intellettuali, devono rendere il proprio prodotto fruibile sul mercato. Non devono necessariamente farci i soldi (questo sito mi pare sia una conferma abbondante che si può produrre conoscenza – se non proprio verità – senza guadagnarci in senso economico) ma devono comunque fare in modo che quel che hanno prodotto, elaborato e scoperto trovi modo di essere comunicato. È partendo da queste premesse che ho scritto le due prime parti di questo mio intervento.

Oggi in Italia si pubblicano all’incirca 53mila libri all’anno, di cui il 60 per cento circa sono nuove pubblicazioni. Gli editori aumentano, ma paradossalmente aumenta anche la concentrazione produttiva: un numero sempre più ristretto di grandi editori pubblica una fetta sempre più consistente della torta totale di libri pubblicati (come edizioni e come tirature complessive). Ciò significa che i piccoli e medi editori combattono in numero crescente per spartirsi un traffico sempre più ridotto: non è proprio il massimo, se uno non crede ciecamente agli effetti benefici della legge di mercato.

La conseguenza di questa situazione è che gli editori sono pressati dall’esigenza di pubblicare per mantenersi visibili, spinti in questo anche dal fatto che i costi medi di produzione per singola edizione sono sempre più contenuti (nonostante le lamentele degli editori), visti i vantaggi dell’informatica applicati all’editoria. È in queste condizioni che la verità rischia di essere prodotta su scala industriale. Che cosa succede alla verità nell’epoca della sua riproducibilità tecnica? Cosa succede alla funzione intellettuale nel momento in cui i tempi di produzione di contraggono, la verifica delle fonti diventa una procedura opzionale, i controlli incrociati un lusso a volte insostenibile?

Ma queste sono ancora domande antiche, che assillano il mondo del giornalismo dalle sue origini, dato che il giornalismo nasce proprio come il contesto della replicabilità della verità (la tiratura del giornale). A me interessa un altro punto, che ha a che fare con la sacralità del testo scritto su carta, la disponibilità delle informazioni e la volontà dell’autore di essere autorevole.
In un pezzo di qualche tempo fa (eccolo) Tiziano Scarpa rifletteva sul senso della pubblicazione online. Riprendendo la diatriba tra giornalisti e bloggers, Scarpa elaborava l’antitesi tra questi ultimi e gli scrittori, intesi come scrittori di narrativa. Vorrei provare a individuare un’altra relazione complessa, in questo quadro generale dei rapporti tra parola su carta e parola su video, e cioè quella tra saggisti online e saggisti che pubblicano libri.

La rete pullula. Qualunque sia il complemento oggetto, essa pullula. Questa sua dimensione formicolante la rende da un lato estremamente eccitante, dall’altro tendente all’entropia. Con un po’ di pazienza troverete in rete tutto e il suo contrario, le prove dell’esistenza di Dio e della sua inesistenza. Questo, si può contestare, vale per qualunque sistema culturale elaborato. Prendete i 53mila libri pubblicati in Italia nel 2004 e troverete esattamente la stessa complessità, la stessa totalità autoconfutante. La differenza tra i due sistemi dipende, credo, dai nomi che usiamo. Noi non diciamo “l’editoria”, ma “i libri”, mentre non diciamo “le pagine web”, ma “la rete”, o “internet”. Uno non direbbe mai “ho trovato questa informazione nell’editoria” e specificherebbe “nel libro tale” (singolare individuante), mentre si sente autorizzato a dire “ho trovato questa informazione su internet” (singolare collettivo). Questo scherzo del linguaggio ci fa perdere di vista la relazione costitutiva tra verità del messaggio e veicolo della sua trasmissione.

