BerluSpinning. Il premier come trainer #1

di Giorgio Vasta

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Ci sono retoriche – anche retoriche politiche e di configurazione sociale – che si incarnano in un’attività fisica, in un impegno muscolare e agonistico. Lottare, ad esempio, oppure correre, tirare di scherma, pedalare.

Per la prima volta ne ho sentito parlare tre anni fa. Mi ero iscritto a una palestra a due passi da casa – economica, scalcinata, essenziale. Quello che mi serviva. Desideravo recuperare un po’ di forma, di tono muscolare, un minimo di elasticità, di postura, eventualmente persino vigore. Prima dei fisiologici prolassi, del crollo dei pannicoli, della disgregazione delle adipi. Avevo bisogno di stancarmi fisicamente per dormire meglio la notte e per favorire la digestione.

Avevo fatto l’iscrizione base, quella che ti permette soltanto l’utilizzo della sala attrezzi, rinunciando così a tutte le altre attività, dal tone up al tai-chi al cosiddetto “gag” (gambe addome glutei). Prevedevano orari precisi, lavoro di gruppo, la presenza di un istruttore. E poi, al di là di questo, mi imbarazzavano in sé, mi davano la sensazione di un coinvolgimento eccessivo, di affiliazione. Preferivo un’attività più solitaria, persino introversa, crepuscolare.

Con questa iscrizione rinunciavo anche, ma ancora non lo sapevo, allo spinning. La parola la leggevo scritta su una serie di cartelli pubblicitari affissi sugli specchi della sala attrezzi. Si pubblicizzavano le lezioni, si insisteva sul portato rivoluzionario – quasi da scoperta scientifico-sportiva – della disciplina, si sollecitava una presenza massiccia e determinata, addirittura aggressiva, rabbiosa.

In basso a destra di ogni cartello si vedeva il logo ufficiale e internazionale dello spinning, una sagomina umana bordata bianca, di profilo (un fantasma), china su una bicicletta stilizzata, inesistente, l’ordigno umano-macchinico proiettato a una velocità tale da scomparire a se stesso e suscitare una scia fluorescente (a ripensarci, il logo internazionale dello spinning ha qualcosa della “linea” di Osvaldo Cavandoli. Meno petulante, meno rancorosa, ma ugualmente torva e arcigna).

La sala spinning era – ed è ancora – al piano seminterrato della palestra. Qualcosa di esclusivamente immaginato – nel senso che non ho riscontri empirici per sostenerlo – mi dà la certezza che lo spinning venga praticato sempre, in tutte le palestre di tutto il mondo, in ambienti di questo genere, raggiungibili scendendo una scaletta che conduce a una sala senza finestre e dal soffitto basso, il pavimento di linoleum grigio, tappezzata di specchi e illuminata da luci al neon giallastre, interamente cosparsa di particolari cyclette uso training.

Allenandomi al piano superiore, e non avendo nessuna particolare curiosità, questa sala io non la vedevo mai. Adesso la conosco perché, riscrittomi nella stessa palestra qualche mese fa (dopo una pausa di due anni nel corso dei quali ho nuovamente perduto quel po’ di tono che avevo messo insieme durante il mio primo periodo di allenamento), sono stato invitato una volta – gratuitamente e perché si era per caso liberato un posto proprio quella sera – a seguire una seduta di spinning.

Segnali
Non la vedevo, questa sala, dicevo, ma la ascoltavo attentamente. A un certo punto, mettiamo alle sette meno cinque di sera, notavo un manipolo eterogeneo di “spinners” imboccare sgranati la scaletta e scendere giù. Alcuni molto casual, gli asciugamano disfatti su una spalla o abbandonati intorno al collo come un boa di struzzo, altri estremamente professionali, con addosso pantaloncini elastici neri rinforzati nella zona perianale e urogenitale, e magliette fabbricate in una fibra sintetica specifica, adatta a questo genere di allenamento (quasi sempre di colore giallo oppure blu, con dei disegni a squame sul petto). C’erano anche due che reggevano in una mano un sellino personale, ergonomico, a forma di testa di alligatore. Ma di gomma durissima, bicolore.

