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Gradi di scrittura

di Elio Paoloni

hemingw.jpgSono uno scrittore di secondo grado. Intendo dire che la scrittura, per me, sta in secondo piano. “Mi occupo d’altro, io” scriveva Hemingway in Verdi colline d’Africa. “Le assicuro che faccio una gran bella vita” diceva all’interlocutore, e alla domanda scettica “Cacciando kudù?” rispondeva “Certo, cacciando kudù e facendo un sacco di altre cose”.

Gli scrittori di primo grado sono reclusi che sacrificano tutto alla loro opera: D’Arrigo, Proust, Eduardo (che verso la fine confessò – più o meno: “Mi ha accompagnato il gelo. Tanto gelo”) ma anche, non trattandosi qui di eccellenza della scrittura, autori minori che, senza ottenere risultati grandiosi, hanno deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, di consumarsi in questa monomania. Io non intendo consumarmi. Non intendo consumare neanche l’interno dei pantaloni (nel suo diario di viaggio in Russia Antonio Moresco racconta serafico di essersi ritrovato – poco prima della partenza -a pinzare con la cucitrice il cavallo dei suoi unici calzoni pesanti).

Scegliere di essere “scrittore della domenica” dipende non solo e non tanto dalla scarsa considerazione delle proprie qualità quanto dalla scala di valori adottata. Naturalmente guardo ai miei scrittori come a giganti, semidei che mi hanno dato gioia e consolazione, aperto le porte della percezione. Ma so anche che la loro influenza sulla stragrande maggioranza delle persone è inesistente. Uno scrittore, in fondo, è uno che perde e fa perdere tempo. Non riesco a eliminare del tutto dalla “mia” valutazione il peso della valutazione di miliardi di persone. C’è un amico che aveva sempre una domanda da fare quando gli si decantavano le qualità di una persona: “Quanto guadagna?”. Un altro potrebbe chiedere: “Quanti lebbrosi ha curato?”. Ho un bel dirmi: “A persone che hanno regalato queste pagine all’umanità posso concedere tutto. Qualsiasi peccato, la follia delle loro mogli, la miseria e la disperazione dei figli, l’appoggio ai regimi più sanguinari, tutto questo è nulla in confronto al dono che ci hanno fatto”. La realtà è un’altra:abbiamo il dovere di essere delle brave persone. Bravi figli, bravi genitori. Se abbiamo qualità intellettuali dobbiamo farle fruttare per assicurare alla nostra famiglia tutte le possibilità materiali e tutto il nostro appoggio spirituale. Le cose, ovviamente, non sono così semplici: al genio non si comanda, ed è fin troppo scontato associarvi la proverbiale sregolatezza (che tanto scontata non è: vi sono anche esempi di genialità e oculatezza).

Le motivazioni di questo “primum vivere” non sono sempre di natura etica. Spesso anzi, ed è sicuramente il caso di Hemingway, sono egoistiche. O hanno a che fare col vitalismo: per molti, da D’Annunzio a Lawrence, il libro non è mai stato sufficiente, sia pure per motivazioni di carattere puramente artistico (la vita come opera d’arte). Naturalmente non ho di queste pretese: per quel che mi riguarda avverto l’esistenza di una sorta di karma da bruciare, di una vita mediocre ma sensoriale, cinetica, da condurre lontanissimo dalla sfera del pensiero. Anche se, per adoperare le parole che aggiungeva Hemingway in quel libro “devo scrivere perché se non scrivo in una certa misura non posso godermi il resto della mia vita”.Molti anni fa fui colpito dal personaggio di un racconto (credo di Kipling), un distinto funzionario che, prima di dedicarsi completamente ed esclusivamente allo spirito, aveva realizzato una vita esemplare: carriera, famiglia, sistemazione dei figli. Solo da anziano aveva abbandonato ogni cosa per limitarsi a una ciotola da santone. Sarebbe bello avere questa magica capacità di spartire la vita. Prima Cesare e poi Dio. O la Musa. Cammino inverso a quello di Rimbaud, il quale, per altro, è riuscito nell’impresa di consumarsi al peggio in tutte e due le vite.

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8 Commenti

  1. in una di queste fantomatiche scuole di scrittura (che possono anche non servire, come dicono molti, ma questa nello specifico servì a varie e molte cose) uno dei due “professori” portò in classe un discorso di Sandro Veronesi, che aveva parlato ad altrettanti aspiranti, ad altrettanti giovani, quantomeno. Veronesi parlò di “INGOMBRI”, intendendo con questa parola tutta quella serie di paletti mentali (scuse) che lo scrittore, o aspirante tale, mette tra se’ e l’opera. spesso la vita stessa è un “ingombro” perchè usata come scusa per non scrivere. Anche se sono sempre molto affascinata da una figura ricorrente del mondo anglosassone: lo scrittore insegnante di liceo. Perchè poi di qualcosa (e in qualche modo) si deve pur vivere.

  2. Ma perché uno che se ne infischia (francamente) perde tempo a digitare insulti? A mezzanotte, poi. Ubriachezza forse. Acidità di stomaco, di sicuro. Fatti una gastroscopia, Nelli. Anche i migliori beccano l’ulcera.

  3. Quando ci si annusa e ci sono problemi di riconoscimento, scattano a volte reazioni aggressive. Mi dispiace. Ma questa storia dei gradi di scrittura confonde, deprime; e sembra più la storia di un “ingombro”, nel senso indicato da Veronesi in una riflessione comparsa anche qui su N. I. e citata, a proposito, anche nel commento di Emmina.