Per 2.500 ci hanno insegnato che il libro ha una dimensione sacrale autonoma: ricordo ancora la faccia di mia sorella che, celebrando le lodi di un suo professore in seconda liceo classico, esclamò estasiata: “Ma lo sai che ha scritto un libro?”. Mia nipote, che ha l’età che aveva allora mia sorella, non si sognerebbe mai di elogiare un suo prof esclamando: “Ma lo sai, ha una homepage su internet!”. Fatte salve le considerazioni di Scarpa sul filtro editoriale (che nel caso della saggistica andrebbe rivisto secondo i criteri peculiari cui accenno implicitamente nella seconda parte, e esplicitamente all’inizio di questa terza) non c’è oggettivamente nulla che ci garantisca che quel che ha pubblicato nel suo libro il prof di mia sorella sia intrinsecamente migliore o più accurato di quel che pubblica sul suo blog il prof di mia nipote. Eppure viviamo ancora immersi in un sistema di giudizi per cui la pubblicazione cartacea gode di un prestigio inarrivabile. Ed è qui che si giunge al corto circuito nella riproducibilità della verità.

Ho la strana ventura di fare contemporaneamente il professore universitario (a contratto) e l’editor di saggistica per diverse case editrici (free lance). Quando si tratta di testi scritti, i miei due lavori tendono a somigliarsi sempre più, negli ultimi anni: devo correggere tesine e editare libri che sono letteralmente saccheggiati da internet. Poco male per le tesine (me ne accorgo facilmente, e se non me ne accorgo significa che il lavoro è fatto bene), meno bene per i libri, tanto più se sono libri di “inchiesta”. Mi stupisce (anche se cerco di raccontarne sinteticamente le ragioni nella seconda parte di questo intervento) la faciloneria con cui alcuni editori pubblicano saggi che sono fatti con il copia e incolla sistematico (a parte qualche ripassatina in italiano delle scopiazzature dai siti inglesi). Ma, a lavoro finito, sono io il primo a sorprendermi dell’aura di “verità” che promana dalla carta stampata, anche se so benissimo (ci ho fatto l’editing io!) che quel testo non ha una fonte che non sia in rete, non ha un’intervista degna di questo nome, non ha riscontri, verifiche o fonti inedite. Alla fine, quando mi consegnano la copia stampata – con tutte le note, le testatine, il paratesto e la sua patina di rigore – riconosco che quel blocco di fogli copertinati è ancora infinitamente più autorevole di tutte le pagine internet che, di fatto, lo costituiscono.

Non vorrei concludere con un “dove andremo a finire, signora mia”. Quindi mi congedo lasciando ai professionisti dell’informazione un dubbio: se per assurdo finisse la pubblicazione cartacea, quale autorità sarebbero disposti a concedere alla pubblicistica online? Se venisse a mancare il metro di paragone dell’inchiostro su carta, che valore assegnerebbero (e assegneremmo noi navigatori) alla verità proposta dalla rete?

Credo insomma che prima di discutere sulla legittimità della pubblicazione online, prima di discettare sulla sua autorevolezza (o presunta mancanza di autorevolezza) sarebbe importante ridefinire il prestigio e la veridicità della parola su carta, tanto più se questa si basa così pesantemente sulla pubblicazione online. Perché una fonte disponibile a tutti su internet (a costi molto bassi) non trova nessuno (o pochi) disposto a parlarne, mentre la stessa fonte, trasferita su un file che sarà dato alle stampe (e quindi fruibile spesso a prezzi non esattamente contenuti) può diventare un “caso”? Se il Dio di Abramo avesse scritto il decalogo sul suo blog, avrebbe dovuto attendere che il giornalista Mosè trovasse un editore, per trasformarlo in “verità” con un’operazione di copia e incolla?