Il gruppo scompariva in fondo alle scale. Seduto su una panca a rifiatare tra un esercizio e l’altro, guardavo le ultime nuche oscillare al giroscala e scomparire. A quel punto, rumori di assestamento – un colpo di tosse, un saluto, la frizione di una para sul linoleum, il tonfo di una sacca, il vetro di una bottiglietta che batte piano penetrando nel cestello ogivale della bicicletta. Poi, un secondo esatto di silenzio (non “un secondo” per modo di dire, come si dice “ci metto cinque minuti”, no: proprio un secondo esatto, cubico, racchiuso nelle sue pareti lisce e dure, vuoto dentro, un blocco di assenza di suoni che provenendo dal basso della palestra proliferava fino al piano terra paralizzando per contagio ogni sorgente sonora).
Un secondo esatto di silenzio. Poi, per un’ora, la musica a volume altissimo, e le urla dell’allenatore.
Incomprensibili.
Non comprese.

Un’ora dopo, sempre seduto su una panca a rifiatare tra un esercizio e l’altro (in palestra io principalmente rifiato tra un esercizio e l’altro), li vedevo risalire. Sorridenti e affranti insieme, gli asciugamano attorcigliati, chiazzati di crateri e di spolpature del tessuto, i pantaloncini elastici strettissimi, risucchiati verso l’interno coscia e zeppi di piegoline, il sellino ergonomico che ciondolava appeso a due dita, sbatacchiante molle contro il tendine rotuleo. Si avviavano così verso gli spogliatoi, e pur non potendo sentire le loro parole, la sensazione era quella di una solidarietà saldissima, quella che si instaura tra chi ha condiviso una prova, una trincea, quella che rende compagni.
L’impressione però, ogni volta, era che ne risalissero meno di quanti ne erano scesi (lo spettro di fosse comuni dissimulate in qualche recesso del seminterrato). Non sulla base di un conteggio preciso, di una verifica, ma solo così, a pelle. Impressione suffragata però dalla constatazione dell’esistenza negli spogliatoi di armadietti sempre chiusi – il secondo da sinistra nella fila superiore, ad esempio, o il quart’ultimo della fila inferiore. I lucchetti inerti, immobili nella stessa posizione, la scritta YALE-ITALIA impressa sulla placca dorata, evanescente, il gambo metallico ricurvo progressivamente sempre più opacizzato. Urne, archivi, effetti personali segregati. Vasi di Pandora prudentemente ignorati dagli altri atleti in accappatoio, in mutande, con le dita immerse nel nodo della cravatta, davanti allo specchio umido.

Le urla, dicevo, non riuscivo a comprenderle. Continuavo a sentirle scrosciare dal basso senza possibilità di decifrazione. A un certo punto, nell’ultimo periodo della mia prima iscrizione in palestra, allo spinning non facevo più caso. Era diventato un mälström generico, un vortice casuale di gas sportivo, una delle diverse espansioni della sala attrezzi verso regioni dell’attività fisica a me precluse. Mi ci sono abituato, me ne sono dimenticato.

Fino a qualche mese fa quando, come ho detto, ho deciso di riscrivermi in palestra e per un caso fortuito ho avuto modo di partecipare a una seduta. Uno degli iscritti non era arrivato e il proprietario della palestra, pur sapendo che io non ero interessato ma immaginando in questo modo di motivarmi, mi aveva proposto di prendere il suo posto. Anche se soltanto per mezz’ora. Non perché fossero state poste delle condizioni alla mia presenza alla seduta ma perché più di trenta minuti non sono riuscito fisicamente – e psicologicamente – a resistere.
A quel punto ho potuto ascoltare, ho potuto vedere. Ho compreso le frasi, ho verificato che fosse comuni non ce ne sono, che la solidarietà presentita è del tutto reale e che gli armadietti degli spogliatoi erano chiusi per ragioni imponderabili ma non necrologiche.
E mi sono fatto un’idea dello spinning che trascendendo lo specifico sportivo si irradia fino a permettermi di concepire questa disciplina come una delle più potenti metafore della nostra cultura politica e sociale contemporanea.
Il nostro Zeitgeist, insomma.

