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L’ORA DELLA MORTE

di Herbert Achternbusch

achternbusch.jpg(Qui di seguito le prime pagine del romanzo, tradotto da Werner Waas.)

L’ora della morte” è il resoconto di un sopravissuto. Ho scritto questo libro e ora mi sento piuttosto bene. Dopo la lettura neanche Lei si sentirà diversamente. Io non volevo scrivere questo libro ma poi mi è venuta una polmonite e tutto quello che mi stavo trascinando dietro ha avuto il sopravvento e ho rischiato di soccombere. Ho approfittato di questo stato di debolezza per interpretare la mia vita in modo nuovo e più coerente di quanto abbia fatto finora. Non ho inventato niente, e tutto corrisponde ai miei pensieri. Semplicemente non mi sono curato della linea di confine fra la mia vita e la vita in generale.

Se io mi interpreto in direzione di qualcosa di generale o se qualcosa di generale si definisce attraverso di me, sta a Lei giudicarlo. Ma per farlo dovrà mettere in gioco tutto l’armamentario della Sua vita, come vive, cosa sogna, di cosa soffre, cosa desidera, cosa pensa sul cesso o mentre sta guardando per un minuto intero la bandierina d’angolo durante una partita di calcio. Pensieri come quelli che vengono mentre ci si stuzzica i denti possono essere d’aiuto durante la lettura. Si ricorda momenti nei quali è stato solo? Cosa prova nel bosco mentre orina? Cosa quando si accorge che un film sta per finire? Se conosce momenti in cui la Sua vita professionale Le è indifferente, in cui non sa più di avere una famiglia, in cui se ne frega di qualunque appartenenza religiosa, in cui rischia di scoppiare a ridere in faccia al nostro governo, in cui la Sua stessa persona non è più un problema per Lei, ecco, quando potrebbe esplodere davanti allo stato delle cose e galleggiare come uovo bianco attraverso l’universo per atterrare subito dopo sulla terra e vivere una vita completamente diversa, allora sì, allora troverà la Sua felicità in questo libro.

