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ISTANTANEE
(viaggio Massa-Sarajevo-Massa 20-24/5/1999)

di Marco Alderano Rovelli

sarajevo.jpgJugoslavia: la condanna della memoria. Dell’inutilità e del danno della storia.

Di nuovo un’alba, non a caso.
“Non farti sapiente per mezzo dei tuoi occhi” (Proverbi 3,7).
Non sono un sapiente, ‘non so nulla’ continuo a ripetere, unica, precaria certezza la verità delle mie sensazioni. E la mia infinita inquietudine, la verità del buco che mi attraversa.

La Neretva ci scorre a fianco. Poco fa la visione è stata folgorante, la vallata con il verde del fiume limpido e brillante, denso come sciroppo (secondo Erri, dice Giuliano, del colore del gheriglio dell’aglio), a snodarsi fra campi e case. Man mano che si scendeva, le tracce dell’uomo si facevano sempre più visibili, una macchina in una scarpata, poi case distrutte dalle granate, tra cui un monastero di monache serbe distrutto dai croati, e campi minati, e cimiteri. L’interrogazione, banale, che mi punge la testa: come questa bellezza può farsi scenario di tanto orrore…

Passiamo sopra Mostar. Sotto di noi la parte est della città, ancora piena di case sventrate. Di là dal fiume la parte croata, occidentale, già ricostruita, con i suoi orribili palazzoni bianchi.
Il cimitero è una grande piana, pare non finire mai.
Di una grande chiesa ortodossa, la più grande di tutta la Bosnia, non sono rimaste che le mura.
Poi si entra nella zona musulmana. E qui sono tutte cattoliche le case distrutte, e così la chiesa. Non verranno mai più ricostruite. Penso a cosa dev’essere, vivere avendo davanti questi scheletri di case nemiche, a perpetuare la memoria all’infinito… l’orgoglio, la divisione, il conflitto, che si rafforzano dentro di te, e divengono natura nei bambini…

Questa lunga vallata chiusa. Il carattere del popolo che lo abita, e che lo ha abitato. La faccia gioiosa, fanciullesca, del soldato ucraino di guardia al ponte.

Al cb Giuliano ricorda che a Jablanica Tito iniziò la resistenza per la lotta di liberazione (lo sento come risarcimento ai ‘comunisti’ di ieri…). Lo stratagemma di Tito col ponte di Jablanica (tagliare i ponti per ingannare l’avversario, arte della guerra e della vita).

Sarebbe l’ora di smetterla di correre sempre dietro alle guerre, bisognerebbe andare a costruire la pace adesso, diceva Giuliano ieri l’altro. Era stato in Uganda, per qualche tempo, a costruire pozzi nei villaggi. Ma la pace, penso, è superiore alle nostre forze. Dipende dalla grazia di Dio… Basta un attimo, per mandare in fumo anni di costruzione della pace. E poi, costruire la pace significa lottare per la giustizia, e questa, di solito, non è una lotta che si può fare nella pace.

Si entra in centro Bosnia. Cambia il paesaggio, ora è più morbido, ondulato, le colline sono ricoperte di conifere. Sulla nostra destra, il monte Igman sulla cui cima risplende ancora la neve. Dietro, c’è Sarajevo.

Mi sono mezzo appisolato, e apro gli occhi che stiamo entrando in Sarajevo. La sede del giornale interetnico ci accoglie, non rimane che lo scheletro di questo grattacielo sbucciato come una banana, macerie come petali a far da base alla spina dorsale del nulla.

Alla sede dell’associazione Sprofondo, ragazzi kosovari seduti davanti alla porta ricordano a tutti che non siamo a far beneficenza, ma siamo tra uguali. Nessuna differenza, nessuna garanzia per nessuno.

Andiamo verso il centro della città, a scaricare il furgone a un associazione di albanesi. La vita di Sarajevo appare inaspettatamente brulicante. Ma è solo apparenza, ci dicono. (Passiamo dal mercato della strage. Silenzio). Poi dicono che a Sarajevo non c’è McDonald’s.