Fondamenti anatomofisiologici di una seduta di spinning
A una seduta di spinning partecipano di norma da dieci a venti persone. Periodicamente vengono organizzati dei megaraduni – secondo la stagione anche all’aperto – che prevedono sedute di allenamento rivolte a centinaia di partecipanti. Sono come delle messe atletiche, delle liturgie del sudore consacrato e benedetto, dove al posto delle panche con inginocchiatoio di legno ci sono le cyclette, mentre al posto dell’officiante c’è un istruttore professionista che descrive un paesaggio invisibile (probabilmente interiore) ed esorta ad attraversarlo suggerendo tecniche di resistenza alla fatica che prevedono la capitalizzazione del proprio patrimonio energetico e la sua parsimoniosa distillazione secondo necessità.
Ma andiamo con ordine.

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In una palestra di dimensioni mediopiccole come la mia, gli iscritti che hanno inserito lo spinning tra le proprie attività devono prenotare la seduta. Nel seminterrato c’è posto per circa dodici macchine, quindi l’accesso all’allenamento è necessariamente filtrato e pianificato. Se non si riesce ad accedere subito, si ha automaticamente diritto a partecipare alla seduta successiva (che può essere il giorno dopo o anche il giorno stesso).
All’orario di inizio della seduta, gli spinner raggiungono la sala e prendono posto sulle macchine. Chi ha deciso di acquistare un particolare sellino, magari calibrato sulla forma e la consistenza delle proprie terga, svita dalla macchina il sellino standard e monta il proprio. Le bottigliette di acqua o di Gatorade vengono inserite nel cestello, gli asciugamano sono posti a cavallo del manubrio o poggiati sulle spalle. Arriva l’istruttore (sempre per ultimo, come un ospite d’onore). Gli spinners montano in sella. Si comincia.

Nel seminterrato le bike non sono allineate in file o in colonne ma disposte sfalsate. Non mi è chiaro se questo discenda dalla necessità di assecondare le caratteristiche dello spazio, la peculiare morfologia del luogo (un pilastro-totem che incombe al centro della sala, la rientranza improvvisa di una parete, un aggetto, una nicchia), oppure dall’intenzione strategica di comunicare la sensazione di far parte di uno stormo, le frecce tricolore dello spinning, ogni atleta immerso nella geometria puntiforme della formazione, parzialmente consapevole del disegno complessivo che solo il trainer-conduttore è in grado di apprezzare appieno (mi rendo conto dei limiti di questa mia supposizione generalizzante: in altre palestre le cose potrebbero stare diversamente – nel senso che le bike potrebbero essere disposte parallele le une alle all’altre e ordinate in file precise, con la compattezza della testuggine romana, senza sbavature nel design complessivo della sala – ma tendo a pensare che quelle sarebbero soltanto le eccezioni alla regola archetipica della mia palestra: lo stormo, il brulichio immobile).

Il trainer davanti a noi
Il trainer, appunto. La sua macchina sta di fronte allo stormo, in posizione di poco sopraelevata – una trentina di centimetri – perché montata sopra una pedana. Al suo fianco (nell’assetto della mia palestra, al suo fianco destro), una consolle, controllabile allungando un braccio, dalla quale è modulata l’erogazione della colonna sonora, struttura integrante, addirittura imprescindibile, di ogni seduta di spinning.
Il trainer indossa solitamente un costume elasticizzato intero. Il modello è un po’ anni Venti, la parte superiore a canottiera, quella inferiore a calzoncini aderenti. Essendo la complessione muscolare del trainer particolarmente sviluppata, il costume appare in ininterrotta tensione, il tessuto elasticizzato espanso fino ai propri limiti, il sistema delle fibre forzato fino alla smagliatura. Ma non accade nessun disastro tessile, il costume resterà intatto per tutta la durata dell’allenamento.

Il trainer indossa un fischietto. Gli serve a farsi sentire dallo stormo nei momenti di maggiore orgasmo euforico-atletico, quando ogni spinner rischia di essere sopraffatto dal volume della musica ma soprattutto dal caos della propria respirazione che non evolve, si trattiene e si ingolfa tra bocca polmoni e orecchie. Ricorrendo alle frustate acustiche che solo un certo uso del fischietto può infliggere, il trainer recupera l’attenzione del gruppo, rinserra i ranghi, indica la nuova direzione nella quale muoversi e cadenza il ritmo della pedalata per restituire coesione e disciplina.