Sono cresciuto senza luce elettrica. In una domenica come questa mio padre sta seduto nella sua capanna e guarda fuori nella neve grigia, dalla sua bocca sdentata pende un aggeggio da fumo simile ad una pipa. Nella stufa scoppiettano i ceppi di legno resinato che era sempre andato a scavare nel bosco d’estate quando l’ufficio di collocamento non lo mandava al montaggio. Mia madre sta probabilmente urlando come ha urlato fin da bambina da quando le hanno affondato una lama nel petto, che nessuno si è più preoccupato di togliere. A mezzogiorno mia madre avrà cucinato i crauti, insapori come sempre, perché senza carne. Quando ancora stavo da lei faceva bruciare tutti i budini. Non voglio mai più vedere i suoi capelli appiccicosi. A mio padre piaceva vedere la Rosa. Un giorno si è presa qualcosa sul ponte, per il freddo, ma prima di dover cedere al male e morire, si è ancora avverato in fretta il suo sogno di bambina, di pulire i pavimenti in una parrocchia. Fino a quando era stata commessa in un alimentari inseriva, per fare un favore a mio padre, il tabacco da pipa fra le cose da ordinare. Questo è tutto. La felicità di mia madre non è mai stata un tema.
Quando ho smesso di crescere mi hanno dato il nomignolo “altounmetro”. Mio padre avrà dimenticato perché una volta è stato picchiato da cinque gendarmi: mi aveva portato con se nel bosco, aveva scavato nella terra e la sera mi aveva dimenticato lì perché, mentre lui raccoglieva i suoi attrezzi e poi se ne andava a casa, io stavo dormendo sotto un giovane abete. Troverà la strada da solo, disse a sua moglie. Io avevo dormito tutta la notte nel bosco. Il mattino dopo il contadino, sul cui terreno stava la nostra capanna, ha avvertito la polizia. Quella è arrivata e ha spogliato mio padre nel salotto del contadino per trovare sul suo corpo le tracce di difesa di suo figlio, che, secondo il punto di vista dei gendarmi, era stato violentato e successivamente fatto sparire dal padre. Dal momento che non disse nulla lo picchiarono. La famiglia del contadino si strinse vicino alla finestrella della porta che dava sulla cucina. Poi sono riapparso e il maestro della scuola mi ha fatto una fotografia. Uomini del futuro: figure d’acciaio, era il suo motto. Sulla foto avevo un aspetto come in sogno. Ancora non sapevo che avrei dovuto dedicare tutta la mia vita al lavoro, per buttarla via. Nulla eguagliava in confusione il carattere sperduto dei rami del nostro melo. Ma a volte a me bambino veniva da vomitare per lo schifo e andavo a riprendermi sotto i noccioli nel bosco vicino. Erano teneri verso di me, come amanti, senza starmi sulle dita dei piedi con i tacchi a spillo. Nella mia giovinezza solo il sesso guadagnò in grandezza, ed era difficile celarlo in pubblico. Le mie orecchie si riempivano del fruscìo di pacchetti di sigarette svuotati. Qualcuno m’aveva mai chiesto quale miglioramento della società mi sarebbe andato a genio? Dentro di me c’era una forza che si curvava e si curvava come una lastra di ferro. Mi dovetti curvare per far posto alle curvature del ferro dentro di me. La mia testa non lo comprendeva. La testa è un estraneo e non appartiene alle singole persone. Una volontà c’è sempre, e anche lì dove ti piegano c’è qualcosa, perché fin dalla nascita siamo informi. Mi stavano piegando nel fango e rischiavo di diventare fango. Mi prendevano per scemo, in modo che io precipitassi in tutto quel fango.
Dalla campagna ero arrivato in città ed accettavo qualunque lavoro. Monaco mi fece diventare ancora più piccolo. Allo Stachus stanco, al Lenbachplatz scoraggiato, davanti alla fontana di Wittelsbach impotente. Passai di nascosto sotto il castello di Massimiliano e sembrai sul punto di perdermi nella Briennerstrasse. Avversato dalle banche. Una volta passato davanti alle chiese che mi seppellivano di superbia, davanti ai negozi nella Theatinerstrasse che mi deridevano, impunito, e come per miracolo non ferito da nessuna parola, che io desideravo, mi immaginai di essere tollerato sul marciapiede fino a quando venni colpito comunque da qualche sguardo, sentendomi spinto sulla strada, dove restai al centro perché non sapevo dove andare, ma non avevo neanche voglia di farmi investire. La mano nella tasca dei pantaloni tenevo la mia paga oraria. Non ero costretto a spendere i miei soldi in nessun locale. I miei soldi non urlavano: Lasciaci andare! E se mi compravo come sempre della mortadella per due panini alla salsamenteria Raeucheronkel? E se tanto non avevo sete? Potevo essere soddisfatto delle mie scarpe invernali nella calura. I miei pantaloni erano più resistenti. Questa supremazia mi isolò. Per me era un vantaggio essere sconosciuto all’umanità nella Dienerstrasse. Sentii di avere qualche diritto per il fatto di non partecipare con le nocche doloranti di un operaio stagionale alla determinazione del corso del tempo, anche se non sapevo ancora bene a che cosa avevo diritto. Tutto quel pessimo pubblico non mi stava salvando per lo meno da casa mia? Tutto fuorché stare a letto e non sapere poi a quale ragazza pensare durante la masturbazione. Oppure bere da solo e voler aspettare una fine del mondo incerta.
Non avevo nemmeno cultura sufficiente per fare la corte a qualche ragazza quando il suo culo le tirava i pantaloni. Per questo scappavo via dalla Tuerkenstrasse nel cinema, perché volevo vivere anch’io. Sono stato per 1327 volte al cinema e non ho dormito neanche lontanamente con altrettante donne. Tutte le donne con le quali dormi diventano comunque il preludio di una che non ti sarà mai data. Più tardi delle donne non appare altro che la trasformazione che hanno operato su di te: invecchiamento accelerato. Capitavo senza criterio in film per i quali mi sarei creduto troppo stupido se avessi letto gli annunci che qualche sapientone si era spremuto fuori, capitavo in film che altrimenti non avrei mai visto. “Il Silenzio” di Ingmar Bergman, per esempio, mi è stato alienato per sempre dall’interpretazione fornita da una campagna promozionale. Chi mi risarcirà di questa perdita? Al cinema non voglio pensare ma vedere. Al cinema voglio sentirmi. Di un cinema nel quale non posso riaccertarmi del mio mondo emotivo me ne frego. Io chiedo al cinema un sentimento di giustizia. Per mantenermi in vita ho sempre avuto bisogno del cinema. Troppe cose se ne sono andate via da me nei sogni. Problemi legati ai profughi li ho capiti solo dopo aver visto “Casablanca” di Michael Curtiz. Solo dopo il film “L’abbrutimento di Franz Blum” di Peter Hauff ho saputo difendermi dall’inquietante vicinanza delle prigioni. La maggior parte delle cose le ho dovute vedere sullo schermo perché non avevo abbastanza tempo per dormire e liberarmi nei sogni di tutte le preoccupazioni che mi si appiccicavano di giorno. Dopo aver guardato i lunghi passi dell’astuto Groucho Marx ero di nuovo sulla traccia di un senso della mia vita, sono tornato a casa subito dopo il cinema con il 21 a Ramersdorf e mi sono esercitato nella scrittura. E ho educato la mia lingua per farla diventare scellerata.

***

HERBERT ACHTERNBUSCH
Nato a Monaco nel 1938, cresce da sua nonna a Breitenbach, una fattoria nel bosco bavarese.
Frequenta l’accademia di belle arti di Norimberga e Monaco e lavora all’inizio come pittore e operaio edile ma presto anche come scrittore.
Nel 1967 legge pubblicamente insieme a Guenter Eich e Ilse Aichinger. Nel 1969 scrive il suo primo libro di racconti “Huelle”(Involucro). Nel 1974 realizza il suo primo lungometraggio “Das Andechser Gefuehl” (il sentimento di Andechs). Nel 1975 scrive “Die Stunde des Todes” (L’ora della morte), nel 1976 scrive per e insieme a Werner Herzog la sceneggiatura per il film “Herz aus Glas” (Cuore di vetro). Nel 1977 rifiuta il premio Petrarca. Nel 1978 mette in scena a Stoccarda il suo primo testo teatrale “Ella”. Per il film “Das letzte Loch” (L’ultimo buco) riceve nel 1982 il premio speciale della giuria al festival di Locarno. Nel 1983 la Freiwillige Selbstkontrollo (l’organo di autocensura del cinema tedesco) rifiuta la liberatoria per il film “Das Gespenst” (lo spettro). A Stoccarda, Graz e Zurigo il film viene sequestrato. Nel 1984 nasce la prima serie di acquarelli “Die Foehnforscher”(gli esploratori del Foehn). Nel 1986 riceve il premio della città di Muehlheim per la sua pièce “Gust” e nel 1992 per la sua pièce “Der Stiefel und sein Socken” (lo stivale e il suo calzino).

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2 Commenti

  1. Scusa il ritardo con cui ti rispondo. Per quanto riguarda la pubblicazione in italia del romanzo di Achternbusch, chi lo ha tradotto (Werner Waas) sta tuttora cercando un editore interessato.
    Ciao.
    Antonio

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