  4. Sarà pure deprimente ma questi sono i due estremi dell’atteggiamento verso la scrittura. Li ho ricordati sommariamente, per collocarmi, con qualche forzatura, da un lato.
    Immagino che la maggior parte degli scriventi si collochi in realtà tra i due estremi, con molte sfumature. Questa riflessione sul mio atteggiamento voleva sollecitare altre dichiarazioni, tutto qui. Io parlo di andare a caccia, di stare al sole come le lucertole. Di posporre la scrittura. Oppure di anteporla a tutto. Lo psicologismo dove sarebbe?
    Il mio pezzo è una frittata? Sono un cuoco di campagna, non a caso ho intitolato Timballo uno zibaldone che sta in rete. Se il mio rimuginare non ha i requisiti della haute cuisine, concentrati sull’argomento. Ammesso che ti interessi e che tu abbia voglia di dichiarare come vivi quotidianamente la scrittura.

  5. Eravamo a Roma, ricordo, e avevamo fatto una presentazione. L’indomani saremmo andati a Saxa Rubra a registrare un’intervista per una radio della Rai. Giulio Mozzi disse: “Mi piacerebbe scrivere delle cose che servano a qualcosa”, e in quell’affermazione c’era tutta una dichiarazione di poetica che Mozzi stesso ha infuso nel progetto Indicativo Presente. Ecco, questo faccio io, scrittore in terza. Scrivere storie che servano. Raccontare la vita delle persone così che qualcuno ci si possa immedesimare. Non mi importa nulla della letteratura, e ancor meno della Storia. Una narrazione deve funzionare e comunicare con il maggior numero di uomini e donne possibile. E deve farlo adesso, qui, mentre io stesso son vivo e vegeto così che possa osservare la reazione che hanno i lettori e, se del caso, risponder loro, dialogarci, spesso diventarne amico. Scrivere per me ha a che fare con il riferire. È bisogno di comunicazione. È mettere in scena situazioni che altrimenti rimarrebbero confinate al racconto da rivista patinata o da quotidiano. Far muovere su un teatrino personaggi e sentimenti che incarnino topoi dell’immaginario colletivo.
    Dopo che sono usciti Mistandivò e Porto di mare sono fioccate a diecine le lettere da parte di gente che mi diceva sostanzialmente: “Hai raccontato di me e della mia vita”. Questo volevo esattamente. Non volevo dimostrare a nessuno di saper scrivere, e al contrario d’un sacco di ragazzotti che vedo scambiare le grosse case editrici per Dio (anche questa espressione è di Mozzi). I quali vedo trasfigurarsi in poche battute in semidei baciati dal successo per il sol fatto d’essere usciti con una major. Al contrario di tutta questa pletora di gente innamorata, più che dello scrivere, più che del lettore, della figura romantica dello scrittore. Beh, al contrario, a me è successo che le insicurezze mi si son moltiplicate. Che la responsabilità di essere una brava persona s’è acuita. Son diventato ancor più gentile con il genere umano. D’altro canto io propriamente servo il genere umano nel momento in cui mi propongo di raccontare le storie che succedono fra gli uomini. E così faccio politica, faccio figli, assisto malati, lavoro duramente dall’alba a notte fonda per guadagnarmi da vivere, non sto fermo un attimo. Me fotto infinitamente che Torino nei Quaranta era un crocevia di intellettuali che hanno lasciato un segno nella letteratura patria. Me ne fotto enormemente se non vivo in una delle capitali della cultura europea bensì in una brutta cittadina dell’estremo meridione d’Italia, se invece di girare il mondo a rastrellare gettoni di presenza e a bearmi della gente che mi dice “Oh quanto sei bravo”: faccio il patetico mestiere del maestro di scuola. Non mi importa neppure se non ho letto cinquecento scaffali di libri, come suggerisce Scarpa in “Che cos’è questo fracasso”. Foster Wallace mi fa vomitare e trovo Piperno bravissimo. A Pynchon preferisco Brigitte Jones. Conosco la grammatica italiana e tanto mi basta per raccontare delle persone che mi hanno fatto ridere, di quelle che mi hanno fatto incazzare, di quelle che mi hanno fatto piangere, di quelle che ho amato e di quelle che ho detestato. Scrivo quasi ogni giorno. Articoli, interventi, reportage, elzeviri, opere teatrali, racconti, progetti, sceneggiature. Riporto. Mi impregno delle storie e ne racconto.
    Un mio caro amico veneziano una sera stava per picchiarsi con uno psichiatra che lo aveva insultato in un bar. I due presero a offendersi pesantemente. Il veneziano a un certo punto disse, in dialetto: “Ma vattene via ché non hai mai cresciuto figli”. Non so se fosse un’espressione veneta tipica oppure se se la fosse inventata lì per lì. Ma ho l’impressione che all’intera boheme che sermoneggia sull’idea di scittura di destra e su quella di sinistra, si possa facilmente replicare: “Non avete diritto di dire una sola parola sulla vita perché non avete mai cresciuto un figlio”.

  6. Scopro oggi grazie a Magris (l’articolo è di qualche giorno fa) che per Kafka il padre di famiglia ebraico, con la sua responsabilità, rappresentava un modello umano più alto dello scrittore.

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