BerluSpinning. Il premier come trainer #2

di Giorgio Vasta

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Deduzioni e teorie
È evidente che l’ecosistema attraverso il quale il gruppo di spinner si sta muovendo non aderisce a regole biologiche, discendendo piuttosto dall’apparato retorico di immagini cosiddette suggestive e pittoresche che è patrimonio di ogni trainer di calibro.
Tutto questo ci porta nel cuore del fenomeno spinning.
Lo spinning è essenzialmente un’attività che pone come condizione centrale – come patto ineludibile, potremmo dire, e oseremo spingerci fino a parlare di “contratto” – la dissimulazione del dato di realtà. O, meglio, una interpretazione dissimulatrice del dato di realtà.

Nei trenta minuti trascorsi ancorato alla cyclette, accartocciato e rantolante, con la spina dorsale che crepitava e la muscolatura striata che dissolveva in fiocchi di cotone, io ero di fatto chiuso all’interno di un seminterrato. Sentivo caldo, sentivo puzza. Intorno a me c’erano altre dieci persone che si accanivano sui pedali e sul manubrio modificando l’impugnatura e la frequenza della pedalata, risollevando le spalle a un segnale del trainer o riaccoccolandosi a conchiglia quando si doveva scendere in picchiata lungo una forte pendenza.
Ora, io dico “scendere in picchiata”, dico “forte pendenza”, e nel dirlo visualizzo le condizioni orografiche che il trainer evocava man mano, ma se vengo fuori dall’incantamento e mi concentro bene sono certo che non c’era niente di tutto ciò. Ero chiuso in un seminterrato insieme ad altre dieci persone sudate e stanche come me, intorno a noi solo specchi appannati, la musica a tutto volume nelle orecchie che passava da una frequenza all’altra, la puzza stretta nel naso, il cuore che batte a casaccio, un senso di collasso incipiente, in via San Massimo 40d, a Torino, tempo fa.
Intorno a me non c’erano gli alberi, neanche uno, non c’era “quel lago bellissimo, verde smeraldo”, non c’era un diramare di sentieri di roccia, non c’erano mulattiere, non c’erano ferrate, non si vedeva nessun trenino di campagna sullo sfondo, di quelli “ancora” a vapore, non c’erano le colline del Monferrato, i vigneti, le Cinque Terre, non c’era nessun filare, non ce n’era neanche uno, neanche l’odore dell’uva nera, non c’erano vallate verde chiaro e verde scuro, nessun covone di fieno, nessuna casa di pietra alla mia destra, nessun recinto di legno con dentro le mucche, nessun cavallo, niente pecore, neppure gli struzzi, non una sola paperetta circondata e circonfusa da una nevicata di bianchissimi pulcini pigolanti. Non stavo attraversando, a cavallo del mio scintillante destriero meccanico, una pianura densa di aromi, non ho sentito mai un cinguettio (qualche cigolio, al limite), non ho osservato rapito la teoria delle nuvole bianchissime che si srotolava lenta nel cielo azzurro.
Nessun viaggio, nessuna esperienza sensoriale di rilievo, nessuna esperienza in sé. Soltanto il mio – il nostro? – tentativo disperato di stare al gioco, di accettare l’ipnosi.

A che cosa serve l’ipnosi
Accettare l’ipnosi ha diverse funzioni ma una sola è quella fondamentale: serve a neutralizzare la fatica. Serve, cioè, a far venire meno la consapevolezza di essere sfiatati e a pezzi, persuadendo che non solo esiste un viaggio e che si è in viaggio e che il viaggio ha un obiettivo meraviglioso, ma che altrettanto meraviglioso è lo spettacolo al quale è possibile assistere lungo il viaggio stesso.
Il trainer ha il compito fondamentale di persuadere lo spinner che tutto quello che sta accadendo è vero, che la sofferenza del divertimento è un valore, nonché il divertimento della sofferenza. Per riuscirci si affida a quello che potremmo chiamare “feticismo dell’euforia”, un sentimento di delirio costruttivo e polarizzato fondato sulla convinzione assoluta, dogmatica e apodittica, che esiste un tèlos riconoscibile e condivisibile, un obiettivo che tramite dedizione e ottimismo potrà e dovrà essere conseguito. È però indispensabile che lo sforzo quotidiano venga nebulizzato e trasfigurato in gioia estatica e in godimento ininterrotto. Tutto suono, niente fatica, è la frase ruggita dal trainer nel suo microfono durante la sessione di spinning. Il corpo, nella sua ignobile sincera stanchezza e nel suo orribile abbrutimento, è in realtà soltanto un’apparenza, un equivoco o un particolare trascurabile; tutto è suono, costruzione, raffigurazione retorica. L’autosuggestione si sostituisce alla constatazione oggettiva di quello che sta accadendo. La realtà – questo il sottotesto filosofico – è sempre e comunque messinscena.