Il trainer, pur nella assoluta professionalità del suo ruolo – una professionalità del pedale e della respirazione guadagnata a costo di corsi di specializzazione seguiti anche al di fuori dei confini nazionali, spesso negli Stati Uniti, patria dello spinning – ha di solito (o ha avuto) una relazione breve, niente di più di un flirt giocoso, con una o più delle allieve che seguono le sue sedute, il che rende comprensibile la frequenza dei sorrisi specifici e degli ammiccamenti, nonché di alcuni diversamente imponderabili doppi sensi atletico-erotici, che il trainer medesimo rivolge all’apparenza alla totalità del gruppo, interloquendo in realtà, carsicamente, di volta in volta con una determinata partecipante. La possibilità, o meglio la pressoché assoluta certezza di queste liason, non deve in nessun modo scandalizzare e come detto non deve condurre a dubitare della preparazione complessiva dell’istruttore di spinning. Piuttosto, questo fenomeno andrebbe ascritto al più generale gioco di seduzione che lo spinning prevede, una seduzione che in alcuni casi non si limita a esistere come atmosfera ma viene a declinarsi in veri e propri incontri carnali, un concretizzarsi di quella stessa atmosfera, un passaggio di stato, dal gassoso al solido, che non fa altro che ribadire il necessario connotato magico-pervertitore del trainer e del training in questione.

Gli specchi narratori
Coerentemente alla qualità seduttiva di cui sopra, nel corso di una seduta di spinning, basilare è il ruolo degli specchi. Nel 99% dei casi, l’ambiente fisico dello spinning prevede che le pareti siano per intero rivestite di specchi, pannelli rettangolari perfettamente levigati, pulitissimi – al limite, e comunque dopo un’ora di allenamento, leggermente cosparsi di aloni opalescenti, risultato dell’evaporazione dei corpi (è da evitare, se è possibile, che le commessure tra un pannello e l’altro siano superiori ai due centimetri, questo per non compromettere con una striscia verticale di intonaco la particolare messinscena).
L’effetto degli specchi non è semplicemente quello, come si potrebbe – semplificando e banalizzando – pensare, di amplificare le dimensioni spaziali del seminterrato, bensì quello di modificare la percezione psicologica – verrebbe da dire esistenziale – che ogni partecipante alla seduta avrà di se stesso, dei propri compagni e dello spinning in generale. Gli specchi, circondando su tutte e quattro le pareti, includono di fatto ogni corpo e ogni oggetto in una dinamica di rifrazione che produce un effetto di sospensione della realtà attraverso la moltiplicazione della realtà stessa, una sospensione della realtà che non potrà che condurre a dubitare della propria presenza nello spazio (e nel tempo, e nella logica), con conseguente destabilizzazione del cosiddetto “io” e sua quasi del tutto incondizionata suggestionabilità, condizione che senza dubbio comporta dei rischi (simili a quelli magnificamente illustrati nella famosissima scena conclusiva di quella tragedia degli equivoci che è La Signora di Shangai di Orson Welles), ma anche, come è noto, una quantità incalcolabile di vantaggi.

Lo spaesamento generato dall’allusione violenta ad altre possibili e contemporanee realtà – spaesamento fra l’altro accentuato dalle particolari condizioni fisiche di affaticamento e smarrimento della lucidità, della capacità di analisi e di giudizio – è una componente chiarissima del carattere seduttivo dello spinning ed è uno stato d’animo che ogni trainer sa perfettamente contenere e finalizzare. Gli allievi, storditi dalla diffusa ambiguità percettiva nella quale si trovano immersi, non potranno che riconoscere nella voce del trainer un appiglio concreto, un solido dato di realtà immobile e rassicurante, statica e istituzionalizzata, condivisa, nonché latrice di motivazioni, attribuendogli dunque il potere mitico di un condottiero (è da notare che l’effetto di incertezza della realtà determinato dalla sua moltiplicazione indiscriminata è paragonabile a quello che accade con le narrazioni, l’esposizione frequente e prolungata alle quali produce un senso di delocalizzazione ed estraneità del cosiddetto “io” a se stesso, nonché di sistematica insoddisfazione e svalutazione nei confronti della realtà madre. Il che chiarisce perché narrare è sempre un’assunzione di potere e di responsabilità).

Sempre più frequente, tra Stati Uniti ed Europa – e a quanto pare l’Italia si sta rivelando in tal senso un paese molto reattivo – la sostituzione degli specchi con gli schermi televisivi, che avvolgeranno quindi gli spinner “in action” in un continuo articolato insuperabile groviglio di barbagli luminosi.

