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Appunti sparsi sul “popolare”

di Franz Krauspenhaar

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Sapete una cosa? (Sempre che ve ne importi). Io non ci capisco quasi più niente. Resto però fermo su poche convinzioni: al momento attuale la letteratura non è popolare. Perché dovrebbe esserlo? Non è abbastanza popolare nemmeno il cinema. E’ popolare la fiction televisiva, specie quella propagandistica. Ho letto i commenti su Lipperatura, l’intervento di Beppe Sebaste e quello di Giuseppe Genna, l’articolo di Cristina Taglietti sul Corriere, il parere di Edoardo Sanguineti, grandissimo poeta, fumatore accanito, tombeur de femmes, e poi il parere di Sebastiano Vassalli, la replica di Carla Benedetti, e poi ancora, sul Corriere, l’intervento di un editore, Fanucci, e altri post qui, come l’intervento di Antonio Moresco.

Le discussioni vanno avanti, il tempo passa. Ma io continuo a non capire. E’ un mio limite. Intendiamoci: è stato salutare questo scambio d’idee, e sono sempre dell’avviso che certe cose andavano dette dagli scrittori, da critici credenti nella letteratura come Carla Benedetti, da scrittori con più o meno copie vendute all’attivo, da anonimi, da addetti ai lavori editoriali, da lettori, da aspiranti scrittori, da cazzari in servizio permanente effettivo. Ma a me resta una sensazione di omologazione anche in questa polemica. Perché lo è, una vera polemica? Ci sono davvero schieramenti contrapposti? E’ in atto una vera guerra? Se così fosse, a mio modesto parere, forse sarebbe meglio: da una parte, schierati a baionette innestate, i fautori di una letteratura di progetto; e dall’ altra coloro che amano il popolare che con la letteratura di progetto, al momento attuale, non ha proprio nulla a che spartire. Invece molti di noi – questa è la mia impressione- stanno contemporaneamente da una parte e dell’altra, me compreso; non riescono a schierarsi, non ce la fanno proprio. Non riusciamo a schierarci; e questo credo sia un limite proprio della nostra società spettacolarizzata ma anche del fatto che molti di noi, cioè i quarantenni e i trentenni di oggi, sono figli di una società spettacolarizzata da gran tempo; la quale infatti è nata molto prima dell’avvento delle tivu del Biscione che Striscia Non Solo La Notizia. Siamo cresciuti a merendine Kinder tuttora presenti sugli scaffali degli ipermercati, i più “anziani” di noi non ricordano ovviamente i propri vagiti ma lo slogan di Calimero si: il pulcino che usciva dall’uovo totalmente inzuppato d’inchiostro… Siamo figli della televisione e della cultura di massa, la quale cultura di massa è – come sempre è stata- cultura popolare. Ecco, io credo di intravedere nella mancanza di una vera guerra tra le due parti proprio il fatto – apparentemente banale – che i contendenti vengono più o meno tutti dalle stesse esperienze di cultura popolare del vagito. Aldo Nove, e cito uno scrittore importante, è figlio di questa cultura con la consapevolezza dell’intellettuale avvertito, ma non viene a parlarci dell’India e delle sue suggestioni, non ci parla idealmente da un campo di battaglia, non è il Boell a me tanto caro che racconta la sua guerra e il suo dopoguerra in Germania, non è neanche Piero Caleffi con il suo “Si fa presto a dire fame” dove egli parla di lager nazisti nei quali si faceva presto a morire di fame; lui viene a parlarci, tra le altre cose, di Santo Domingo, laddove Fininvest investe a tappeto rollante, laddove sbarcano veline e suggestioni da prima serata palinsestica. Lui prende il mondo deflagrato dalla tivu e ne fa in certo modo carne di porco con la sua personale poetica. Potrei fare innumerevoli altri esempi di scrittori contemporanei di valore e che agiscono fuori e dentro i cosiddetti generi. Si, cosiddetti. Perché il discorso è che secondo me non esistono più i generi, in letteratura. Forse, azzardo, non sono mai esistiti. La letteratura a mio avviso è soltanto un genere artistico. Come il cinema. Come le altre arti. Tra letteratura e cinema ( e televisione per quanto riguarda il cascame) c’è più familiarità, ci sono suggestioni interscambiate, c’è un abbraccio anche se talvolta mortale. Forse non ha più senso parlare di libri e film, sono in fondo la stessa cosa. Anche perché la scrittura oggi più che mai s’abbevera alla fonte delle immagini cinematografiche, così come a loro volta le immagini cinematografiche s’abbeverano alla fonte delle parole scritte su di una sceneggiatura che a sua volta si è creata sulle pagine di un romanzo. Figuriamoci se esistono davvero i generi all’interno di quella che ci ostiniamo ancora a chiamare letteratura: il noir, il giallo, il romanzo di denuncia, il romanzo sociale, il romanzo popolare… Sono solo etichette e pure ingiallite, e mi pare che molti cadano ancora nell’equivoco di nominarle a ogni piè sospinto – che però, questo, non è proprio un vero equivoco bensì una semplificazione commerciale. E’ naturale, per chi vende un prodotto (e l’arte è un prodotto, su questo non si scappa né da questo si scampa) creare delle scaffalature. Altro discorso è, da parte di chi l’arte la fa, ripetere i “mantra dello scaffale”: “il noir