Mentre, nel furore della corsa, gli organi interni mi si agglutinavano e successivamente si disfacevano, mentre l’impalcatura ossea si degradava a farinaceo sbriciolato, ricordo di avere visualizzato davanti a me un barlume di immagine mnemonica, un frammento di reportage giornalistico – di quelli realizzati con la telecamera nascosta – visto qualche anno fa in televisione. Era il periodo in cui sui giornali si era parlato tanto del caso della Tucker di Mirco Eusebi, il simil-imprenditore che aveva definito e potenziato quella struttura di affiliazione e di vendita piramidale che è il multilevel marketing. Nel barlume opalescente galleggiante a circa un metro davanti ai miei occhi – una molecola di visione appannata dallo stordimento del corpo sul sellino – avevo visualizzato la sagoma tarchiata dello stesso Eusebi, il completo blu, la cravatta azzurra schiumosa, una specie di tubo di scappamento grigio metallizzato tenuto tra le braccia come il rampollo di un re presentato ufficialmente ai giornalisti (ricordo di avere per un attimo percepito una cuffietta celeste infilata su un’estremità del tubo di scappamento). Ricordo Eusebi – il trainer dell’euforia – in piedi davanti a un gruppo numeroso di giovani italiani leggermente sovrappeso ma molto distinti, come se bilanciassero i chili in più tirando la pancia in dentro e dilatando il torace, anche loro in completo blu e cravatta azzurra schiumosa, anche loro in piedi. Eusebi descriveva l’organizzazione delle vendite, li esortava a essere i migliori, assicurava che tutti, nessuno escluso, sarebbero diventati come lui, ricchissimi, che la ricchezza è una cosa importante e facilissima. Sembrava un Cesare Augusto, infilava una figura retorica dopo l’altra, istintivamente, senza una particolare pianificazione del discorso, suscitando negli astanti un entusiasmo incoercibile, esplosioni di battimani, coretti, schiamazzi, convulsioni febbrili del corpo, accenni di epilettica gratitudine. Il feticismo dell’euforia, appunto, una sintesi emblematica di un costume culturale che fa convergere insieme logiche di marketing ed endocrinologia, efficientismo aziendalistico e fitness, strategie motivazionali e cura del corpo. Proprio in quel momento il barlume si era dissolto lasciandomi davanti agli occhi lo spettacolo di una mezza dozzina di schiene annichilite allagate di sudore, i corpi annodati in un grumo di movimenti sempre più lenti, il vapore che impercettibile si sollevava dalle teste bagnate. E dentro tutto questo, come una sostanza midollare che scorre all’interno della musica, gli slogan di incitamento del trainer, il suo motteggiare soddisfatto, le perorazioni, l’indignazione posticcia contro il cedimento dei suoi atleti, le scaglie aforistiche che rilanciano verso una nuova tappa, verso una nuova sfida. E un senso di disperazione, nelle orecchie e più in fondo, nel labirinto della coclea e nel cervello, nel petto, dentro gli organi e nel sangue e nel respiro.

Smettere di pedalare, scendere. Fare mente locale.

Lo spinning come viaggio. Il viaggio come narrazione
Ogni seduta di spinning è un viaggio: ogni viaggio è una narrazione. Lo spinning mette in scena le componenti fondamentali di ogni viaggio avventuroso, la fuga e la ricerca (c’è una pedalata che si allontana e una che si avvicina, una che sale e una che scende, una che lotta e una che si riconcilia), e ha un andamento ritmico morfologicamente assimilabile a quello dell’Odissea (un’odissea atletica e miniaturizzata) oppure a un moderno road movie americano. Ovvero, le fasi del viaggio-pedalata ricalcano stati d’animo differenti, ognuno rappresentativo di un diverso momento della vicenda narrata: l’euforia iniziale, il desiderio incondizionato di scoperta, l’esitazione perplessa di fronte a un bivio, la soddisfazione cauta per la scelta compiuta, una ripresa di vigore, il senso di minaccia per un pericolo in agguato, lo scatenarsi dell’orgasmo al cospetto del conflitto, l’esplosione, l’ostinazione, il crollo progressivo, l’annientamento, il raggiungimento dello zero fisiologico, la stasi che appare inalterabile, l’abituazione, la rassegnazione, lo stupore contenuto davanti al primo barlume di ritrovata energia, il barlume che si fa bagliore, e poi fiamma, incendio, la resurrezione della fiducia, il nuovo accanimento, l’invulnerabilità, il rogo delle proprie forze che produce rivalsa, vendetta, la commozione guerriera per la santità delle proprie fibre striate, lo strepito dell’energia, l’arsione ininterrotta e incondizionata delle articolazioni, il deliquio degli organi interni, il coito furibondo dei muscoli, di tutti i muscoli del proprio corpo raggiante.

Ecco, il fine dello spinning, quello a cui lo spinning è incardinato come a una condizione imprescindibile, è esattamente la produzione di un corpo raggiante. Di un corpo, cioè, che raggiunto il culmine dello sforzo atletico e dell’euforia si nebulizzi in un abbaglio chiarissimo, in un perfetto oblio. Che sia dimentico di sé, inconsapevolmente persuaso dello splendore di questo oblio. Di questo wu wei, di questa forma di estasi. Un respiro che respira se stesso all’infinito, separato dal corpo reale che lo produce.