Un artista contemporaneo danese, Martin Elkjar, ha ironicamente sintetizzato la condizione dello spinner contemporaneo realizzando una installazione in principio criptica e poi man mano sempre più leggibile e sorprendente.
All’interno di una sala ginnica, accoccolati su vere bike da spinning nella postura canonica della pedalata più intensa, una decina di manichini abbigliati ognuno in guisa di soldato del 7° cavalleria dell’esercito americano del secondo ‘800, le divise blu scuro insanguinate, gli stivali costretti a forza nelle staffe; di fronte ai manichini-soldati, al posto che occuperebbe il trainer, un manichino modellato sull’effigie del Generale Custer, completo di barba e pizzetto biondo-oro, coerentemente con l’iconografia classica, la sciabola luccicante sguainata verso l’alto, l’altra mano a stringere il manubrio della bike. Conficcate sui corpi dei soldati e del Generale (triplicemente attraversato da parte a parte – alla gamba sinistra ancora pedalante, al braccio destro levato in alto con la sciabola, e al collo delineato nel più prepotente turgore), nonché sui sellini e sullo stesso pavimento in linoleum, una grande quantità di frecce. A circondare detto consesso, pareti di schermi televisivi dai quali, senza soluzione di continuità, incombe un brutalissimo assalto di Sioux – tutti a cavallo e dardeggianti frecce dai loro archi – ottenuto montando sequenze di più western degli anni ’50, epoca deducibile dalla particolare qualità della luce, insieme brillante e gassosa, del tutto artificiale.
Il titolo dell’opera, cronachistico ed essenziale, incluso nell’opera stessa a simulare, sopra il Generale, il cartello con il nome del corso di spinning, recita semplicemente: 25 giugno 1876, Little Big Horn.

Diametro di una colonna sonora
Il trainer, si accennava prima, dalla propria postazione è in grado di controllare la consolle musicale. A questo punto, prima di dettagliare, va fatta una precisazione.
L’impostazione formale di una palestra che vuole concepirsi moderna prevede canonicamente la diffusione costante, dal mattino presto alla sera, della musica. Nelle sale attrezzi, quelle cioè nelle quali il lavoro di gruppo non è coordinato da un istruttore ma si sviluppa individualmente e per lo più silenziosamente (quasi ostilmente), sono anche presenti, di solito fissati in alto, a circa due metri e mezzo di altezza, degli apparecchi televisivi sintonizzati tutti su canali che vanno dal più canonico Mtv ai canali monografici sullo sport (approfonditi documentari sulla pesca alla razza cornuta o al totano selvatico, campionati mondiali di nuoto sincronizzato, gare provinciali di tiro al piattello, interminabili partite di golf, prati e prati lentissimamente attraversati da giocatori e caddies, percepibili a intermittenza, sollevandosi e ridistendendosi sulla panca negli addominali, o rifiatando tra un esercizio e l’altro) fino a canali dalla fisionomia irrintracciabile (ne ricordo uno che trasmetteva soltanto ed esclusivamente, ventiquattro ore al giorno, gare di trattori per l’agricoltura, su pista e su campi da cross). Quasi sempre, però, tranne nel caso di Mtv, i televisori stanno accesi ma senza volume. Al loro posto, mentre è possibile assistere all’ennesima combattutissima gara di corsa nei sacchi dello Yucatan, viene diffusa la musica. Questa musica è unicamente quella delle cosiddette play-list, vale a dire quella che le case discografiche, foraggiando le radio pubbliche e private, impongono nella programmazione. Ne deriva che l’unica musica ascoltabile nelle sale attrezzi delle palestre è quella del – si dice così – “momento”. Il problema è che quasi sempre questo “momento” è un brutto momento, e la scelta dei pezzi lascia a desiderare. Carattere ricorrente dei pezzi proposti-imposti è quello di rappresentare una particolare idea di contemporaneità, quella dell’intrattenimento, della vanificazione del passato e dell’estensione illimitata del presente, estensione ottenuta attraverso la ripetizione parossistica, infinita, per settimane, delle stesse cinque-dieci canzoni.