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4 Commenti

  1. Mi sembra importante la distinzione tra “formato analisi” e “formato dati”.

    E forse delle differenze che tu mostri, tra venticinque anni fa e oggi, una delle più importanti è proprio il fatto che oggi l’inchiesta si possa mettere su senza entrare in contatto con delle persone, testimoni o altro. Senza fare interviste.
    L’intervista non è solo uno strumento per garantire l’autenticità della fonte. E’ anche un porsi, come tu dici, in formato dati. Nelle parole raccolte, metti di un profugo a Falluja, passano molti più dati di quelli che sono già sistemati in una spiegazione. Passano anche quelli che non tornano, che fanno macchia nel quadro, passano pezzettini di totalità di vita, colti anche attraverso la persona coinvolta, la sua esperienza, le sue datità corporali, ambientali. Kapusscinski parlva di “giornalismo coi piedi”. Ci si muove, si va sul posto, si entra in contatto… ecc. Non è quindi soltanto la velocità con cui oggi si riesce a mettere su un libro d’inchiesta a fare dell’inchiesta una verità tecnicamente riprodotta.E’ anche la tendenza all’astrazione.
    Forse la rete, con la sua separazione dal contesto e talvolta anche dalla persona, e con il suo essere appunto come tu dici un soggetto collettivo, privo di datità, finisce per accentuare l’astrazione dell’informazione. Ma il problema è l’astrazione, che non è solo nella rete. L’astrazione dalla realtà, il tagliare via gli aspetti non residuali della vita per sistemarli in una “rappresentazione”, è in aggauto dappertutto.

    Persino il giornalista che va “sul campo” può contribuire all’astrazione, e quindi alla menzogna. Se per esempio mi fa vedere solo un pezzettino della realtà di guerra, sconnettendo l’informazione da tutto il resto, da tutta la catena dei dati, se mi parla solo di una bomba…Oppure se mi parla solo delle opinioni dei politici, avulse da tutto il resto…

  2. “La giornalista del manifesto è stata rapita perché voleva sapere, voleva informarsi, voleva raccontare la verità”.

    Non comprendo bene. Se si fosse proposta di raccontarci cazzate non l’avrebbero rapita?

    PS: giustissime le considerazioni di Carla Benedetti.

  3. Giuliana Sgrena è stata rapita perché se ne andava in giro, per di più senza scorta. Se se ne fosse stata “ragionevolmente” rintanata in albergo a seguire le agenzie sul suo pc portatile come molti suoi colleghi sicuramente non avrebbero potuto rapirla. Non mi pare sia un concetto difficile da comprendere.
    Premesso che non condivido molta della sua analisi, riconosco in lei l’indomabile volontà di andare a sondare la verità anche dove fa meno comodo, o dove è più pericoloso. Il mio pezzo, ovviamente, non aveva nessun intento polemico nei suoi confronti, né contro quelli che fanno “giornalismo coi piedi”, per riprendere la bella citazione di Carla Benedetti. Me la sono presa (spero senza eccessi) con chi fa le inchieste senza alzare il telefono, senza provare a fare interviste mirate, senza cercare di proporre una struttura argomentativa a quel che scrive, e si limita a ricliclare quel che circola nella rete. Purtroppo le librerie e i giornali sono piene di “inchieste” di questo tipo.
    Non mi sembrava che quel che ho scritto potesse dar adito a intepretazioni come la tua, ma evidentemente qualcosa non ha funzionato nella mia esposizione, e quindi vale la pena di chiarire il concetto: Giuliana Sgrena è una giornalista che sta rischiando la vita per aver voluto fare il suo mestiere. Ci sono purtroppo suoi colleghi che pensano di ottenere la verità senza particolari sforzi, con qualche click sul sito giusto. Era questo atteggiamento rinunciatario e un po’ infantile l’oggetto della mia critica.

  4. Non era così chiaro: si poteva pensare ad altri significati (neutralizzata perchè scomoda, vedi Ilaria Alpi ed altri).
    Resta il fatto che funzionari, attivisti e giornalisti sono stati prelevati anche dalle proprie residenze o nel tragitto albergo-ristorante. La pericolosità è nel luogo oltre che nella lodevole e purtroppo rara volontà di guardare e ascoltare di persona.
    Ma era solo un dettaglio: ho apprezzato il pezzo.

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