Campo di Rakovica. 1600 kosovari. Luigi e Indira, di Sprofondo, ci portano al campo profughi di Rakovica I. Lei è una giovane musulmana, quando le chiedo se è praticante si mette a ridere, la mia famiglia è internazionale, dice, greci, ortodossi, musulmani. ‘Non c’è futuro per noi giovani a Sarajevo’, per questo tra pochi giorni andrà con Luigi definitivamente a Padova. ‘Magari torno quando sono pensionata’ dice ridendo. Arriviamo al campo. Un grande sterrato e nient’altro, ridicolo parlare di servizi e infrastrutture. I bambini giocano su mucchi di terra e detriti, giocano con pezzi di legno e metallo, e picchiano un bidone, e fanno rumore, picchiano e picchiano, cercano di buttare fuori tutto l’orrore che hanno in corpo.
(Si prendono foto. E’ questo rispettare il dolore? Anche qui, forse, vale l’uso che se ne fa: il modo è il nodo).
Mentre siamo per andare via, Luigi e Indira vengono fermati da un ospite del campo, di loro conoscenza. Ci invita nella sua tenda per un caffè, gli faremmo piacere, dice.
Non entro nella tenda senza essermi levato le scarpe. Dentro, un letto di assi di legno su cui dormono due piccoli e bellissimi gemelli, maschio e femmina. Ci fa accomodare su tre approssimativi letti-divani, mi siedo, un pezzo di ringhiera a far da bracciolo. Subito l’uomo (non saprò il suo nome) prende un pacchetto di sigarette, offrendocene due per ognuno (siamo in sei). E’ stato prigioniero dei serbi per tre mesi, ci dice Indira, ha avuto ferite da taglio alle gambe, la moglie, che ci sta preparando il caffè, è stata violentata davanti alla figlia di otto anni, ai gemellini è stata aperta la pancia con un coltello. La bimba si lamenta nel sonno. I suoi sonni sono sempre agitati, ci dicono. Sulla tavola di compensato che fa da spalliera al letto-divano, la bimba più grande (il suo viso è triste, quando prova a sorridere la tristezza aumenta) ha disegnato una casa, e sopra, come un’apparizione demoniaca, un mitra. E’ da un anno che questa tenda dell’UNHCR le fa da casa, e da cortile questo campo che si fa lago quando piove.
Non riesco a sapere più nulla dei miei genitori, dice il padre, e qui non c’è nulla. ‘Nemoš, nemoš, nemoš’. Vorrei chiedere, sapere: ma (a parte la naturale incapacità della mia voce di far pace con le parole) perché, domandare? E’ sufficiente ciò che vedo, a saturarmi la memoria, a mettere l’ipoteca sui miei ricordi a venire. E poi: chiedere del ‘prima’? Sarebbe riaprire una ferita che è invece da rimarginare, e come far entrare quel ‘prima’ in questa tenda? Sarebbe un peso che questo non-luogo (dove la memoria è annientata) non potrebbe sostenere.
Si sentono degli spari, vicino. Sono quelli che abitano appena fuori del campo, dicono. Quando si ubriacano prendono a sparare. Così ho messo il compensato contro le pareti della tenda, dice lui, a protezione di spari che volassero sin qui. E’ seduto su una sedia, a gambe incrociate, nella postura degli orientali, il busto è eretto, il volto dolorato ma fermo, saldo di una secolare moralità, e mite, non ho mai fatto male ad alcuno ci dice. La moglie ci porta il caffè, lui prende due cartoni di aranciata e versa un bicchiere per ciascuno, poi la cioccolata. Non hanno nulla, e ci danno tutto. Andiamo via senza fiato, devo soffiare via tutta l’angoscia che mi ha preso allo stomaco.

Torno con Giuliano. La Neretva è ancora a risplendermi negli occhi come pietra preziosa.

Ripassando da Konijc, la vedo stracolma di gente – la maggior parte giovani – ai lati della strada. Forse sta per arrivare un’autorità. Forse, chissà, un eroe di guerra.

Siamo nella terra dei croati. I croati sono volpi, diceva ieri Indira. Non c’è differenza tra Tudjman e Milosevic, dicevo io, e Indira confermava, solo che il primo è più furbo e non ha avuto bisogno di assumere il ruolo di massacratore, vestito che invece Milosevic non ha mancato di indossare agli occhi del mondo – e oggettivamente, peraltro.

Mi rendo conto, ora che siamo sulla via del ritorno (in questo momento il poliziotto di frontiera ci controlla i documenti), che quanto più sono andato avanti in questo viaggio, tanto più le parole sono venute meno, e il senso di sgomento fatto più grande. (Il senso di impotenza che mi muoveva non si è reso meno assillante, piuttosto si è accresciuto; il mio buco interiore non si è colmato, si è ulteriormente allargato: la dismisura. Ancora: trovare la misura della dismisura).

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