La musica che il trainer-dee jay utilizza per accompagnare la seduta di spinning ha invece connotati diversi. In teoria sarebbe sufficiente scendere una piccola rampa di scale per spostarsi da un ambiente sonoro ipercinetico e arrogante, invincibilmente appiattito sulla appena descritta idea di presente – quello della sala attrezzi – a uno invece più plastico ed eterogeneo, nel quale ai pezzi più ferocemente ritmati, ai limiti della techno, si alternano tracce sonore lievi e concilianti. Questa maggiore duttilità ha una funzione ben precisa, una funzione fondamentale, senza la quale lo stesso concetto di spinning risulterebbe dimidiato. Il ventaglio di possibili varianti musicali tra le quali il trainer può scegliere ha l’obiettivo di modellare i diversi momenti della seduta sulle diverse ritmiche, sui diversi volumi e sulle differenti “poetiche” che ogni brano propone. E intendo proprio modellare. Nel senso che ogni seduta di spinning è presentata non come un generico allenamento indoor, ma come un vero e proprio viaggio visionario, come un attraversamento di territori, come quello che ci permetteremmo andando a fare una passeggiata in bicicletta, in campagna, in estate. Non si pedala immobili dentro un seminterrato oscuro, no! Si sta viaggiando attraverso campi e colline, salite e pendii, sentieri argillosi e declivi, circondati da un paesaggio cangiante – alberi secolari, prati fioriti versicolori, crinali impercettibilmente innevati, sullo sfondo, dove cominciano le montagne. E tutto questo, il complesso di questa suggestione ottica, ottico-psicologica, è direttamente indotto dal trainer, che modulando il passaggio da un pezzo musicale più tosto e incisivo, funzionale a suscitare una pedalata più vigorosa, a un altro strategicamente più dolce, new age, quando la pedalata rallenta e il corpo si abbandona all’inerzia della discesa, comanda agli allievi, parlando nel suo microfonino appuntato al petto, la visione di un pozzo di pietra, il muschio che dolcemente lo ricopre, alla nostra destra, o di un salice piangente, malinconicissimo, che con le sue postreme fronde si china ad abbeverarsi sulla superficie di un laghetto palustre. Alla nostra sinistra.

(continua)

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4 Commenti

  1. Scrivo a nome dell’Unibuci. (Unione Italiana Buffoni del Circo).
    Abbiamo letto con sgomento la notizia della condanna del sig. Ricca, colpevole di aver dato del buffone al nostro presidente del consiglio. Da un
    lato è vero che l’epiteto non si addice all’eminente personaggio: noi facciamo ridere o sorridere la gente senza distinzioni di censo, Lui fa sorridere solo i ricchi (mentre spesso fa piangere i poveri).
    Dall’altro ribadiamo con forza che il nostro è un lavoro assolutamente onesto e dignitoso, e non vediamo perché il titolo di buffone debba essere equiparato a una contumelia. Per parte nostra non ci siamo mai permessi di
    ***offendere*** chicchessia dandogli del presidente del consiglio:-/
    Tanto dovevo precisare.
    Peter Lioa

    Presidente
    dell’Unione Italiana Buffoni del Circo

  2. In qualita di istruttore di spinning, nonché lettore di Nazione Indiana, non posso che dirmi esterrefatto dinanzi ad uno scrittocosì vaporoso.
    Io non so in quale covo il signor Vasta si sia trovato, fatto sta che tutto l’arrovellamento psichico mostrato per creare una metafora davvero minima e misera è sconsolante. Sconsolante per chi pratica e insegna tale disciplina. Che sia segno dei tempi è altro paio di manica; è un mezzo e come tale va preso. E se praticato bene(musica e tempi adeguati, altro che tecno!) porta alla smessa del dialogo interno. Non mi pare poco.
    Un’ultima cosa: è evidente che in pezzo come questo si fa retorica della retorica.
    Un pezzo inerte. Come un istruttore che per due tre quattro anni utilizza sempre la stessa musica, sempre con lo stesso cd sotto l’ascella prima di iniziare. Non va!

  3. Non so se abbracciare le considerazioni del primo o del terzo commento. In un certo senso non sono contrapposti come sembra. Molte delle cose che dici dello spinning, Giorgio, potrebbero tranquillamente essere attribuite ad altre discipline simili. Tutti e tre i pezzi, in ogni caso, andrebbero riconsiderati con calma e commentati più ampiamente. Spero di aver modo di farlo.

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