Eppure, mi dico, nella negazione del movimento reale che lo spinning comporta – le bike sono drammaticamente inchiodate al pavimento – c’è qualcosa di intollerabile, la violazione di un’esigenza di realtà. Che non può essere solo apparato retorico. Non può.

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Essere incatenati alla gara che non c’è
In Appuntamento a Belleville (Les triplettes de Belleville), il film d’animazione di Sylvain Chomet, ci sono tre ciclisti (quelli che si definirebbero gregari, medie risorse, ultime linee) che, dopo essere stati rapiti mentre stavano disputando una corsa reale attraverso strade e tornanti di montagna, vengono costretti a pedalare all’interno di una specie di hangar, seduti su cyclette immobili. Passano cioè dall’agonismo allo spinning, dalla – permettiamoci di dire – “realtà” alla sua simulazione.
Pedalando, i tre corridori fanno scorrere una catena collegata alle loro bike che a sua volta aziona un proiettore. Il proiettore proietta davanti a loro le immagini in bianco e nero di una strada da tappa del giro, che fugge in avanti senza poter essere mai raggiunta. Un paesaggio che vale da tableau (morente), da pungolo, da stimolo evanescente (la strada proiettata è come la carota sospesa davanti al muso dell’asino, serve a spronarlo, a illuderlo che ci sia una meta da raggiungere, qualcosa per cui andare avanti). I tre ciclisti corrono immobili, pedalano nel vuoto, fingendo una gara che non c’è. Intorno a loro, a evidenziare il carattere “economico” della situazione, ci sono degli scommettitori vocianti. Scommettono sulla gara, si accaniscono, rilanciano le loro puntate. Un ciclista crolla a terra collassato. Il suo corpo viene rimosso e la gara continua.

Alla fine del film i due ciclisti sopravvissuti vengono liberati dalla nonna di uno dei due, Madame Souza, con la complicità del cane Bruno e delle Triplettes. La liberazione consiste nel restituire una mobilità concreta all’atto del pedalare. I ciclisti, scollegati dalla logica della messinscena alla quale erano stati inchiodati, trasformano la loro azione in movimento (per quanto lento e ponderoso), spostando per le vie della città di notte l’intera pedana di legno sulla quale erano montate le biciclette. Una zattera ondeggiante ma resistente.

Nel film di Chomet sono così riassunte le due condizioni, le due polarità, quella dinamico-agonistica (per quanto si tratti di un agonismo umile, stento e antieroico) e quella statico-ideologica.
In entrambi i casi si pedala. In un solo caso il pedalare produce un movimento reale.

Conclusione
Lo spinning esiste in Italia dal 1995. Forza Italia dal 1994.
C’è un rimare curioso e sorprendente tra i due contesti, quello sportivo-ricreativo e quello politico-culturale. Il denominatore comune è la tonalità sulfureo-aziendale della promozione-promessa, il messianismo istintivo di entrambi i fenomeni.
Ne deduco – per paradosso, vale esclusivamente da paradosso – che lo spinning è il modo in cui Forza Italia genera le precondizioni ideali all’attecchimento della propria strategia culturale, insieme elegiaca e promozionale. Ne deduco cioè che sono presenti in questo momento in Italia decine e decine di fenomeni strutturalmente assimilabili – mutatis mutandis – alla cultura del berlusconismo. Ognuno di questi fenomeni, in sé apparentemente diversissimo dagli altri, se osservato controluce rivela la medesima filigrana che contraddistingue la nostra attuale cultura politica. Rivela cioè una retorica costitutiva. Con i suoi schemi, le sue caratteristiche ben precise. Una narrazione, generalmente piuttosto semplificata e involuta ma perfettamente comprensibile ed evidentemente anche persuasiva, attraverso la quale mediare – e non occorre, affinché questo accada, una particolare consapevolezza – un sistema di valori. Diffonderlo e farlo sedimentare.

Quelle che occorrono – ce ne sono già e di potentissime ma ne occorrono ancora – sono quindi, a mo’ di antidoto, continue e violente ecografie della contemporaneità, sistematiche e radicali operazioni di carotaggio. Estrazioni, prelievi, analisi dei campioni di presente che ininterrottamente attraversiamo e intercettiamo. Analisi e successive inoculazioni, restituzioni di reale al reale, da fare avvenire in forma narrativa, soprattutto (non sono certissimo di questo ‘soprattutto’ ma provo a scriverlo), così da proporre al corpo molle della realtà (questo gasteropode!) telai narrativi più complessi e raffinati, più articolati, disperati e visionari, in grado di farsi carico della “cosa” nella quale viviamo.

Prima di chiudere questo pezzo sono passato davanti alla mia palestra. Sulla porta d’ingresso era affissa una comunicazione per gli iscritti. “Domenica 27 febbraio 2005. Partecipa anche tu al giro dell’Argentario. In centoventi minuti da Punta Lividonia a Punta Avoltore. Con il trainer Max. Per informazioni rivolgersi in segreteria.”

Sono stato tentato. Non ho mai visitato l’Argentario.

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