è, meglio di tanti altri, il genere che più rappresenta la realtà che stiamo vivendo”, per esempio. E’ un decennio almeno che lo sento ripetere, il mantra. Ma vi siete mai fatti, una volta, questa semplice domanda? E cioè: ce ne dobbiamo proprio fottere per forza della realtà? Siamo pieni zeppi di realtà, – quella delle nostre vite quotidiane nelle quali sono oltretutto entrate a frotte di pixel le reality vite da show della televisione; e dunque perché bisognerebbe per forza farne arte? Il romanzo sociale? Il grande affresco che tutto spieghi, come se la letteratura dovesse per forza spiegare e non evocare? Sarebbe bello, lo dico anch’io; solo che penso sia sempre più difficile farlo fino in fondo. L’epica? Non è cosa buona per queste nostre stagioni del disincanto, queste quattro stagioni saltate di palo in frasca in padella passando naturalmente dalla brace. Insomma: rappresentare la realtà, io credo, è addirittura fare un passo indietro, poiché oggi come non mai la realtà si rappresenta da sola, e resistere a questa realtà con le pagine dei libri è uno sforzo spesso inutile; poiché la tivu, sulla realtà benché distorta e fittizia ma vera comunque, (perché il fittizio e il distorto, e finanche le allucinazioni e le psicosi collettive sono vere, sono fatti) vince la partita sulla letteratura ma anche sul cinema col punteggio di dieci a zero. Rivolgerci alla musica per capire la realtà? Peggio che andar di notte: la musica ci fa evadere totalmente, è evasione totale dalla realtà; se ascolti Mahler, Stravinsky, un compositore contemporaneo come Arvo Parti, se ascolti Charles Ives, se ascolti per esempio l’Aaron Copland di “Short Simphony”, sei meravigliosamente fuori dalla realtà, sei nella gioia o nel mito o nel dolore o nello struggimento più pieno e avvertito o tutto questo insieme; tutto meno che nella realtà esterna, però, nella realtà sociale. Sei nella tua realtà interna di sensazioni, invece, sei nel tuo piccolo o grande o miserevole privato. E allora perché la letteratura dovrebbe sempre e comunque attaccarsi come in un dogma alla rappresentazione o alla svelazione di ciò che succede in realtà e al di fuori?Io, tra parentesi, sono un amante appassionato del noir, il noir lo pratico da anni; e lo pratico a tal punto nella mia “officina” che il mio prossimo libro sarà per l’appunto- scaffalamente parlando- un noir. Ma anticipo subito che di raccontare la società che ci circonda non m’è importato nulla, nello stenderlo. Altri colleghi sono bravissimi nel far questo, nel fare questo tentativo spesso riuscito. Io no; io penso alla musica, ho delle visioni di ferro, di fuoco, mi faccio suggestionare dalla fantasia mia e di altri che sono venuti prima di me.
Cosa è popolare? La televisione, un po’ meno il cinema. Cosa è popolare ma solo a tratti? La letteratura. Il tentativo da fare, anzi la battaglia da compiere, è quella di rendere popolare anche la letteratura di qualità, cioè di rendere questo “insindacabilmente alto” popolare a un pubblico molto più vasto. Per far questo un dibattito come quello che ancora si sta svolgendo sul web e anche sui giornali credo sia utile, perlomeno per creare un circolo di idee e suggestioni, per capire, per imparare, per imparare a capire, per conoscersi. Contrapporsi duramente potrebbe essere un choc insopportabile in un momento storico nel quale siamo tutti troppo coinvolti dal magma, troppo dentro al magma, troppo asfissiati da un mondo e da una società confuse che ci rende confusi. E’ anche un bene, questo; significa in qualche modo che le ideologie politiche che nel Novecento ci hanno portato fino al baratro di milioni di morti innocenti sono in via di disfacimento, sono cascame. Ora nello scaffale “propaganda” impera il dispotismo morbido della televisione non più pedagogica ma pubblicitaria. Non aggiungo propagandistica perché è lapalissiano che lo è, come lo era ai tempi di Bernabei e delle calzamaglie indossate per “pudore” dalle Kessler che facevano arrapare i maschi italiani di una volta. E ho il sospetto, detto per inciso, che quegli arrapamenti italianomedi fossero molto più forti di quelli provocati dalle nostre simpatiche veline acqua e Danone.
Per concludere: a mio avviso tutto è potenzialmente popolare. Anche le cose più avvertite come impopolari, magari compiute col preciso scopo di non essere popolari. Tutti vorrebbero vendere milioni di copie (non riesco a credere diversamente) ma il problema è che gli spazi di popolarità sono davvero ristretti. Il vero nemico della letteratura, presa come genere di fatto impopolare, (nel senso che il popolo al momento attuale non è né interessato né a conoscenza di ciò che accade nel mondo della letteratura) è la televisione. Non è Faletti il nemico, lui fa il nostro mestiere, lui scrive. Il nemico è una fiction propagandistica che non ci porta da nessuna parte, sulla quale non s’innesca nessun dibattito serio, nessuno spunto reale e vitale. Mentre il cinema ha con la letteratura rapporti strettissimi, di contaminazione continua. Io credo molto nella contaminazione tra le arti; ecco perché, in questi miei appunti sparsi e probabilmente confusi, ho insistito – forse fino a sfiancare- su questo punto.

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4 Commenti

  1. E pensa un po’ quanto risulti impopolare la Teologia, oggi più che mai. Persino i filosofi non la conoscono. La scienza mi sembra popolare. Un fatto è scientifico se ha consenso sociale.
    Nessuno (quasi) sa cos’è il quark, eppure nessuno mette in dubbio la sua esistenza. Il quark è stato raggiunto dal consenso sociale, dunque esiste. Enazione. Enattivo.

  2. Beh, io sono d’accordo. Per forza. Poi mi chiedo: ma chi se ne frega se io sono d’accordo? cosa vuol dire “essere d’accordo” con le parole di qualcun altro? Tentativi di risposta: già il fatto che qualcuno si prende la briga di pensare, e di verbalizzare i propri pensieri, mi risulta toccante. è vero poi che anche faletti scrive; cosa dire allora di uno che scrive mentre pensa? e così sono intimamente in accordo col fatto di far parte di quella minoranza che, circondati di televisione, scrivono e pensano. so che là fuori – fuori dalla mia finestra – le attività intellettive e verbali sono rare, e spesso non molto piu’ complesse di un acquisto o di un rutto. ma poi? sono dunque d’accordo perché confermato a me stesso? no, questa è la fonte di ogni mia angoscia relazionale: non amo essere confermato a me stesso, solitudine con o senza cogito. quindi, mentre dico e penso che sono d’accordo, capisco che ogni eventuale interrogazione soggiacente resta intatta, che ogni risposta contiene interamente il senso dela domanda. e non si placherebbe nemmeno se fossi letto da milioni di persone. come integrare pensieroi e parole nella vita, e viceversa, resta l’orizzonte… grazie a franz k. della sua riflessione, scusandomi della mia inconcludenza.

  3. Io vedo, appunto, che i confini sono labili tra i generi, anzi si sfumano sempre più come hai detto tu, Franz.
    Forse andiamo verso un tempo, un luogo ove cesseranno man mano le carte scritte per essere sostituite da files di parole ed immagini che compariranno su monitors privi di filo(come in parte già succede).
    E’ solo una questione di tecnica, tempo e costi ed avremo romanzi/racconti su sfondo variabile: anche a scelta, chi ci metterà il suo fondino rosa, chi le ballerine coscialunga, chi una Smith & Wesson, chi Padre Pio o la scenografia fornita dalla ditta premiatissima.
    Avremo il romanzo interattivo colorato con variabilità di finale e ritmo musicale in sottofondo( a scelta).

    A seconda dei “gusti” o delle “mode” o trend che dir si voglia.
    E quasi nessuno ha parlato sulle varie colonne di “gusto”: pare parola desueta o volutamente cacciata in cantone o aborrita.
    Invece è parola serissima che va a braccetto con moda.
    Infatti c’è chi ci ha il gusto dell’horror, quello degli incasinamenti familiari o saghe, quello del complotto grandioso e finale e via dicendo.
    Per la moda poi, lasciamo perdere, che fino ad un paio di annifa vigeva la carverite acuta: tutto andava carverizzato o gordonlisciato, asciugato, tagliuzzato mentre qualche tempo prima bisognava esibire almeno un lacerto saguinolento di fegataccio umano e vulva spatasciata per essere considerato valente scrittore contemporaneoda alcuni, dico alcuni.

    Quello che ora temo di più è l’omologazione del linguaggio, la perdità di indentità e ricchezza di vocaboli e possibilità costruttive della lingua, proprio della nostra lingua; per quanto credo che tra pochi decenni scriveremo, anzi scriverete, tutti in inglese.

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